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Il sapere delle lotte/ Sessant'anni fa il primo numero di «classe operaia»



classe operaia
Immagine: Alcuni membri di «classe operaia» (in piedi, in seconda fila): Pierluigi Gasparotto, Lapo Berti, Romolo Gobbi, Claudio Greppi; (seduti, in mezzo): Mario Tronti e Umberto Coldagelli; (in piedi, davanti): Romano Alquati, Enzo Grillo e Anna Chicco, anni Sessanta. Archivio Claudio Greppi

60 anni fa il primo numero di «classe operaia», una delle più importanti riviste dell'operaismo italiano.

Ricordiamo l'evento pubblicando i testi di due protagonisti delle vicende, Sergio Bologna e Claudio Greppi, pubblicati anche su, rispettivamente, «il manifesto» e «Officina Primo maggio».

Machina, inoltre, ha già pubblicato l'edizione completa della rivista, che è possibile scaricare a questo link.


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Il sapere delle lotte di Sergio Bologna

Sono passati 60 anni. Porta la data «febbraio 1964» il primo numero di «classe operaia», la rivista che ha dato la struttura definitiva a quel sistema di pensiero che avremmo chiamato «operaismo». Le basi però erano già state poste nei primi numeri dei Quaderni Rossi. Sebbene la figura di Raniero Panzieri sia stata centrale per la concezione e la raccolta di energie che hanno dato vita ai Quaderni Rossi, Mario Tronti, avendovi già esposto il nocciolo del suo pensiero, assumeva naturalmente il ruolo di maître à penser.

Ma sia l’uno che l’altro traevano alimento da un consistente lavoro d’inchiesta a stretto contatto con le lotte operaie di tipo nuovo, che avevano preso piede dal 1960 in poi. Militanti di solida preparazione metodologica nella ricerca come Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Emilio Soave, Romano Alquati e via via tanti altri, univano una conoscenza dell’organizzazione del lavoro industriale a quella che divenne la specifica caratteristica dell’operaismo: la capacità d’individuare le dinamiche soggettive del conflitto. A «mettere la classe operaia al centro» – come si diceva allora – erano bravi in tanti, ma forse solo il punto di vista operaista ha saputo inserire in un sistema teorico la capacità di autodeterminazione delle donne e degli uomini soggetti al sistema socio-tecnico fordista, sottraendo la soggettività/spontaneità a una lettura puramente psico-sociale.

Nel settembre 1963 avviene la separazione dai «Quaderni rossi» e nasce «classe operaia»: Toni Negri (t.n.), Mario Tronti (m.t.), Alberto Asor Rosa (a.a.r.), Romano Alquati (r.a.), il nostro gruppetto milanese/comasco, i fiorentini, i padovani, gli emiliani-romagnoli di Guido Bianchini, i genovesi. Dal numero 2 cominciano a essere riportati i nomi di coloro che di volta in volta hanno collaborato, ma solo dal n. 1 del secondo anno, 1965, appare una lista di nomi come componenti di una «redazione» permanente (Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Claudio Greppi, Gaspare De Caro, Toni Negri) sotto la direzione di Mario Tronti. Editore, la «Marsilio» di Padova, direttore responsabile Francesco Tolin. La testa a Roma (Tronti), le gambe a Padova (Toni Negri).

In realtà «classe operaia» è stata molto di più e basta scorrere i numeri, con quella scrittura fitta, densa, con quei caratteri impossibili. E scopriamo allora che la parte largamente più cospicua è occupata dall’analisi delle lotte operaie. È lì che si manifesta – a mio avviso più ancora che negli scritti teorici – il segreto dell’operaismo, perché l’analisi delle lotte, quella che nei Quaderni Rossi era ancora classificata come «cronaca», diventa marxismo vivente e soprattutto punto di sutura tra lavoro di conoscenza e lavoro vivo, tra militanza e classe.

Cogliendo il metodo di quelle analisi, salta subito agli occhi la banale superficialità del giudizio sprezzante con cui alcuni hanno voluto liquidare l’operaismo come «estetizzazione del conflitto sociale». Se c’è qualcosa di datato semmai nei discorsi di quella rivista è la pervasività di una cultura industriale, di una cultura manifatturiera, troppo ristretta alla produzione di merci e poco indagatrice dei processi di valorizzazione, tanto da far pensare che alla sua uscita, nel 1966, l’opera di Tronti Operai e capitale volesse già andare oltre, avesse la forza di guardare più in là. Con un ritorno ai testi di Marx, dopo che la rivista, dal famoso editoriale di Tronti «Lenin in Inghilerra» del n. 1 del 1964 a «Lenin e i soviet nella rivoluzione» di Negri sul n. 2 del 1965, si era concentrata soprattutto sul problema dell’organizzazione e del partito.

Un ritorno a Marx che sarebbe stato ancora più illuminante l’anno successivo, quando esce la traduzione dei Grundrisse ad opera di Enzo Grillo. È l’anno, il 1967, in cui coloro che non hanno seguito Mario Tronti, Asor Rosa e Rita di Leo nel loro rientro nel Pci, coloro che hanno visto con amarezza la chiusura di «classe operaia», mettono in circolazione il termine «operaio massa», cogliendo il senso di un processo che aveva modificato, lungo il decennio, la composizione di classe e riproponeva in termini nuovi il rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra ceto intellettuale e lavoro vivo.

«classe operaia» resterà come qualcosa di più che la testimonianza di una generazione che si è schierata senza mezzi termini da una parte sola. Avrà sempre qualcosa da dire (o da insegnare) a chi sa (o vuole) riconquistare la libertà dalla costrizione del lavoro. Si pensi, per fare un esempio, al «discorso sui tecnici», nato dall’interno delle prime realizzazioni dell’informatica in Italia, un discorso che ha anticipato di qualche decennio quello, che ancora ci sfida, sui «lavoratori della conoscenza» e sull’intelligenza artificiale. Si pensi alla dimensione internazionale, presente già nel numero 2. Si pensi a tutte le tematiche che riguardano una forza-lavoro ibrida, industriale ma con ancora un piede nel mondo contadino, le tematiche dell’agro-industria, dove maestro ci è stato Guido Bianchini, un nome che non compare mai sulla rivista, ma che è ricordato ancora oggi quale figura di primo piano in quel «Potere operaio veneto-emiliano» che era il gruppo con la più solida struttura nel progetto di «classe operaia», mentre altrove erano singole personalità che facevano da tramite con situazioni operaie di enorme rilevanza. Come Genova, dove la presenza di Gianfranco Faina ha lasciato un segno che difficilmente si cancella.

La base logistica della rivista era Firenze, per la sua collocazione baricentrica rispetto a diverse realtà locali e questo spiega la presenza costante di Claudio Greppi sia nella realizzazione dei singoli numeri, sia nella «redazione» permanente, affiancato da personaggi indimenticabili come Luciano Arrighetti, operaio della Galileo, da Giovanni Francovich, prematuramente scomparso, da Lapo Berti, che sarà uno degli animatori di «Primo maggio» negli anni Settanta, da Mario Mariotti, l’autore delle geniali vignette, ed altri.

Dopo la chiusura della rivista, nel 1968-69, gli operaisti dovettero subire l’urto del farsi realtà delle loro teorie, in misura superiore a ogni immaginazione: maggio francese, lotte alla Pirelli, lotte alla Fiat… fu un salto da una dimensione minoritaria a un movimento di massa, da conflitti latenti a guerre aperte. Un salto dal quale non è sempre facile uscirne bene.

Ma questa è un’altra storia.

 

 

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Sessant'anni fa il primo numero di «classe operaia» di Claudio Greppi

Quando – lo scorso agosto – Mario Tronti novantenne ci ha lasciato, ho ricordato sul sito dei Territorialisti che sull’ultimo numero della rivista «classe operaia», nel ’66, che stampammo a Firenze, c’era scritto numero ultimo. Non credo siano molte le riviste che dichiarano in modo così esplicito che una certa esperienza non è destinata a durare in eterno. In una recente intervista lo stesso Tronti ricordava che per molti compagni l’autonomia della classe dal movimento era ormai occasione di aperto conflitto con partito e sindacato. A questo punto Mario diceva: basta. L’esperimento dell’intervento politico nelle fabbriche, che per due anni avevamo praticato con alterne vicende andava ripensato. Avevamo riscoperto la fabbrica, avevamo acquisito anche una certa capacità di rileggere il territorio come il luogo delle lotte operaie, avevamo imparato anche a diffidare delle ideologie precostituite.

Una delle qualità era anche quella di saperci ridere sopra. A Mario non mancava certo l’ironia: basta pensare al divertimento con il quale accoglieva i disegni che Mario Mariotti preparava per la rivista. Un piccolo operaio da solo contro una moltitudine di padroni plaudenti, ma sul cartello dell’operaio c’è scritto abbasso


Mario Mariotti
Mario Mariotti, senza titolo, 1964

Questo disegno di Mario Mariotti, pubblicato sul secondo numero di classe operaia, dedicato alle lotte operaie in Europa (febbraio 1964), esprime molto bene lo spirito che animava quella rivista. Mariotti era un artista fiorentino, comunista, che assisteva alle riunioni di redazione che si svolgevano mensilmente a Firenze, e poi interpretava a modo suo quello che ascoltava. Ma questo ha capito tutto! Esclamava Mario Tronti che ne apprezzava particolarmente l’ironia e la forza provocatoria. Le stesse qualità che ispiravano i testi – spesso frutto di lavoro collettivo – di quella ventina di numeri che uscirono fra il 1964 e il 1966. Le redazioni erano a Torino, a Milano, a Padova, a Firenze e a Roma. Ogni numero aveva un tema centrale, dal quale discendeva un ulteriore tassello di quello che era il concetto di fondo di tutto il lavoro politico che ruotava intorno alla rivista: la riscoperta delle lotte operaie e della loro circolazione più o meno nascosta nei complessi produttivi del dopoguerra, della loro autonomia in relazione dialettica con le istituzioni del movimento operaio.


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Sergio Bologna (Trieste, 1937) ha insegnato in varie Università, in Italia e in Germania. Si è occupato di storia del movimento operaio, ha partecipato alla fondazione di riviste quali «Classe operaia» e «Primo Maggio». Espulso dall’Università, ha scelto di fare il consulente e in questa veste è stato coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale della Logistica (2010-2012) ed esperto del CNEL sui problemi marittimo-portuali. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Ceti medi senza futuro (2007), Maggio ’68 in Francia scritto con Giario Daghini (2008), Banche e crisi (2013), Tempesta perfetta sui mari (2017).


Claudio Greppi si è laureato presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze nel 1965. Dal 1969/70 è stato incaricato dell’insegnamento di Geografia prima presso l’Università di Ferrara e dal 1996 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena, dove dal mese di ottobre 2002 è inquadrato come professore ordinario. È in pensione dal 2010. Ha partecipato attivamente ai lavori delle riviste «Quaderni rossi», «classe operaia» e «Quaderni del territorio», capisaldi dell’operaismo italiano.

 

 

 

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