Pubblichiamo un testo sui rapporti tra Potere operaio e il Manifesto nel corso del biennio 1970-71 tratto dalla tesi di laurea di Cinzia Zennoni dal titolo: Potere operaio: dalla teoria dell’insurrezione di massa all’organizzazione dell’avanguardia rivoluzionaria, Parma 2001.
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I comitati politici e l’incontro/scontro con il Manifesto
Anche la campagna contro il «decretone», un decreto-legge presentato dal governo Colombo nell’agosto 1970, che prevedeva disposizioni di carattere tributario e quindi un aggravamento del carico fiscale, trovò concordi Manifesto e Potere operaio, oltre all’ostruzionismo condotto in Parlamento dai deputati del Psiup e alle richieste di radicali modifiche da parte del Pci[1].
Fu in quel periodo che Potere operaio gettò le basi del maggior sforzo aggregativo compiuto durante l’arco della sua esistenza politica. Sempre mantenendosi all’interno di una prospettiva che collocava la questione organizzativa tra gli obiettivi di primaria importanza, Potere operaio riconosceva che:
tale progetto va fondato riferendosi all’area politica, alle avanguardie che le lotte degli anni ’60 hanno determinato. Potere operaio si ritiene una componente importante di questo percorso storico, ma non ritiene di rappresentare – ovviamente – né la totalità delle avanguardie rivoluzionarie organizzate, né la totalità del movimento[2].
Nella fase di passaggio che si voleva inaugurare, dai gruppi al partito, il problema diveniva quindi quello dell’aggregazione, del superamento della frammentazione che aveva caratterizzato gli anni ’60 e del settarismo più volte dimostrato dalle forze organizzate del movimento. Potere operaio notava alcuni segnali positivi provenire in particolare da due gruppi della nuova sinistra: Lotta continua e il Manifesto. Per quanto riguarda il primo, Potere operaio osservava che:
ci sembra avviato un processo di superamento di quella ambigua definizione organizzativa («Lotta continua è l’organizzazione rivoluzionaria» / Lotta continua è il movimento), di quella chiusura settaria nei confronti delle forze organizzate della sinistra operaia, alla quale faceva riscontro una acritica e trionfalistica subordinazione nei confronti del movimento, dei comportamenti spontanei delle masse, caratteri – questi – deteriori e sterili che hanno a nostro giudizio portato i compagni di «Lotta continua» a sostituire la teoria dell’organizzazione con la tecnica dell’organizzazione[3].
Tuttavia, in questa prima fase le rispettive differenze nel modo di concepire il processo organizzativo (come unità «dal basso», nelle lotte per Lotta continua, come aggregazione delle avanguardie, di nuclei organizzati e di gruppi nella loro interezza per Potere operaio) non furono superate.
Migliori risultati diede all’inizio la collaborazione con il Manifesto. Di esso si faceva notare che:
I compagni del manifesto – dai quali ci distinguono origini teoriche, storia soggettiva e percorso politico anche profondamente diversi – dimostrano nei confronti dell’aggregazione un atteggiamento aperto, stimolante e fruttuoso di esperienze comuni e di chiarimenti non superficiali[4].
Il tentativo di intraprendere un percorso comune era stato avviato agli inizi del settembre 1970, all’epoca del II convegno nazionale di Potere operaio, svoltosi a Bologna, il 5-6 settembre 1970, occasione nella quale il gruppo lanciò una nuova iniziativa: costruire i «comitati politici». La ripresa delle lotte alla Fiat, nella primavera del 1970, aveva evidenziato l’urgenza del problema organizzativo. La diversità fra la linea sindacale, centrata attorno all’obiettivo della trasformazione del premio di produzione semestrale in quattordicesima mensilità, cioè in quota fissa annuale, non più legato all’andamento produttivo dell’azienda, e quella di Potere operaio, che chiedeva la categoria unica, iniziando con la 2ª per tutti, rese consapevole il gruppo della necessità di inserire la lotta per il salario slegato dalla mansione all’interno di quella sindacale, per le oggettive difficoltà di generalizzare i livelli organizzativi raggiunti[5]. Occorreva quindi superare la fase di «autonomia» delle lotte e costruire strutture organizzate in grado di porsi come alternativa politica alla gestione sindacale, ai consigli dei delegati, e, nello stesso tempo, darsi una direzione unificata, che ponesse fine alla frammentazione e creasse una rete di quadri militanti «in grado di piegare il movimento alle indicazioni strategiche che l’organizzazione interpreta»[6].
I comitati politici (di fabbrica, di quartiere, di scuola) avrebbero dovuto essere, nelle intenzioni di Potere operaio, momenti intermedi d’organizzazione tra il partito e il movimento, organismi di unificazione delle avanguardie e di direzione delle lotte di massa. Tuttavia essi non avrebbero agito autonomamente, bensì dovevano «qualificarsi entro un programma politico complessivo, ma soprattutto entro un programma di azione e di gestione dello scontro a livello nazionale»[7]. Poi si specificò meglio da dove sarebbe derivata la linea politica dei comitati: «essi sono una proposta precisa di Potere operaio e si coordinano a livello nazionale entro scadenze, obiettivi, progetti di azione dentro la direzione complessiva di Potere operaio»[8].
La proposta dei comitati politici fu accolta e ribadita dai militanti del Manifesto al convegno nazionale operaio, svoltosi a Milano il 30-31 gennaio 1971, promosso dal Manifesto stesso e organizzato assieme a Potere operaio. Innanzitutto, come venne intesa la struttura del «comitato politico» al convegno? Secondo la definizione di Massimo Serafini, militante del Manifesto, esso era
un organo di collegamento permanente delle avanguardie reali presenti in una certa fabbrica, in un certo quartiere, in una certa zona, che esprima dunque una concreta situazione di lotta e si sforzi di dirigerla secondo una piattaforma precisa e una precisa prospettiva. Non è dunque un comitato di base […]. Ma non è neppure l’istanza di base del nuovo partito in formazione […]. Se riusciremo a costruire una rete estesa di questi organismi, di cui le masse sentono realmente il bisogno, cominceremo ad avere una struttura che può proporsi una gestione non episodica della lotta e costruire il movimento [corsivo mio] secondo scadenze e linee definite[9].
Per Alberto Magnaghi, di Potere operaio, i comitati politici erano «strutture intermedie verso la costruzione del Partito, momenti intermedi tra partito e movimento di massa, che risolvono insieme il complesso problema dell’unità delle “avanguardie interne” e dell’unificazione dei gruppi organizzati»[10]. Infine, nella formula riassuntiva contenuta nella mozione conclusiva del convegno, essi erano definiti come
strumenti di organizzazione permanente delle avanguardie presenti nella fabbrica, nel quartiere, nella zona, come strumenti di collegamento di tutte le situazioni territoriali che attorno a essi si collocano: organismi cioè capaci di esprimere una concreta situazione di lotta, di farle superare i limiti aziendali e locali, di darle una dimensione politica , di inserirla in una comune strategia.
I Comitati politici possono così rappresentare non solo uno strumento di intervento immediato, ma anche il terreno su cui è possibile cominciare a costruire […] quell’aggregazione politica e quel nucleo organizzativo che sono premessa per la costruzione del nuovo partito rivoluzionario[11].
Già da queste definizioni emergono alcune delle differenze di prospettiva esistenti tra i militanti dei due gruppi, delle quali essi erano consapevoli. Prima di procedere all’esame dei punti di contrasto, diretta conseguenza di concezioni strategiche diverse, alcuni dati. Alla conferenza erano rappresentate 76 situazioni operaie organizzate dal Manifesto e 68 organizzate da Potere operaio. Essa nasceva dalla volontà di «trovare con gli altri gruppi una convergenza politica non episodica su una piattaforma di lotta capace di collegare fra loro le avanguardie operaie, di generalizzare l’esperienza compiuta dalle punte del movimento in questi mesi…»[12]. Già a partire dal mese di ottobre era stata avviata una forma di collaborazione tra i due gruppi nelle diverse sedi e all’interno delle prime esperienze di comitati politici operai e territoriali, come quelli della Fiat di Torino, della Petrolchimica e della Chatillon di Porto Marghera, della Fatme di Roma e si era posto il problema del rapporto tra comitato politico, progetto di partito e strutture sindacali. L’obiettivo era per entrambi la realizzazione di un punto di riferimento credibile, alternativo rispetto alla sinistra tradizionale, ma l’ordine delle priorità era invertito. Per Potere operaio prima veniva il momento organizzativo, poi il movimento. Occorreva concentrarsi sul primo termine affinché il livello raggiunto dallo scontro di classe uscisse da una condizione rivendicativa e «parasindacale» ed avesse uno sbocco politico. Il Manifesto sosteneva invece la necessità di radicarsi all’interno di situazioni reali di lotta, contribuire a svilupparle, collegandole ad altre, operare nel movimento per rafforzarlo e dargli maggior coesione.
Per questo il Manifesto propose la creazione di un giornale quotidiano che informasse, fornisse elementi di direzione al movimento, per giungere, solo dopo un lungo percorso, alla formazione di un partito rivoluzionario di massa. Potere operaio condivideva l’idea del giornale, ma non intendendolo come l’espressione di un gruppo, bensì come lo specchio fedele del processo di realizzazione dei comitati politici, gestito nella sua impostazione da un momento di centralizzazione degli stessi, ancora da realizzare e per il quale era urgente impegnarsi. Il primo numero del quotidiano uscì il 28 aprile 1971, in aggiunta a «il manifesto» rivista mensile, poi bimestrale, esistente dal giugno 1969, e fu effettivamente espressione della linea di un gruppo man mano che il progetto di un’iniziativa comune naufragava.
Al di là del dibattito sugli strumenti organizzativi, le differenze si concentravano attorno ai tempi e alle modalità di un possibile esito rivoluzionario. Nel Manifesto si nota maggior cautela e attenzione per il momento presente, timore che il velleitarismo e toni trionfalistici potessero nuocere a un’effettiva capacità di direzione delle masse. Inoltre, nelle analisi del gruppo era centrale il contesto di fabbrica, l’organizzazione capillare reparto per reparto attorno a una piattaforma precisa (abolizione del cottimo e delle qualifiche, orario di lavoro, ambiente di lavoro) e questo lo portava a criticare lo spostamento d’interesse delle altre formazioni della sinistra rivoluzionaria verso la pratica della «socializzazione» delle lotte e il progressivo abbandono del terreno di fabbrica. La linea politica del Manifesto puntava allo
sviluppo di organismi autonomi e unitari, gestiti dal basso, della classe operaia, politici e sindacali insieme, i consigli, che si coordinavano per settore e per zona in funzione delle proprie lotte, dandosi anche strumenti di contrattazione e all’interno dei quali si forma e opera una avanguardia politica complessiva[13].
Il gruppo inizialmente aveva riconosciuto nei consigli dei delegati tali strutture, in quanto rappresentanza diretta e unitaria della classe operaia. Per questo Potere operaio, fortemente ostile ai consigli, non aveva risparmiato in passato toni polemici nei confronti del Manifesto[14]. Per Potere operaio i consigli dei delegati non potevano essere intesi semplicemente come organismi aziendali, bensì possedevano anche una valenza politica:
per il sindacato il Consiglio è uno strumento non solo per la gestione della lotta a livello aziendale, ma per far gestire concretamente alle rappresentanze operaie […] tutto il percorso del progetto riformistico di rilancio dello sviluppo, dalla ristrutturazione tecnologica alle riforme[15].
Perciò si contestava la «velleità ideologica» di coloro che (e chiara era l’allusione al gruppo del Manifesto) pensavano di farne un «futuro organismo di democrazia operaia al cui interno le avanguardie rivoluzionarie decidono l’azione di lotta strappandone la gestione al sindacato»[16]. La struttura dei comitati politici doveva quindi porsi, secondo Potere operaio, come un progetto politico radicalmente alternativo a quello dei consigli, agire sì al loro interno, ma già come presenza organizzata, forte di una sua identità esterna e indipendente rispetto a quella sede di scontro politico.
Mutati i tempi e forzati dalla necessità di trovare termini di accordo, anche il Manifesto abbandonò la speranza di utilizzare i consigli dei delegati per una gestione alternativa della lotta, constatandone il progressivo coinvolgimento in area sindacale e la rinuncia da parte dei gruppi rivoluzionari a battersi all’interno di essi per condizionarne la linea. Solo allora, con l’assunzione del progetto di costruzione dei comitati politici da parte del Manifesto, si crearono i presupposti di un’esperienza di lavoro comune con Potere operaio.
Questa svolta politica incontrò forti perplessità all’interno della «base» del Manifesto: l’organizzazione unitaria del convegno venne descritta come «operazione di vertice», in cui la maggior parte dei militanti non era stata coinvolta. Inoltre si riteneva affrettato il giudizio sui delegati e sui consigli, come se per reagire a una debole influenza sul movimento fosse necessario assumere la funzione d’avanguardia. I commenti su Potere operaio non furono certo più benevoli: accelerazioni strategiche, salti in avanti non stupivano in un gruppo le cui analisi si ritenevano schematiche e riduttive e al quale si pensava di aver concesso troppo, pur di salvare un terreno minimo di azione comune[17].
Potere operaio dal canto suo riteneva secondario il lavoro di base e invece essenziale fornire una risposta politica «generale» come punto di riferimento per le lotte. Il partito rivoluzionario avrebbe rappresentato l’uscita dal livello dell’autonomia e il passaggio allo scontro politico con lo Stato. Per questo gli interventi dei militanti di Potere operaio insistevano sull’urgenza di trovare un momento di centralizzazione nazionale, con funzioni di coordinamento, direzione e unificazione dell’attività dei comitati politici. Questi venivano a costituire un momento intermedio tra movimento e organizzazione complessiva, con l’accento spostato sulla «prospettiva di giungere […] alla creazione di un organismo di collegamento e di direzione politica»[18].
Troppe ambiguità su numerose questioni ostacolarono i tentativi di collaborazione. Il riconoscimento della necessità dell’aggregazione politica non bastò al superamento delle reciproche diffidenze. Potere operaio iniziò col porre la discriminante dell’uso della violenza, come criterio di distinzione tra «opportunisti» e «rivoluzionari»[19]. In seguito prese le distanze dalla scelta del Manifesto di «ripiegare su linee interne, su una fase lunga di crescita organizzativa del gruppo, di consolidamento prudente del processo aggregativo, di estensione e allargamento dell’area rivoluzionaria»[20]. Potere operaio lo riteneva un atteggiamento troppo cauto e attendista, conseguenza di premesse sbagliate. Per giungere a uno scontro di potere non era necessario esercitare già da prima un’egemonia dentro il proletariato, poiché la si sarebbe conquistata nel corso della lotta stessa.
Per quanto riguarda il Manifesto, in quel periodo esso era effettivamente impegnato a tracciare un bilancio di due anni di attività e a darsi una definizione organizzativa e politica più precisa. Il documento[21] che lo riporta riferisce un giudizio fallimentare in merito al proposito di «costruire, nel breve periodo, con un processo di aggregazione reale tra forze diverse, un punto di riferimento alternativo capace di invertire la disgregazione in atto nella nuova sinistra e di aprire una crisi nelle organizzazioni riformiste e nel loro rapporto con le masse»[22]. Una delle ragioni del fallimento di tale progetto era individuata nell’atteggiamento settario dei gruppi della sinistra extraparlamentare, nel loro progressivo chiudersi in un lavoro di «autocostruzione organizzativa e ideologica», nel loro isolarsi dalle reali avanguardie di movimento, in particolare dalle avanguardie operaie. Questo era il punto nodale della questione. Per rispondere alla domanda di quei militanti che chiedevano giustificazione del ritardo con cui la linea del convegno di Milano veniva applicata, il Manifesto scriveva:
I gruppi extraparlamentari hanno opposto un rifiuto a quella proposta, o, dopo averla accettata, come Potere operaio, l’hanno radicalmente stravolta, separandola dal suo terreno specifico – lo scontro sociale, la fabbrica, le avanguardie reali. Lo hanno fatto non solo e non tanto per errori di linea e per generico settarismo: ma per nascondere a se stessi e agli altri un dato di fatto che li costringerebbe all’autocritica e al realismo, cioè il loro peso irrilevante all’interno delle fabbriche non solo rispetto alla generalità dei lavoratori, ma rispetto alle avanguardie di lotta. È più semplice inventare dei comitati politici esterni, o agire come gruppi di studenti che si autodefiniscono «i proletari», o far passare tre operai organizzati come l’avanguardia, che conquistare e organizzare l’avanguardia reale[23].
Per il Manifesto fondamentale rimaneva la lotta di fabbrica, punto di partenza per qualsiasi intervento in ambito sociale. Esso criticava la ricerca di «nuovi vergini terreni di esercitazione nelle lotte sociali» o di «una rapida e generica politicizzazione nello scontro con lo Stato»[24]. Il gruppo proseguiva nel tentativo di costruire strutture politiche autonome, che agissero all’interno dei consigli dei delegati per far maturare lentamente la coscienza di una linea diversa, nel contesto concreto della lotta.
Potere operaio si spostava invece decisamente sul terreno delle lotte sociali. Il titolo di un editoriale apparso su «Potere operaio» a fine aprile 1971 è emblematico di questa tendenza: «La scadenza è nel partito. La guerriglia di fabbrica è troppo e troppo poco»[xxv]. Il gruppo riteneva che si stesse attraversando una fase storica di crisi del sistema capitalistico, indotta dalle lotte del biennio trascorso: il blocco degli investimenti, la chiusura di cantieri edili, di fabbriche tessili, di numerose piccole e medie industrie, il ricorso alla cassa integrazione, alle serrate, alle sospensioni nelle grandi fabbriche ne erano alcuni aspetti. In questo contesto le lotte operaie in fabbrica non sarebbero state sufficienti ad affrontare la controffensiva capitalistica. Lo scontro doveva ampliarsi, diventare lotta per il «potere», contro lo Stato, coinvolgere l’intero proletariato attorno all’obiettivo del «salario politico». I comitati politici rimanevano validi come ipotesi organizzativa da concretizzare, sebbene ciascun gruppo secondo una propria direzione.
Note [1] Il decretone fu definitivamente approvato dal Senato il 15 dicembre 1970. [2] Alle avanguardie per il partito, p. 82. [3] Ivi, p. 87. [4] Ivi, pp. 85-86. [5] Si apre lo scontro diretto contro lo Stato, «Potere operaio», 30 maggio-6 giugno 1970. [6] Il comunismo della classe operaia, «Potere operaio», n. 28, 11-18 luglio 1970. [7] Potere operaio – Convegno nazionale – Bologna 5-6/9/1970. Bozza di relazione introduttiva generale, in Archivio Storico della Nuova Sinistra Marco Pezzi, Bologna. Fondo Marco Pezzi. Documento ciclostilato. [8] Ivi, p. 7. [9] Massimo Serafini, Relazione al Convegno operaio. Milano 30-31 gennaio 1971, «il manifesto», a. II, n.1-2, gennaio-febbraio 1971, p. 33. [10] Verso il Partito! Comitati politici, «Potere operaio», n. 37, 5-19 marzo 1971, pp. 5-6. [11] Ivi, p. 10. Mozione conclusiva. [11] Convegno operaio, «il manifesto», a. II, n. 1-2, gennaio-febbraio 1971. Introduzione. [12] Massimo Serafini, art. cit., p. 32. [13] Risposta socialista alle lotte d’autunno, «Potere operaio», n. 13, 28 febbraio 1970. [14] Alle avanguardie per il partito, cit., pp. 79-80. [15] Ibidem. [16] Cfr. Sottovalutazione dei Consigli?, «il manifesto», n.1-2, cit., pp. 38-39. [17] Mozione conclusiva, art. cit. [18] Discorso sugli strumenti, «Potere operaio», n. 37, 5-19 marzo 1971, p. 12. [19] Puntualmente i compagni del Manifesto, «Potere operaio», n. 38-39, 17 aprile-1 maggio 1971, p. 19. [20] Piattaforma per un movimento politico organizzato, «il manifesto», n. 3-4, primavera-estate 1971, pp. 3-25. [21] Ivi, p. 4. [22] Ivi, p. 13. [23] Ivi, p. 12. [24] «Potere operaio», n. 38-39, 17 aprile-1 maggio 1971.
Qui sotto è possibile scaricare i pdf dei n. 21-40 di «Potere operaio del lunedì»:
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