Prosegue la pubblicazione completa del giornale «Potere operaio» in «archivi». Qui i numeri 40 – 49, scaricabili in Pdf in fondo alla pagina. Il testo che qui proponiamo è estratto da La nefasta utopia di Potere operaio. Lavoro tecnica movimento nel laboratorio politico del Sessantotto italiano, di Franco Berardi Bifo, pubblicato da Castelvecchi nel 1998 nella collana «DeriveApprodi», dalla quale pochi mesi dopo prenderà vita la omonima casa editrice. Il medesimo libro sarà ripubblicato in data ancora da definirsi dalla casa editrice ombre corte. Ricordiamo inoltre la pubblicazione: Potere operaio. La storia. La teoria. Volume I, di Marco Scavino, DeriveApprodi, 2018.
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La nefasta utopia di potere operaio
Franco Berardi Bifo
La nefasta utopia di Potere operaio, titolava un commento comparso sul quotidiano «la Repubblica» firmato da Giorgio Bocca all’inizio del 1979. L’editoriale faceva riferimento a quanto era avvenuto nel corso degli anni Settanta, più che nella politica italiana, nella mentalità di larghi settori sociali che avevano messo in discussione, con i loro comportamenti spontanei, il lavoro salariato e la razionalità produttivistica, fino a contrapporvisi esplicitamente in nome di una «utopia» nata nel corso dei movimenti di lotta contro il lavoro, per il potere operaio.
Dato che Bocca è sempre stato, onestamente e dichiaratamente, un sostenitore quasi fanatico dei valori dell’industrialismo e del lavoro, a lui appariva inconcepibile la tesi del rifiuto del lavoro, la tesi del carattere progressivo del sabotaggio e dell’assenteismo. Perciò, in nome di un realismo identificato tout court con l’industrialismo, definì utopico il messaggio di Potere operaio. E per giunta quell’utopia gli appariva nefasta, perché la sua influenza aveva messo in moto processi di rivolta e di disaffezione al lavoro che avevano contribuito a una destrutturazione dell’ordine industriale. E questo ordine a Giorgio Bocca appariva naturale e indiscutibile come il succedersi delle stagioni.
In realtà, per quanto ne so io, direi che mai esperienza fu meno utopica di quella che ebbe la sua manifestazione nella teoria e nella pratica di Potere operaio. Quel gruppo di intellettuali e di militanti ebbe sempre a cuore non l’utopia di una società nuova, ma la tendenza profonda iscritta nei mutevoli eventi della vita sociale dell’ideologia e dell’immaginario collettivo. E la prova sta nel fatto che la tendenza fondamentale descritta e prefigurata da Potere operaio (la tendenza verso l’estinzione del lavoro salariato come forma connettiva della società intera) non ha certo smesso di svilupparsi, contraddittoriamente e con effetti spesso catastrofici, dopo la scomparsa di quel gruppo che l’aveva esplicitata sul piano politico-intellettuale. Utopica semmai si potrebbe considerare l’ideologia del progresso ordinato, di governo razionale della società, ovvero di uno sviluppo sociale senza conflitto. Quest’utopia nasconde la pretesa di una riduzione della molteplicità dei mondi di vita a un unico principio e la riduzione degli innumerevoli tempi pulsionali della singolarità a una temporalità unitaria e convenzionale: la temporalità del valore di scambio. Ma su questo punto teniamo il discorso aperto. Il passaggio al secolo nuovo vede infatti estendersi il dominio del digitale, nella cui sfera, in effetti, la vita sembra assorbita dalla generazione convenzionale del codice binario. Poche settimane dopo l’apparizione dell’articolo intitolato La nefasta utopia di Potere ofteraio, senza che tra i due fatti vi fosse alcun legame di causalità, la magistratura diede ordine di arrestare un gruppo di intellettuali, professori, studenti e operai che negli anni tra il 1968 e il 1973 avevano militato nelle file dell’organizzazione denominata Potere operaio. Quasi contemporaneamente, negli stessi mesi della tarda primavera del 1979, dalla Fiat di Torino e dall’Alfa Romeo di Arese, giungevano notizie di licenziamenti di decine di operai. Operai accusati di insubordinazione e di assenteismo; giovani che avevano fatto del rifiuto del lavoro un codice etico ed esistenziale, ancor più che politico. Il sindacato non si oppose, considerando il comportamento di quegli operai una colpa perseguibile con il licenziamento. Non accettavano la regola del salario, dunque non potevano rimanere all’interno della fabbrica, in cui lo scambio tra tempo di vita e salario funziona come codice di accesso, regola indiscutibile. In realtà i licenziamenti della primavera ’79 (61, alla Fiat Mirafiori) erano per il padrone la prova generale dell’offensiva generalizzata contro la classe operaia, l’inizio di un attacco profondo, che aveva come obiettivo la distruzione della composizione sociale, della cultura di massa prodotta nel corso di un decennio di lotte autonome. Esattamente un anno dopo, la direzione Fiat comunicò il licenziamento di 25.000 operai, che non erano più necessari per la produzione. Il sindacato e il Partito comunista, che non avevano mosso un dito per difendere gli operai assenteisti, reagirono con una durezza che malcelava l’impotenza. La sconfitta era ormai matura, ed era stata preparata dal movimento operaio, dal sindacato e dal Pei, non meno che da Agnelli e dalla Confindustria. Infatti la partita che si era giocata in quegli anni aveva visto, da un lato, una classe operaia ad altissima composizione autonoma, indisponibile a subire il dominio gerarchico sulla vita sociale quotidiana e sul proprio mondo di vita, che aveva tradotto in termini di autonomia e di programma sociale (riduzione generale del tempo di lavoro sociale) l’accresciuta potenza del sistema produttivo. Dall’altro, un fronte unito a difesa dell’ordine costituito nel quale i governi democristiani, il padronato, i vertici sindacali e il Partito comunista si erano sorretti a vicenda per reggere all’urto dei movimenti autonomi. Il movimento operaio, invece di accogliere la pressione autonoma verso una riduzione del tempo di lavoro, invece di consolidare la cultura antilavorista (vero fattore di sviluppo tecnologico e produttivo, vero fattore di arricchimento della società intera), l’aveva demonizzato, e aveva contrapposto una strategia obsoleta e reazionaria, centrata sulla difesa del posto di lavoro. Questa strategia si rivelò per quello che era – conseguenza di una arretrata etica del lavoro-nell’autunno del 1980. Claudio Sabattini, dirigente del sindacato metalmeccanico torinese, ed Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, chiamarono gli operai alla lotta a oltranza per difendere il posto di lavoro. Gli operai risposero con tenacia disperata. Il ceto tecnico-impiegatizio venne allora chiamato a manifestare contro gli operai, per la ristrutturazione e per il pieno dominio padronale. Quel ceto che, dal ’68 in poi aveva cominciato a schierarsi dalla parte degli operai, sfilò per le strade di Torino contro l’autonomia operaia. Gli operai, a cui il Partito comunista e il sindacato avevano sottratto l’arma dell’autonomia e della riduzione del tempo di lavoro, quegli operai che erano stati costretti a identificarsi nella forma sociale di forza-lavoro, ed erano stati criminalizzati nella forma di socialità autonoma creativa, ora venivano decimati dall’offensiva padronale. Negli anni successivi, per tutti i maledetti anni Ottanta, la classe operaia italiana (ma il discorso non è sostanzialmente dissimile per gli altri Paesi europei, anche se solo in Italia questa vicenda assume contorni così netti sul piano della rappresentazione politica), venne sistematicamente de-composta. Il processo di sostituzione del lavoro umano con automatismi si accelerò freneticamente. Ma questo processo, che era in fondo il risultato obiettivo della pressione antilavorista operaia, del rifiuto del lavoro e della creatività tecnico-scientifica, veniva trasformato in un processo di violenza contro la socialità e la cultura prodotta dai movimenti. Estirpata così la nefasta utopia di Potere operaio, iniziava ad avanzare la benintenzionata utopia della competizione forsennata: riduzione della massa sociale operaia, aumento del plusvalore relativo estorto per addetto, estensione dell’area sociale residualizzata, della disoccupazione prodotta dalla tecnologia. Ciò che l’intelligenza sociale aveva prodotto come fattore di arricchimento cominciava a essere trasformato in strumento di impoverimento e di desolazione.
Qui sotto è possibile scaricare in Pdf i numeri da 40 a 49 di «Potere operaio»:
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