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Premessa alla nuova edizione di «Lo Schiavo americano dal tramonto all’alba», di Gerge P. Rawick






Proponiamo per vortex la prefazione di Bruno Cartosio alla nuova edizione di Lo schiavo americano dal tramonto all'alba di George P. Rawick, curata da Anna Curcio e recentemente pubblicata da DeriveApprodi.

Scritto all’inizio degli anni Settanta, sulla scena dei movimenti americani per il Black Power, questo libro ricostruisce la vita dello schiavo dal tramonto all’alba, descrivendo la sua quotidianità e i suoi percorsi biografici e analizzando la sofferenza e le pratiche che hanno formato la comunità africano-americana e contribuito alla sua liberazione. Il volume si basa su un vastissimo progetto di storia orale, con migliaia di interviste a ex schiavi prima e dopo la guerra civile americana. Rawick mostra come lo schiavo americano non sia stato una semplice vittima, ma protagonista di lotte e sovversione. Il libro ha imposto una svolta radicale nello studio della società americana e della schiavitù.

La nuova edizione di un classico introvabile e tradotto in decine di lingue è arricchita da questaprefazione di Bruno Cartosio, uno tra i principali storici e studiosi internazionali degli Stati Uniti.


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George Rawick era venuto per la prima volta in Italia nel 1964 da turista; la sua seconda volta fu nel novembre 1967, da conferenziere. Tenne conferenze e dibattiti a Trento, Milano, Torino e Firenze per parlare delle «forze per il cambiamento presenti nella società statunitense». Il discorso alla Facoltà di sociologia di Trento e alla Statale di Milano era intitolato, Potere nero e lotte operaie [1]. Di Milano avrebbe poi sempre raccontato il proprio stupore nel vedere il lenzuolone con la grande scritta «Black Power», nero su bianco, che campeggiava su una parete del grande atrio d’entrata in via Festa del Perdono. L’altra sorpresa, subito dopo, gli venne dal constatare che gli studenti venuti ad ascoltarlo erano centinaia. Niente di strano, in realtà, in quell’accoglienza, sebbene in quei giorni fossero molto pochi a conoscerlo [2].

L’interesse per i movimenti statunitensi degli studenti e contro la guerra, ma soprattutto degli afroamericani era massimo: lo slogan «Black Power!» e il Partito della pantera nera erano nati un anno prima e nell’appena trascorsa estate delle grandi rivolte urbane di Detroit e Newark, l’uscita dell’Autobiografia di Malcolm X aveva avuto uno straordinario, immediato successo [3]. Negli anni precedenti l’editoria italiana aveva già tradotto qualcosa, ma tra allora e i primi Settanta avrebbe tradotto quasi in presa diretta molto di quello che pubblicavano gli editori statunitensi più aperti ai movimenti. Grazie alla crescita dei contatti e degli scambi diretti tra militanti, saggi e articoli di valore iniziarono a circolare anche nelle riviste di movimento, su tutte i «Quaderni piacentini». Come oltreoceano, ma ovviamente su un’altra scala, anche la nostra editoria maggiore – Einaudi, Laterza, Feltrinelli – rispose all’evidente bisogno di sapere messo in moto dall’interesse suscitato dal protagonismo afroamericano. Lo schiavo americano fu tradotto e pubblicato nel 1973, preceduto e seguito da alcune altre importanti opere di approfondimento storico-sociologico [4]. Per migliaia di giovani quelli furono gli anni della letterale scoperta di un’America inaspettata, di cui non si sapeva nulla o quasi.

Negli Stati Uniti, la pubblicazione di From Sundown to Sunup era avvenuta nel 1972, quando la parabola dei movimenti – nero, studentesco e contro la guerra – era entrata nella sua fase calante. Solo quello delle donne, nato e cresciuto più tardi rispetto a quelli «maschili», era ancora in piena espansione. Nel ricordo di Todd Gitlin, il triennio 1969-70-71 fu lo spartiacque: «i tempi erano di sofferenza per gli uomini del movimento, di entusiasmo per decine di migliaia di donne. Non erano separati soltanto i movimenti, erano separate le agende» [5]. Anche il movimento operaio, di cui le componenti giovanili del Movimento si erano pressoché disinteressate per tutti gli anni Sessanta, era in quel momento nel pieno di un’eccezionale ciclo di lotte di massa che si sarebbe protratto ancora per qualche anno.

Non è per nulla paradossale che cominciasse allora, dopo la «semina» da parte dei movimenti, la stagione del raccolto sul terreno della ricerca, di cui il libro di Rawick fu uno dei primi esempi. Le inquietudini degli anni Cinquanta erano deflagrate nel decennio successivo. La fine del «liberalismo della Guerra fredda» e il Movimento avevano liberato sia il nuovo attivismo socio-politico a viso aperto dei più giovani, sia un nuovo fervore intellettuale per tanti studiosi-militanti meno giovani già inseriti nelle università.

Ma non pochi tra quelli che si avvicinarono alla Nuova sinistra avevano le loro radici familiari e culturali nella Vecchia sinistra [6]. Per loro la classe operaia non era un’entità separata. Furono loro a produrre i primi risultati di ricerche storiche innovative a cui i più giovani avrebbero dato seguito rapidamente.

Emersero allora la prospettiva from below o from the bottom up, «dal basso», e le ricerche di «storia orale» che poi avrebbero caratterizzato la storia sociale non solo negli Stati Uniti [7]. È indicativo che gli innovatori della storiografia sociale – tra loro, insieme con Rawick, Rudolph Vecoli, David Montgomery, David Brody, Herbert Gutman e Staughton Lynd, nati tra il 1927 e il 1930 (Al Young e Howard Zinn erano rispettivamente del 1925 e 1922) – avessero nella schiavitù e nella classe operaia i loro campi di ricerca privilegiati.

Negli stessi anni cambiava anche la storia delle donne, grazie a studiose – non a caso – di qualche anno meno giovani: Gerda Lerner era nata del 1920, Anne Firor Scott e Betty Friedan nel 1921 (e la capostipite Eleanor Flexner addirittura nel 1908). Nel 1981, guardando indietro ai frutti del decennio appena concluso, Herbert Gutman, poté affermare che «una nuova generazione di storici ha iniziato a riscrivere la storia degli Stati Uniti». Non era ancora stata prodotta una «coerente sintesi» generale all’altezza delle innovazioni prodotte dalla nuova ricerca, ma non c’era dubbio che «alla fine degli anni Settanta interi segmenti della storia americana erano cambiati»: una «ricca ricerca empirica ha gettato nuova luce sulla storia di gruppi spesso misconosciuti o trascurati come i neri, i lavoratori e le donne» [8].

A quella riscrittura della storia i 41 volumi del lavoro di Rawick diedero un contributo decisivo, a cominciare dal primo, l’introduttivo From Sundown to Sunup. Ripubblicare ora quel volume a quasi cinquant’anni dalla sua traduzione italiana ha senso perché è un libro che ci parla ancora e in molti modi. In poco più di duecento pagine – inutile dire che non è traducibile la lunga «coda» dei volumi di testimonianze degli ex schiavi, o slave narratives [9] – esso ha imposto agli studiosi delle schiavitù nelle Americhe una svolta nella definizione del campo della ricerca, della sua prospettiva politica e dei suoi presupposti metodologici. A decidere della rilevanza e durata di certe opere sono da una parte gli squarci di consapevolezza che hanno aperto e quindi la portata innovativa che hanno avuto alla loro uscita e, dall’altra, le capacità di continuare a essere utili a chi le legge nel suo presente, attraverso gli anni, mostrando «che cosa conta» e a quali fonti bisogna accedere, fornendo conoscenza del passato e insieme proponendo strumenti e metodi durevoli per interpretare la realtà [10].

Prima di lui (e di quelli che dalla sua opera presero le mosse [11]) tre generazioni di storici avevano dato per non esistenti o insignificanti le voci degli ex schiavi; quasi sempre, inoltre, considerando irrilevanti perfino le duecento loro autobiografie scritte e pubblicate tra la fine del Settecento e il Novecento. Nelle narratives riportate alla luce da Rawick gli schiavi parlano di sé, dando allo storico la possibilità di ricostruire la dimensione collettiva delle loro vite e quei margini di self-activity, autonomia di pensiero e attività per sé, che impedirono agli schiavi di diventare «vittime totali». «La creazione della comunità nera in schiavitù – scrive Rawick – fu un processo che si sviluppò in larga parte al di fuori dei rapporti di lavoro». Le sue articolazioni sociali e culturali, costruite nel tempo tra il tramonto e l’alba – quando l’autonomia dal controllo padronale poteva essere maggiore – sono state il collante dell’esistenza stessa degli individui anche nelle ore del lavoro dall’alba al tramonto [12]. E della loro resistenza, fino al momento in cui il 10 per cento di tutti gli schiavi, ex schiavi e neri liberi degli Stati Uniti si sollevarono, «contribuendo a spingere un Nord riluttante sulla strada dell’emancipazione» e imponendo l’abolizione della schiavitù come obiettivo primario della Guerra civile; vale a dire quando, nell’immagine incisiva di W.E.B. Du Bois, «con passi indecisi e svogliati il governo degli Stati Uniti seguì le impronte degli schiavi [13].

Lo schiavo americano rovescia la storia codificata mezzo secolo prima da Ulrich B. Phillips – la schiavitù raccontata solo dai padroni e dai loro simili – e fino a quel momento dominante, presso sia chi ne adottava l’ideologia, sia chi ne controbatteva l’impronta razziale reinterpretando le fonti senza però mutarne la natura [14].

Rawick introduce nella storia la voce degli schiavi. Attraverso le parole della loro «composita autobiografia» esplora la complessità delle dinamiche interne al sistema schiavistico e alla comunità afroamericana. Lo fa, naturalmente, facendo i conti con tutta la storiografia precedente, ma utilizzando appieno la straordinaria dovizia di fonti da lui stesso ricercate, recuperate e studiate proprio per poter chiamare migliaia di interviste a raccontare la soggettività individuale e collettiva di persone nate in schiavitù. Nessuno lo aveva fatto prima. E dopo di lui nessuno ha più potuto ignorare il principio stesso del «racconto collettivo», della «contronarrazione» – nelle parole di Henry Louis Gates [15] – rappresentata dall’insieme delle voci di tanti singoli ex schiavi.

Fu subito chiaro che la domanda implicita in quel rovesciamento travalicava il campo della ricerca sulla schiavitù. Rawick stesso, che nel 1969 aveva scritto della necessità di studiare la self-activity operaia in un breve saggio seminale, fu tra i primi a cogliere l’importanza di valorizzare le «voci» dei singoli nella storia della classe operaia: «La storia orale può diventare un modo importante per venire a sapere tante cose della vita della classe operaia» [16]. Un altro fu Herbert Gutman, nel suo insegnamento e nella sua ricerca sulle «idee e sul comportamento dei comuni lavoratori americani» [17].

Un altro ancora David Montgomery, che nei suoi corsi di storia della classe operaia a Pittsburgh, spingeva i suoi studenti ad andare nei quartieri operai e a registrare le interviste. Nel 1979 diceva: «Dopo l’invenzione magica del registratore, […] grazie ai giovani che arrivano da fuori e fanno parlare i vecchi nelle comunità nere e nelle comunità operaie il passato è in certo senso stato resuscitato». E nel 1987, in apertura del suo libro forse più ambizioso, ribadiva la necessità per lo storico di sintonizzarsi «su molte voci diverse, a volte in armonia, ma spesso in conflitto tra loro», perché «scrivere della classe operaia vuol dire discutere di molti individui disparati» [18]. La proposta «operativa» investiva il presente e il futuro degli storici e delle storiche: come raccogliere, valorizzare, studiare e includere nella storia quelle soggettività individuali e di gruppo – minoranze, donne, classe operaia – che la cultura politica dominante aveva ignorato o soppresso; in una parola, come scrisse Sheila Rowbotham, hidden from history [19].

Torniamo alla schiavitù. Nel panorama della storiografia che si può dire sia stata «sedimentata» dal movimento nero spiccano le due opere, del bianco Rawick e del nero John Blassingame. Uscite entrambe nel 1972, esse rompevano, come scrisse Blassingame, «in modo drastico con la tradizione storiografica americana» entro il cui contesto «gli storici non hanno mai esplorato in modo sistematico le esperienze di vita degli schiavi» [20]. Quei due libri e le fonti primarie che i loro autori mettevano al centro dell’attenzione furono, come ho detto, le boe storiografiche attorno a cui la ricerca successiva avrebbe dovuto virare d’allora in poi.

Entrambi dichiaravano già dal titolo la loro focalizzazione sulle radici storiche della comunità nera: From Sundown to Sunup: The Making of the Black Community e The Slave Community: Plantation Life in the Antebellum South [21]. Non c’è dubbio che siano state le rivendicazioni e le affermazioni di sé avanzate dalla comunità nera in quanto soggetto collettivo a fornire le motivazioni di fondo per la loro ricerca, ma era stato poi il dirompente protagonismo afroamericano sulla scena culturale, sociale e politica dei vent’anni precedenti

che ne aveva modellato la prospettiva e personale sensibilità. Quel protagonismo aveva anche facilitato l’accesso ai finanziamenti e agli sbocchi editoriali – particolarmente impegnativi nel caso di Rawick – per i risultati della ricerca. Nessuna università aveva mai incentivato, né finanziato una puntigliosa riscoperta e rilettura delle autobiografie di ex schiavi come quella condotta da John Blassingame [22]; e nessun editore, dopo la raccolta che ne era stata fatta negli anni Venti e Trenta, aveva mai finanziato il lungo lavorìo di rintracciare e ripubblicare le migliaia di interviste con gli ex schiavi compiuta da Rawick nel corso di oltre un decennio [23]. Non furono solo Blassingame e Rawick, naturalmente, gli unici studiosi a trarre vantaggio dal fatto che nella società delle merci, dopo la lunga gelata della Guerra fredda, le minoranze e le classi subalterne, i conflitti sociali in atto e i movimenti antagonisti erano diventati marketable, vendibili.

La ricerca di Rawick non si concluse con Lo schiavo americano e la prima serie dei 18 volumi di narratives che lo seguivano. Era chiaro che altre narratives, inspiegabilmente «assenti» da quanto era archiviato nella Library of Congress, sarebbero dovuti esistere in diversi singoli Stati, più o meno nascoste o dimenticate. L’indagine proseguì e alla fine la fatica fu premiata: tornò alla luce l’equivalente degli altri 22 volumi che portarono l’intera serie a 40. Nel 1977, quando il processo di ricerca nei depositi statali era concluso e lo studio completato (anche se non lo erano ancora le uscite), Rawick scrisse una General Introduction all’intera raccolta [24]. Diversamente che nello Schiavo americano, lo storico parlava qui soprattutto ai ricercatori. Nelle pagine iniziali citava brevemente gli autori che prima di lui avevano ricordato l’esistenza delle testimonianze o avevano attinto a esse, dava conto della corrispondenza più significativa scambiata nel corso della ricerca con alcuni colleghi (tra cui Blassingame) e ricostruiva il processo del suo completamento, portato a termine grazie al decisivo contributo intellettuale e materiale dei più giovani Ken Lawrence e Jan Hillegas. Ed erano puntigliose le pagine successive, dedicate a rendere conto dell’individuazione delle interviste effettuate ma mai inviate a Washington, dei perigliosi percorsi del loro reperimento e delle persone coinvolte nel recupero degli scatoloni accantonati nei depositi (o dimenticatoi) delle biblioteche e archivi degli Stati.

Nella parte centrale entrava nel merito degli aspetti metodologici e, per così dire, della utilizzabilità dei «materiali». Anzitutto – come Botkin e Yeatman prima di lui e come Blassingame per le autobiografie – ribadiva con forza la validità delle narratives come fonte per la conoscenza del mondo degli schiavi, in alternativa a quanti avevano basato le loro ricostruzioni della schiavitù su «i diari dei piantatori, gli annunci [giornalistici] che denunciavano gli schiavi fuggitivi, e i saggi sul governo degli schiavi pubblicati sulle riviste di agricoltura del Sud». Fonti, queste, dove «l’inganno e la distorsione» in cui si riflettono «la visione e la comprensione limitata dei piantatori» sono molto più gravi delle imprecisioni del ricordo degli ex schiavi. Naturalmente, precisava, anche le parole degli ex schiavi vanno analizzate e trattate con la stessa attenzione critica che «gli storici competenti riservano a ogni fonte storica» [25].

Parte di quella cura sta nel non usarle «a sproposito», e Rawick individuava «tre modi fondamentali in cui le slave narratives non devono essere usate» [26]. In questa sede non si può che sintetizzare all’estremo. La prima avvertenza: non bisogna usarle ai fini di uno studio sistematico della parlata nera e del black English, date le diversità di attenzione e competenze linguistiche tra gli intervistatori e la varietà degli atteggiamenti nei confronti del «rendere» il linguaggio degli intervistati nelle trascrizioni (solo poche interviste furono registrate [27], nessuna fu stenografata e a volte la loro stesura avveniva a posteriori sulla base di appunti). In secondo luogo: usarle con cautela o non usarle affatto per condurre «studi quantitativi su aspetti particolari» [28]. Inoltre, le narratives forniscono una quantità di informazioni su temi come il trattamento, la salute, la durata della vita, il parto e la crescita dei figli, lo sfruttamento sessuale delle donne, le punizioni, la quantità e qualità di cibo, vestiario e abitazioni e così via, ma va tenuto in conto che spesso esse risultano «esagerare l’umanità del sistema», a causa sia degli interventi censori degli intervistatori che essendo tutti meridionali «non volevano mettere il Sud in cattiva luce», sia del possibile imbarazzo dei vecchi neri nel rispondere a giovani (nel complesso, meno di

un terzo degli intervistatori erano maschi neri e oltre la metà dei bianchi erano donne [29]), sia infine della situazione sociale «debole» di tanti intervistati, che poteva indurli a compiacere chi li ascoltava o comunque a non calcare la mano per non suscitarne l’animosità. Come è facile immaginare, Rawick ragionava estesamente e in dettaglio su queste questioni, per lo storico le più delicate e ricche di implicazioni [30].

In terzo luogo, citando qui per esteso, «le narratives non devono essere usate per illustrare alcun “modello” o “teoria” precostituita, e quindi sovrimposta, tesa a spiegare le convinzioni e i comportamenti degli schiavi. Il che non equivale a dire che le teorie non diano forma all’analisi storica, ma a insistere che i dati – narratives incluse – non possono essere usati semplicemente per illustrare una teoria già pronta». D’altro canto, il rispetto di questa elementare «regola deontologica» non deve disconoscerne il loro valore di «fonte importante» per accedere «ai ricordi e pensieri sulla schiavitù di chi era stato schiavo. […] Ricordi e pensieri che devono essere lasciati parlare»[31]. In base a queste premesse, Rawick discuteva quindi le impostazioni diversamente significative dei lavori di alcuni altri storici suoi contemporanei, in particolare Roll, Jordan, Roll di Eugene Genovese (1974), Black Culture and Black Consciousness di Lawrence Levine (1977) e The Black Family in Slavery and Freedom di Herbert Gutman (1976).

Subito dopo, prolungando lo sguardo critico sul futuro della disciplina, tratteggiava alcune brevi notazioni che prefiguravano linee di ricerca a cui avrebbero potuto dare vita altri studiosi più giovani che «non si fossero lasciati spaventare» dalla pura e semplice mole delle narratives (e delle autobiografie). La contronarrazione di schiavi ed ex schiavi sarebbe potuta essere un punto di partenza, da una parte, per scrivere la storia delle donne nere e continuare il lavoro sulla vita collettiva dei neri nel suo complesso, e dall’altra, per scavare ancora e scrivere una nuova storia della Guerra civile e dei decenni post-schiavitù, dalla Ricostruzione alla istituzionalizzazione della segregazione razziale nel contesto della storia nazionale [32]. Ma soprattutto ribadiva che le narratives sarebbero dovute «essere impiegate nel ricostruire la storia della classe operaia americana, una parte della quale ha i suoi inizi nella schiavitù» [33].

Infine, nelle cinque pagine conclusive dell’Introduction, Rawick elencava il grande numero di persone, una per una, alle quali erano dovuti i ringraziamenti per i tanti modi diversi con cui l’avevano aiutato nella sua lunga ricerca e nel lavoro redazionale, a memento del fatto che quella di ogni singolo storico è un’impresa collettiva e che anche quella degli storici è una piccola comunità.



marzo 2021



Note

[1] F. Gambino, George Rawick in Europe: A Remembrance, in D. Roediger – M. Smith, a cura di, Listening to Revolt: The Selected Writings of George Rawick, Charles H. Kerr, Chicago 2010, pp. 136-147. Il testo delle conferenze di Trento e Milano fu pubblicato l’anno successivo dalla Libreria Feltrinelli di Milano nell’opuscolo, U.S.A. /Dalle strade alle fabbriche, a cura del Centro Giovanni Francovich di Firenze, pp. 5-24. [2] Un’accoglienza analoga fu riservata un anno dopo all’ex operaio, militante e intellettuale afroamericano James Boggs, già noto nella sinistra italiana. Di Boggs, pubblicato per la prima volta da «Quaderni rossi» (1964) e poi da «Quaderni piacentini» (1967), erano appena usciti La rivoluzione americana («Monthly Review», ed. italiana) e Lotta di classe e razzismo (Laterza). Nel 1967, George Rawick era invece conosciuto solo a pochissimi ricercatori. Prima de Lo schiavo americano, oltre all’opuscolo citato, sarebbero stati pubblicati: Le radici storiche della liberazione nera, «Quaderni piacentini», anno VIII, n. 37, marzo 1969, pp. 77-84 e Anni Venti: lotte operaie USA e Anni Trenta lotte operaie USA, in AA.VV., Operai e stato, Feltrinelli, Milano 1972, pp. 47-53, 135-146. [3] Autobiografia di Malcolm X, Einaudi, Torino 1967 (1965). Nello stesso anno a Roberto Giammanco, curatore del libro, si dovette anche la cura di Black Power/Potere Negro. Analisi e testimonianze, Laterza, Bari 1967. [4] Tra le opere più significative: K.B. Clark, Ghetto negro (Einaudi, Torino 1969); D.B. Davis, Il problema della schiavitù nella cultura occidentale (SEI, Torino 1971); E.D. Genovese, L’economia politica della schiavitù (Einaudi, Torino 1972); AA.VV., Da schiavo a proletario (Musolini, Torino 1973); B. Armellin, La condizione dello schiavo (Einaudi, Torino 1975). Su quanto veniva tradotto e letto sul movimento nero, si può vedere: N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro, 1968-1977, II ed. a cura di S. Bianchi, Feltrinelli, Milano 1977, in particolare le pp. 70-81. [5] T. Gitlin, The Sixties: Years of Hope, Days of rage, Bantam Books, New York 1987, p. 374. [6] Due volumi collettanei testimoniano esemplarmente le continuità-rotture connesse con la presenza dei movimenti: B.J. Bernstein, a cura di, Towards a New Past: Dissenting Essays in American History, Pantheon Books, New York 1968 e A.F. Young, a cura di, Dissent: Explorations in the History of American Radicalism, Northern Illinois University Press, DeKalb 1969. Inoltre, si vedano almeno: P. Buhle, History and the New Left: Madison, Wisconsin, 1950-1970, Temple University Press, Philadelphia 1990 e Id., Marxism in the United States, Verso, London 1987. [7] Mentre l’espressione «from below» è di solito attribuita a E.P.Thompson (History from below, «Times Literary Supplement», 7 April 1966), quella «from the bottom up» è attribuita a Jesse Lemisch (Towards a Democratic History, Radical Education Project-SDS, 1966). J.R. Barrett, History from the Bottom Up and the Inside Out, Duke University Press, Durham 2010; S. Lynd, Doing History from the Bottom Up, Haymarket Books, Chicago 2014. Per i primi passi della oral history in quegli anni, si vedano almeno: S. Terkel, Division Street: America, Random House, New York 1967 (trad. it. Indagine su Division Street, Chicago, Il Saggiatore, Milano 1969); Id., Working: People Talk About What They Do All Day and How They Feel About What They Do, Pantheon, New York 1974; A. e S. Lynd, Rank and File: Personal Histories by Working Class Organizers, Monthly Review Press, New York 1973 e, per un breve quadro di contesto, il mio Parole scritte e parlate, SMS Ernesto de Martino, Venezia 2016. [8] H.G. Gutman, Whatever Happened to History?, «The Nation», 21 novembre 1981, pp. 521, 553-554. I primi due tentativi più significativi di sintesi della nuova people’s history sono stati H. Zinn, A People’s History of the United States, HarperCollins, New York 1980 e i due ambiziosi volumi di Who Built America?, a cura dell’American Social History Project iniziato e diretto da Herbert Gutman fino alla sua morte nel 1985 (Pantheon Books, New York 1990 e 1992). [9] G.P. Rawick, Lo schiavo americano dal tramonto all’alba, Feltrinelli, Milano 1973 (ed. orig. The American Slave: A Composite Autobiography. Vol. 1: From Sundown to Sunup: The Making of the Black Community, Greenwood Publ. Co., Westport, CT 1972). L’intero corpo dell’opera è composto di 41 volumi: From Sundown to Sunup uscì nel 1972 insieme con la prima serie di 18 volumi di slave narratives (tutti e 19 sono presenti in Italia nella biblioteca dell’Università di Milano) e altre due serie di 10 e 12 volumi furono pubblicate nel 1977 e 1979. A lavoro ultimato i 40 volumi raccoglievano oltre 4000 «voci» di ex schiavi. Le narratives, «nate» come interviste raccolte in piccola parte dalla Fisk University negli anni Venti e grazie alla Work Projects Administration del New Deal, si presentano come racconti autobiografici di lunghezze variabili, residuati dalla cancellazione delle domande da parte degli stessi intervistatori nelle loro redazioni finali. [10] Queste le caratteristiche di alcune delle opere storiche che ebbero un’importanza decisiva per lo stesso Rawick: Black Reconstruction di W.E.B. Du Bois (1935); Black Jacobins di C.L.R. James (1938); The Making of the English Working Class di E.P. Thompson (1963). [11] All’inizio di Remembering Slavery: African Americans Talk about Their Personal Experiences of Slavery and Freedom (New Press, New York 1998, p. XVII), i curatori I. Berlin, M. Favreau e S. Miller citano alcuni dei principali studiosi per i quali il lavoro di Rawick era stato fondamentale: John W. Blassingame, Eugene D. Genovese, Herbert G. Gutman, Lawrence Levine, Leon F. Litwack, Albert J. Raboteau, Thomas L. Webber. Tra i primi anni Settanta e il 2018, Ira Berlin fu il maggiore studioso e organizzatore della ricerca incentrata sulla storia degli afroamericani durante e dopo la schiavitù; le sue opere principali: Slaves Without Masters (1974); Many Thousand Gone (1998); Generations of Captivity (2003) e Freedom: A Documentary History of Emancipation, 1861-1867, 5 voll., Cambridge University Press, Cambridge, MA 1985-2013 (di cui fu ispiratore e principale curatore). [12] Infra, p. 50. [13] E. Foner, Storia della libertà americana, Donzelli, Roma 2000 (1998), p. 142; R. Blackburn, Il crogiolo americano. Schiavitù, emancipazione e diritti umani, Einaudi, Torino 2020 (2013), pp. 491-504; Du Bois cit. in E. Foner, A Short History of Reconstruction, 1863-1877, Harper & Row, New York 1990, p. 3; B. Levine, La guerra civile americana, Einaudi, Torino 2015 (ed. orig. Half Slave and Half Free: The Roots of Civil War, Hill and Wang, New York 1992). [14] Il capostipite della storiografia razzista della schiavitù è universalmente considerato U.B. Phillips, nelle cui opere principali, American Negro Slavery (1918) e Life and Labor in the Old South (1929), nessuna fonte non-bianca è mai considerata. Un esempio della sua egemonia si riscontra nell’opera di uno dei suoi critici più puntuali, K.M. Stampp, The Peculiar Institution: Slavery in the Ante-Bellum South, Vintage Books, New York 1956, che pur partendo da assunti e prospettive «diverse» da quelle di Phillips, non ne cambiò «i metodi, le fonti e i risultati» (p.VIII). [15] H.L. Gates Jr., a cura di, The Classic Slave Narratives, Mentor Books, 1987; Introduction, p. X; Id., Tredici modi di vedere un nero. I significati del caso O.J. Simpson, «Ácoma. Rivista internazionale di studi nordamericani», anno III, n. 7, primavera 1996, pp. 13-14: «Le persone capiscono se stesse e il mondo attraverso narrazioni […]. E usano contro-narrazioni per contestare quella realtà dominante e i presupposti su cui si regge». Gates è stato anche curatore generale della Schomburg Library of Nineteenth Century Black Women Writers, che ha ripubblicato presso la Oxford University Press decine di testi di afroamericane (anche narrativi e poetici, non solo autobiografici). [16] G.P. Rawick, Working-Class Self-Activity, «Radical America», vol. III, n. 2, marzo- aprile 1969, pp. 23-31; Id., Some Notes on the Development of Life Histories of Working Class People in the United States dattiloscritto inedito, University of Missouri-St. Louis, 11 marzo 1979, p.1. [17] H.G. Gutman, Lavoro, cultura e società in America, De Donato, Bari 1979, p. 21 (1976). [18] «Ma dove eravate, voi comunisti, negli anni Venti?». La nuova storia di una classe operaia. A colloquio con Montgomery e Mason, a cura di E. Fano, «il manifesto», 4 maggio 1979; D. Montgomery, The Fall of the House of Labor, Cambridge University Press/ Editions de la maison des science de l’homme, Cambridge/Paris 1987, p. 1. [19] S. Rowbotham, Hidden From History: 300 Years of Women's Oppression and the Fight Against It, Pluto Press, London 1973 (trad. it. Esclusa dalla storia, Editori Riuniti, Roma 1977). [20] J. Blassingame, The Slave Community: Plantation Life in the Antebellum South, Oxford University Press, New York 1979, p. XI (1972). [21] Nel sottotitolo di Rawick era esplicito il richiamo a E.P. Thompson, The Making of the English Working Class. [22] Il lungo saggio critico sulle fonti e la bibliografia che chiudono il suo libro (revised ed. 1979, pp. 367-402) ne sono testimonianza. Prima di lui, C.H. Nichols (Many Thousand Gone, 1963) e G. Osofsky (Puttin’ On Ole Massa, 1969) avevano lavorato sulle autobiografie mettendone in evidenza importanza, qualità e limiti e discutendone in qualche caso l’attendibilità, ma nessuno aveva affrontato l’intero «campo» con la stessa completezza di Blassingame. La sua acribia non gli impedì di sbagliarsi nel giudicare apocrifa e «romanzo» l’autobiografia di Harriet Jacobs (Incidents in the Life of a Slave Girl, 1861). Tuttavia quando Jean Fagan Yellin ne curò la ripubblicazione nel 1987 dimostrandone in modo inoppugnabile l’autenticità, Blassingame tornò volentieri sui suoi passi (ed. it. Harriet A. Jacobs, Autobiografia di una ragazza schiava, a cura di S. Antonelli, Donzelli, Roma 2004). [23] Prima di Rawick pochi avevano usato le narrratives. Tra questi B.A. Botkin, che nel 1938-39 ne era stato folklore editor e nel 1941 aveva sovrinteso al deposito presso la Library of Congress delle oltre duemila testimonianze del WPA allora note. Botkin ne aveva poi pubblicato frammenti e una ventina per intero – l’equivalente di 500-600 pagine dattiloscritte su oltre 10.000 – in una selezione organizzata tematicamente in Lay My Burden Down: A Folk History of Slavery, University of Chicago Press, Chicago 1945. Anni dopo lo storico N.R. Yeatman ne aveva sottolineato l’importanza in un saggio del 1967 (The Background of the Slave Narrative Collection, «American Quarterly», n. 19, 1967, pp. 534-553) e ne aveva fatto ampio uso, ripubblicandone un centinaio nel suo Voices from Slavery, a cura di, Holt, Rinehart and Winston, New York 1970. Tra quelle due pubblicazioni si inserì l’antologia di J. Lester, a cura di, To Be a Slave, Dial, New York 1968. [24] General Introduction, in G.P. Rawick, a cura di, The American Slave, Supplement, series I, vol. 3: Georgia Narratives, Part I, Greenwood, Westport, CT, 1977, pp. IX-LVI. [25] Ivi, p. XXVIII. [26] Ivi, p. XXIX. [27] Una dozzina di queste sono state remastered e riprodotte in nastri che fanno parte integrante di Berlin – Favreau – Miller, a cura di, Remembering Slavery, cit. [28] Rawick contesta qui gli assunti di partenza, i procedimenti e le conclusioni degli storici «cliometrici» R.W. Fogel e S.L. Engerman (Time on the Cross: The Economics of American Negro Slavery, 2 voll., Little, Brown and Co., Boston 1974), ma la loro stroncatura più puntuale e radicale venne dal libro di H.G. Gutman, Slavery and the Numbers Game: A Critique of Time on the Cross, University of Illinois Press, Urbana, 1975. [29] Si vedano: Rawick, General Introduction, cit., pp. XLI-XLII; Library of Congress, Born in Slavery: Slave Narratives from the Federal Writers’ Project, 1936 to 1938, a cura di N.R. Yeatman: Appendix II: Race of Interviewers, disponibile sul sito: Born in Slavery: Slave Narratives from the Federal Writers’ Project, 1936 to 1938, Available Online | Library of Congress (loc.gov). I dati forniti nei due elenchi non combaciano, poiché quelli della LoC riguardano soltanto gli intervistatori delle narratives lì depositate nel 1941. [30] Altre pertinenti osservazioni in merito, in aggiunta a quelle espresse da Rawick nella General Introduction (pp. XXX-XXXII) si trovano nella sezione intitolata The Limitations of the Slave Narratives Collection, di LoC, Born in Slavery, cit. [31] Rawick, General Introduction, cit., p. XXXV. [32] Tra i primi esempi, oltre al citato B. Levine sulla Guerra civile, i lavori di E. Foner (in particolare: Reconstruction: America’s Unfinished Revolution, 1863–1877, Harper & Row, New York 1988; Forever Free: The Story of Emancipation and Reconstruction, Knopf, New York 2005 e Gateway to Freedom: The Hidden History of the Underground Railroad, W.W. Norton 2015) e la produzione storiografica su Guerra civile e Ricostruzione dei giovani studiosi formatisi negli anni della collaborazione ai progetti di ricerca capeggiati da Ira Berlin. [33] Tra chi orientò la propria ricerca in quella direzione, si vedano almeno: D. Roediger, The Wages of Whiteness: Race and the Making of the American Working Class, Verso, London-New York 1991; R. Kelley, Race Rebels: Culture, Politics, and the Black Working Class, The Free Press, New York 1994; G. Lipsitz, Class and Culture in Cold War America, Praeger, South Hadley, MA 1982 e Id., The Possessive Investment in Whiteness: How White People Profit from Identity Politics, Temple University Press, Philadelphia 1998.



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Bruno Cartosio ha insegnato Storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. È stato tra i fondatori delle riviste «Primo Maggio», «Altreragioni» e «Acoma». Tra le sue pubblicazioni: New York e il moderno. Società, arte e architettura nella metropoli americana (1876-1917) (2007); Stati Uniti contemporanei. Dalla Guerra civile a oggi (2010); I lunghi anni sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti (2012); Verso Ovest. Storia e mitologia del Far West (2018).

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