La riforma del governo Meloni
Pubblichiamo uno studio di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano
Macera che spiega la ratio della riforma del governo Meloni in tema di pensioni,
lavoro e welfare. In questa seconda parte, gli autori si concentrano sul rapporto tra
riforme del mercato del lavoro e sistema pensionistico. Qui la prima parte dell'articolo.
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Perché, riferendocisi alle pensioni, si parla di «salario differito»?
L’espressione salario differito indica una prestazione in denaro che, sulla base del lavoro svolto, viene corrisposta alla scadenza di un certo periodo di tempo pattuito e a determinate condizioni prestabilite, e che per diritto è proprietà di chi la riceve.
Nel caso delle pensioni la scadenza viene determinata dalle leggi sulla previdenza e comporta l’esistenza di numerose e varie condizioni di pensionamento all’interno della popolazione lavoratrice, tanto che il corpus normativo specifico è molto complesso ed è accompagnato da una vasta letteratura specialistica in continuo aggiornamento.
L’importo pensionistico viene erogato dagli enti previdenziali, ovvero generalmente dall’INPS, le cui entrate si compongono di: entrate contributive, versate in parte dal datore di lavoro e in parte dal lavoratore; entrate derivanti da trasferimenti correnti, provenienti da Enti istituzionali (in primis dallo Stato) ossia soprattutto dalla fiscalità generale; altre entrate (di entità trascurabile), quali la vendita di beni immobili[1] o la prestazione di servizi. Normalmente le entrate contributive equivalgono al 33% del salario lordo del lavoratore e provengono per poco meno del 24% dai datori e per poco più del 9 dal dipendente.
L’innalzamento dell’età pensionabile
Dal 1992 è iniziato un percorso di graduale innalzamento dell’età pensionabile e di riduzione degli importi. Ciò è stato motivato col fatto che, nelle proiezioni per gli anni a venire, la spesa per l’erogazione delle pensioni risultava in costante crescita, fino a diventare insostenibile per il bilancio statale. Giusto per dare un’idea: se nel 1950 ammontava a poco meno del 2% del PIL, verso la metà degli anni ‘80 ha superato l’11% e nel 2005 il 14%[2]. A causa delle riforme di rientro della spesa messe in atto, le previsioni attuali la danno più o meno stabile dal 2020 (16,9%) al 2040 (16,8%) e poi, da allora, in calo[3].
Secondo la lettura dominante a causare tale situazione sarebbero stati vari fattori. Alcuni di questi sono direttamente connessi alla legislazione previdenziale italiana: i requisiti di età anagrafica e anzianità lavorativa eccessivamente favorevoli; i meccanismi di adeguamento degli importi al livello dell’inflazione; il livello degli importi indipendente dall’età anagrafica di pensionamento[4]. Ve ne è un altro che, invece, è esogeno: l’allungamento della vita e la diminuzione del tasso di natalità. Tutti, comunque, comportano una riduzione del gettito contributivo in rapporto al totale delle pensioni erogate, vale a dire una minor sostenibilità di bilancio. Ad esempio la diminuzione del tasso di natalità conduce a un calo della forza-lavoro attiva e dei relativi contributi[5], mentre l’invecchiamento della popolazione a un aumento della forza-lavoro passiva, quella in pensione.
Il dogma del sistema contributivo
Corsi ai ripari con l’istituzione del sistema contributivo[6] i Governi sono, sì, riusciti a far calare la spesa previdenziale, ma abbassando soprattutto l’importo dell’assegno e costringendo al contempo il lavoratore, o lavoratrice, a restare in produzione più anni. Oggi fin quasi a 68 anni ma non è da escludere che per gli attuali quarantenni l’uscita dal mondo del lavoro avverrà alle soglie del 70° anno di età e con una pensione decisamente bassa. E infatti il problema è anche proprio quello dell'invecchiamento della forza lavoro: ritardando l'età pensionabile si aumentano in sostanza gli anni lavorati (abbiamo del resto l'età dei dipendenti pubblici più avanzata in Europa).
Contributi salariali e datoriali
Il gettito contributivo è la somma di tutti i contributi percepiti dall’Inps in un anno. Composto dai contributi versati dai lavoratori e da quelli pagati dagli imprenditori, è la componente fondamentale del bilancio: nel 2023 arriva a 258.257 milioni di € di entrate su 518.799[7]. Non è dunque un caso se nel corso del XX secolo a grandi aumenti della spesa sono corrisposti aumenti delle aliquote contributive. Per esempio, all’incremento della massa delle pensioni di oltre 10 milioni verificatosi fra il 1955 e il 1975, lo Stato ha reagito quasi raddoppiando l’aliquota contributiva complessiva, portandola dal 14,41% (1960) al 20,77% (1975) e, poi, al 23,31% (1976); all’aumento di 1.229.000 pensioni avvenuto fra il 1990 e il 1995 è corrisposto un aumento dell’aliquota dal 25,95% al 27,16% e, infine, al 32,70% (1996) [8].
La domanda a questo punto è: i contributi vengono aumentati più facilmente ai lavoratori o agli imprenditori? Ebbene, gli aumenti sono stati sostanzialmente proporzionali, a leggero vantaggio per i lavoratori: dal 1960 a oggi i contributi dei dipendenti sono aumentati di 1,93 volte, mentre quelli dei loro capi di 2,45 volte (essendo passati dal 4,75% al 9,19% i primi, dal 9,66% al 23,81% i secondi[9]). Fra il ‘60 e il ‘75 i contributi datoriali sono stati portati dal 9,66% al 14,05%, e al 16,16% nel ‘76; fra il ‘90 e il ‘95, dal 18,63 al 18,76 e nel ’96 al 23,81.
La deduzione che abbiamo tratto da questi dati non si basa, ovviamente, sul leggero squilibrio esistente fra le due parti… non ha alcun senso paragonare le difficoltà e la precarietà esistenziale di una normale famiglia con le ricchezze e gli accumuli di denaro di un capitalista, per cui in questi numeri non v’è alcuna equità, nessuna forma di giustizia sociale.
Piuttosto ci sembra importante evidenziare come, in entrambi i periodi, all’aumento della componente datoriale del gettito non sia corrisposto un calo dei salari netti, che anzi negli anni ‘60 e ‘70 aumentavano considerevolmente sotto il peso delle lotte operaie [10]. Vale a dire: l’aumento dei contributi datoriali era previsto in aggiunta al salario, come incremento della retribuzione lorda (il salario non epurato da tasse e, per l’appunto, trattenute).
Del resto anche in origine la contribuzione datoriale non nacque in quanto deferimento di una parte del salario dal dipendente allo Stato ma come integrazione dell’assicurazione previdenziale (altrimenti insufficiente a garantire l’erogazione delle pensioni per tutta la vecchiaia del lavoratore). La componente datoriale, perciò, è sempre stata un versamento extra del capitalista: la L. 603/1919 suddivise i salari in fasce distinte (raggruppando gli importi simili) e impose il pagamento, a metà fra dipendente e imprenditore, del 4,17% del salario massimo della fascia entro la quale ci si collocava, istituendo un versamento aggiuntivo per entrambi i soggetti sociali.
Si evince una differenza fra le due componenti del gettito contributivo. I versamenti degli imprenditori sono sempre stati aggiuntivi al pagamento del salario, ossia hanno storicamente carattere di imposta. Quelli dei lavoratori, invece, hanno carattere di trattenuta a prescindere, in quanto sia che un aumento di questi comporti un calo salariale, sia che non lo comporti (incremento del salario lordo), si tratta pur sempre di una trattenuta su soldi facenti parte del salario per diritto. Di conseguenza d’ora in avanti distingueremo fra contributi datoriali e salariali.
Ciò che è stato detto fino adesso dimostra la legittimità politica del rivendicare incrementi dell’aliquota dei contributi datoriali in quanto, questa, componente variabile autonoma (indipendente dal salario) del gettito di entrate INPS. Dal punto di vista sindacale tale rivendicazione si può tradurre come aumento complessivo dell’aliquota contributiva a parità di salario netto.
Cause del disavanzo di bilancio
Abbiamo sottolineato come le cause specifiche evidenziate dai governi siano tutte correlate alla riduzione del rapporto fra gettito contributivo e totale delle pensioni erogate. Essendo i contributi datoriali una variabile autonoma del gettito, è ipotizzabile individuare nella diminuzione del rapporto fra questi e la spesa previdenziale una causa alternativa o, comunque, differente. Di mezzo vi è la questione dell’invecchiamento della popolazione nei prossimi decenni: per quanto derivante dallo sviluppo sociale connaturato al sistema capitalistico, è una variabile la cui esistenza (e importanza) non dipende direttamente dall’organizzazione del sistema previdenziale ma costituisce lo stesso un ostacolo oggettivo per qualunque politica sulle pensioni[11], a meno di un PIL in forte aumento.
Analizzando la serie storica degli aumenti delle aliquote si scopre che dal ‘96 ai giorni nostri vi è stata una sola variazione, consistente in un +0,30% (2007) per i contributi salariali. Se, dunque, fin dall’inizio del processo di smantellamento del sistema previdenziale, avviatosi fra il 1992 (Riforma Amato, D.L. 503/1992) e il 1995 (Riforma Dini, L. 335/1995), le aliquote contributive non sono state quasi ritoccate, probabilmente è perché si è pensato di agire sulla riduzione delle pensioni (uscite) anziché sull’incremento del gettito (entrate)[12]. Si è trattato, perciò, di una scelta.
Il calo delle retribuzioni salariali nette (del 10% dal 2007 al 2020[13]), specie se associato all’aumento dell’inflazione e alla conseguente perdita di potere d’acquisto, impone una riflessione sul perché non vengano incrementate le aliquote dei contributi datoriali.
In generale la tassazione del lavoro è in leggero aumento, ma i contributi sociali datoriali[14] diminuiscono e si rafforzano le misure di decontribuzione (sgravi fiscali ed esoneri per le imprese)[15]. Servirebbe un’analisi di maggior dettaglio, ma i numeri in gioco non sembrano in grado di determinare squilibri tali da risolvere o aggravare, di per sé, le problematiche di bilancio in esame.
Il discorso è diverso riguardo i crediti che l’INPS detiene per il gettito contributivo non ancora riscosso. Questi, chiamati «residui attivi», sono in crescita e nelle previsioni di bilancio per il 2023 ammonterebbero a quasi 134 miliardi di € (comprensivi dei contributi salariali che, però, ne costituiscono minima parte)[16]. Come ogni anno una parte di essi viene «condonata» (svalutazione del debito) per difficoltà finanziarie, rischio di fallimento o ristrutturazione aziendale, nonché per cambiamenti di mercato sfavorevoli nel settore economico di pertinenza dell’impresa, ecc. Per il 2023 sono stati condonati 8 miliardi e 965 milioni di € di contributi dovuti per il lavoro dipendente. Più del costo del Reddito di Cittadinanza, che ammonta soltanto a 8 miliardi e 470 milioni!
Quanto detto fa riflettere sul grado di affidabilità del sistema imprenditoriale italiano, specie se si pensa al fatto che le aliquote datoriali non aumentano da 27 anni e che, come dicevamo, l’ultimo rialzo è toccato unicamente ai lavoratori. Anche l’esistenza di un ulteriore fattore tendenziale di riduzione del gettito contributivo, la precarizzazione del lavoro (periodi non coperti da contribuzione, contribuzione ridotta in virtù di orari di lavoro parziali e lavoro grigio, ecc.), è addebitabile alle difficoltà dei capitalisti nel sostenere i costi di un sistema del lavoro fortemente tutelato e va letta come un tentativo di eliminare tutele individuali e collettive giudicate troppo onerose.
A questo punto suggeriamo l’ipotesi che alle origini del disavanzo di bilancio vi sia una crescente difficoltà delle imprese a sostenere le spese previdenziali: quando il rischio d’impresa aumenta, cioè quando il rischio di veder fallire i propri progetti imprenditoriali a causa di un insufficiente profitto sugli investimenti fatti diventa troppo elevato, si cerca di abbassare il costo del lavoro e diminuire le «spese extra»[17]. Magari invocando l’aiuto dello Stato e facendo affidamento sul sostegno pubblico «a tutela dei posti di lavoro», anziché sulle proprie capacità imprenditoriali… Del resto i fattori di cui parlavamo sopra, come i requisiti di età anagrafica e anzianità lavorativa o i meccanismi di adeguamento degli importi al livello dell’inflazione, sono giudicati «eccessivamente favorevoli» in relazione alla capacità di tenuta del sistema.
Problemi di valorizzazione degli investimenti
Il sistema imprenditoriale italiano sta avendo crescenti difficoltà a garantire una valorizzazione adeguata dei capitali investiti. Cosa vuol dire? Se il capitalista investe 100 e, dopo un anno, ottiene 110, il suo investimento avrà avuto un tasso di valorizzazione del 10%.
Una percentuale positiva non sarà per forza un risultato soddisfacente: ciò che è importante è che l’accrescimento del capitale investito sia sufficientemente elevato da permettergli di affrontare la concorrenza e rimanere competitivo sul mercato, sia in termini di investimenti produttivi (miglioramento della produzione e abbattimento del costo del lavoro) che di ricerca e sviluppo (del prodotto e del processo produttivo). Ciò vuol dire una corsa alla spesa, «una spesa sempre maggiore in investimenti per ottenere il massimo tasso di profitto»[18]. Questo, a sua volta, comporterebbe una progressiva crescita del «volume minimo del capitale individuale necessario per far lavorare un’impresa nelle condizioni adeguate alla realtà del mercato mondiale»[19].
Ma la dinamica al rialzo degli investimenti ha basi ben più solide, delle quali è utile un sintetico scorcio. Per esempio, uno dei motivi per cui crescono è che le precedenti innovazioni vengono imitate dalle imprese concorrenti, che erodono così «gli extraprofitti da monopolio» costringendo «a una spesa sempre maggiore in investimenti produttivi, oltre che in ricerca (R&S) per poter ottenere almeno, come si è visto, la stessa massa di profitti del ciclo precedente; a fronte di un tasso di profitto decrescente»[20] (sì, perché l’imitazione delle innovazioni rende gli investimenti meno redditizi, per cui a capitali investiti più grandi corrispondono tassi di profitto più bassi).
Inoltre l’aumento progressivo della scala della produzione (produzione in massa delle merci) e l’incremento della produttività del lavoro necessario per sostenerla impongono, rispettivamente, investimenti sempre più grandi e la tendenziale riduzione del costo del lavoro per unità prodotta. Ciò vuol dire che aumentano i soldi che vengono dirottati verso gli investimenti e diminuiscono quelli usati per pagare salari[21] e pensioni: alla crescita degli investimenti corrisponde la graduale erosione dei margini residui per la «spesa sociale» delle imprese.
Più i capitali crescono e più diminuiscono i margini per destinarne una parte alla popolazione. Quando a questa situazione (che potremmo definire «sistemica», per così dire, ossia connaturata al funzionamento della nostra economia) si aggiungono difficoltà nell’ottenere un adeguato tasso di valorizzazione dei capitali investiti, tali margini si riducono rapidamente.
Non sarà allora un caso se «In Italia, tra il 1945 e il 1996, gli investimenti lordi sono cresciuti a un ritmo annuo dell’8,5%, ma, scomponendo il cinquantennio in sottoperiodi, si scopre che il tasso di crescita era del 10,2% annuo tra il ‘49 e il ‘64, del 3,1% tra il ‘64 e il ‘75, del 2,4% tra il ‘75 e il ‘91, per diventare negativo (-1,7%) tra il ‘91 e il ‘96»[22]. Dicevamo infatti che proprio fra il ‘92 e il ‘96 prese avvio il processo di smantellamento del sistema previdenziale.
Questa tendenza a una minore redditività degli investimenti, però, è solo uno dei motivi per cui i margini delle imprese per la «spesa sociale» si vanno proporzionalmente riducendo, determinando l’insorgere di gravi difficoltà nel bilancio previdenziale italiano e imponendo la demolizione del sistema pensionistico. Altri due fattori, infatti, meritano di essere citati.
In ogni settore economico e in ogni filiera di trasformazione del prodotto in merce esistono fasi più remunerative (cioè che valorizzano di più i capitali) e altre meno. Le aziende lottano per posizionarsi nelle posizioni migliori e i Paesi combattono per controllarle e gestirne il monopolio.
Immaginiamo le aziende come i clienti di un albergo e i Paesi come i proprietari. Gli alberghi di lusso sono quelli che garantiscono tassi di valorizzazione maggiori (ad esempio le fasi finali di assemblaggio di componenti hi-tech), mentre i motel garantiscono le peggiori (come la produzione industriale di semilavorati).
Gli USA, dunque, tenderanno a garantire ai turisti statunitensi il pernotto nel proprio albergo di lusso, ma se la Cina nel frattempo avrà accumulato risorse sufficienti per aspirare a gestire quel business, quello che rende profitti migliori, allora cercherà in ogni modo di portarglielo via e sostituirsi così al vecchio proprietario, al fine di garantire l’alloggio ai turisti cinesi e far crescere la propria economia. Se riuscirà nel suo intento, i turisti statunitensi avranno subito un processo di downgrading, perché d’ora in avanti dovranno accontentarsi di un albergo di qualità inferiore, che garantisce tassi di valorizzazione inferiori. A questi, a sua volta, corrisponderà una più bassa crescita dei capitali e quindi una minor disponibilità a spese extra, quali sono per l’appunto le pensioni (ma anche i salari e in generale lo stato sociale). Il downgrading (e il downgrading risk), perciò, è il primo dei due fattori da citare.
Il secondo è la scarsa dimensionalità aziendale. Questa può essere misurata per numero di dipendenti o per grandezza di capitale aziendale ma, indipendentemente da ciò, a una massa di aziende piccole o medie tendenzialmente corrispondono capitali abbastanza ridotti e, quindi, una minore disponibilità a investimenti non produttivi. Com’è noto l’Italia è «un Paese di piccole e medie imprese», ossia presenta una dimensionalità aziendale relativamente bassa. Per varie ragioni, quale l’abbandono di molti grandi e storici progetti imprenditoriali improntati sul modello delle grandi corporation, il nostro Paese è andato incontro a una «medianizzazione» del proprio sistema aziendale, caratterizzato dal «progressivo radicarsi di una fascia dimensionale non molto grande, ma capace di occupare potenzialmente ruoli di rilievo»[23] nell’economia internazionale. Una medianizzazione che, nonostante sia stata da molti descritta come un fattore di crisi dell’intero sistema produttivo nazionale, viene in vario modo assecondata: l’applicazione della flat tax, che consente maggiori margini per gli investimenti a fronte di una riduzione delle tasse, ne è un esempio. Introiettando il punto di vista del nemico di classe i sindacati più rappresentativi sono arrivati ad arruolarsi nelle fila dei no-tax, pensando che ridurre le aliquote fiscali o tagliare il cuneo fosse il modo migliore per restituire potere di acquisto ai salari italiani, in calo da 40 anni.
Rapporti di forza
Il corollario implicito della nostra esposizione è che la condizione del sistema previdenziale italiano non sia il frutto avvelenato di necessità economiche oggettive. Una critica reale e sincera dell’esistente, del resto, non può che rifiutare il riconoscimento della necessità oggettiva della realtà così com’è, per concentrarsi invece sulla ricerca pratica e teorica di alternative.
In questo senso il nostro ragionamento è anzitutto un tentativo di denunciare uno dei grandi equivoci della comunicazione politica contemporanea: l’attribuzione della responsabilità del debito e delle difficoltà economiche dello Stato alla spesa previdenziale. Un «equivoco» che comporta un peso enorme in termini di senso di colpa e rispettabilità sociale di tutta la forza-lavoro e, in primis, di quella più anziana ormai in pensione; una profonda mancanza di rispetto, per chi ha lavorato una vita e verso coloro che hanno innanzi lo stesso destino, della quale sono intimamente colpevoli la classe dirigente e il ceto imprenditoriale.
La direzione della nostra ricerca, allora, potrebbe spingersi verso la formulazione di una proposta di aumento dei contributi datoriali. Una proposta riformista, non anti-sistema, utile soprattutto a rafforzare l’identità della nostra parte politica. Una proposta che, però, per poter aspirare a una funzione di questo tipo dev’essere formulata il più possibile in termini scientifici, dunque a un livello di approfondimento prossimo alle elaborazioni della controparte meno impregnate di ideologia, e che deve tener conto delle relazioni di proprietà, di appalto, di fornitura fra aziende. Lo studio della distribuzione di quote del contributo datoriale fra «aziende madri» e «aziende figlie», tra quelle che gestiscono appalti e quelle che appaltano sarebbe forse un primo passo per dare concretezza a un’idea di questo genere e apparire credibili nel proporla. Si tratta, in fondo, di rispettare non solo le esigenze materiali dei lavoratori ma anche le loro preoccupazioni: non si può più proporre loro qualcosa di approssimativo o esclusivamente ideologico.
Questo testo, allora, è anche un appello a unire le forze per affrontare una questione importante e sperimentare sinergia politica nella ricerca. Siamo aperti a nuove collaborazioni e disponibili a proseguire nello studio, con l’obiettivo di fornire ai lavoratori, ai delegati e alla comunità politica conflittuale ulteriori stimoli e materiali di approfondimento.
Una campagna ideologica da contrastare
Dagli anni ‘90 in poi, in tema di pensioni i media italiani hanno espresso un pensiero piuttosto uniforme. Rare, e perlopiù̀ confinate nelle residue testate della sinistra radicale, sono state le voci fuori dal coro. Il messaggio veicolato quotidianamente è stato quello di un sistema previdenziale sull’orlo del baratro e in grado di condurre al disastro l’intero Paese, svuotando definitivamente le casse pubbliche. Per questo, i drastici interventi che si sono dati dal Governo Amato in poi, sono stati accompagnati non solo da manifestazioni di giubilo, ma anche dalla formula: «è un primo passo nella giusta direzione». Allo stesso tempo, le titubanze del ceto politico, che in alcuni casi – mosso dal problema del consenso – ha frenato sui provvedimenti più impopolari, sono stati oggetto non di semplice critica, ma di severa condanna.
Il pensiero unico della controriforma previdenziale
Ma se il dibattito ufficiale si è distinto per la ferma adesione a una sorta di pensiero unico, non vuol dire ch’esso non abbia sin qui palesato significative articolazioni interne. Per esempio, vi è stato anche chi, pur ponendosi alla testa dell’attacco al sistema pensionistico, non ha rinunciato a presentare la sua battaglia con accenti sociali e «di sinistra». È il caso dell’imprenditore Carlo De Benedetti, a lungo proprietario del quotidiano la Repubblica nonché sostenitore – con velleità di indirizzarne l’azione – della cosiddetta «sinistra di governo». In un intervento pubblicato il 29 luglio 2002 sul giornale in questione, egli definisce «problema strutturale del paese»[24] quello delle pensioni, arrivando a sposare la linea dell’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio. Questi, oltre a rilanciare l’istanza dell’innalzamento dell’età pensionabile, s’era espresso anche in favore dello sviluppo della previdenza integrativa privata.
Ora, dopo aver sottoscritto simili ricette, è difficile continuare a vestire i panni dell’imprenditore progressista. Ma De Benedetti ci prova egualmente, usando i seguenti argomenti:
Ritengo che il problema delle pensioni debba essere affrontato nell’ambito di una complessiva riforma dello Stato sociale italiano, perché non è solo un problema di sostenibilità finanziaria. L’Italia spende in pensioni più di tutti gli altri paesi dell’area OCSE, quasi un sesto del proprio prodotto interno. Questo impedisce di finanziare programmi di protezione sociale di vasta portata. Quando ben due terzi della spesa sociale sono indirizzati alle pensioni, rimane ben poco spazio per altri interventi.
Il gioco, all’epoca, rivelava una certa abilità. L’attacco alle pensioni veniva fatto passare come una condizione imprescindibile per il miglioramento delle altre voci del Welfare. Oggi, però, una simile argomentazione, ammesso che abbia mai fatto presa, sarebbe verosimilmente respinta dai più.
Sono passati oltre 20 anni da questo articolo e il segmento di classe politica a cui De Benedetti ha sempre rivolto i suoi consigli non ha mai mostrato la benché minima vocazione sociale. Per dire, il decrescente finanziamento della sanità pubblica non solo ha caratterizzato tutti i governi, a partire da quelli di centrosinistra. Ma si è anche dato come una sorta di automatismo, tendenzialmente sottratto a qualsiasi discussione e/o giustificazione pubblica. A fronte di ciò, affermazioni truffaldine del tipo «tagliamo qua per darvi di più di là» non riceverebbero ascolto neppure nei settori coscienzialmente più arretrati della classe lavoratrice.
Invero, la costruzione di queste fallaci narrazioni si è avvalsa anche di contributi autorevoli, come quello di Tito Boeri, ex Presidente dell’Inps e, prima, gettonato fautore di una radicale ristrutturazione del sistema previdenziale. In un’intervista rilasciata a la Repubblica, datata 27 ottobre 2017[25], egli rimprovera fortemente i partiti di non aver proceduto all’adeguamento a 67 anni dell’età pensionabile. Le sue argomentazioni sembrano serrate e ineccepibili. L’intervistatore richiama il fatto che, con il pensionamento a 67 anni, l’Italia stabilisce un primato europeo ma Boeri non esita minimamente di fronte a questa evidenza:
Oggi la vita lavorativa in Italia è di 31 anni, contro i 37 della media europea. L’età effettiva di pensionamento è da noi di poco inferiore ai 62 anni. Quindi di fatto stiamo innalzando l’età ma 62 anni e 5 mesi. Se non lo si fa, saranno i giovani a dover andare in pensione a 75 anni, o ancora più in là. È sempre avvenuto così. Si rimandava nel tempo ogni aggiustamento finché poi, con le spalle al muro, dovevamo procedere con gli interventi draconiani ai danni degli ultimi arrivati. È la storia delle riforme Amato e Fornero.
La campagna mediatico-padronale sulle pensioni
E qui siamo di fronte a un classico della lunga campagna mediatico-padronale sulle pensioni: la contrapposizione tra generazioni che, in alcune varianti, implica la colpevolizzazione di chi, dopo decenni di lavoro, chiede semplicemente di staccare e godersi quanto gli spetta. Boeri, in qualità di quadro di rango, meno di altri sconfina nella plateale volgarità. Tuttavia, anche il suo richiamo a «fare piccoli e ragionevoli sacrifici in nome delle future generazioni», se ben analizzato, rivela una natura ben poco «oggettiva». Perché gli aggiustamenti, peggio degli esami, non finiscono mai. Nella stessa fase, infatti, aveva anche ventilato la possibilità di innalzare l’età pensionabile a 70[26].
Per sua fortuna la carica di Presidente Inps non è eterna, altrimenti non si sa fin dove avrebbe spinto il discorso sull’adeguamento dell’età pensionabile alla speranza di vita. In ogni caso, durante questa impegnativa fase, ha avuto anche modo di perdere l’aplomb di affidabile economista. Si pensi alla sua reazione al provvedimento denominato Quota 100 e consistente nella possibilità del pensionamento anticipato, nel triennio 2019-2021, per lavoratori con un’età anagrafica di almeno 62 anni e un’anzianità contributiva minima di 38 anni. Una misura che la Lega pensò non muovendo da un’improbabile sensibilità sociale, bensì per tenersi buona una parte dell’elettorato (Quota 100 è andata soprattutto a vantaggio di lavoratori dipendenti del Nord). Quali che fossero le spinte di partenza, tale provvedimento ha rappresentato un’eccezione alla regola. Nell’intento di stigmatizzarla, lo studioso non ha evitato di dare i numeri, collegandola a un aggravamento di ben 100 miliardi del debito pensionistico[27]. Una stima che a molti è sembrata semplicemente «a effetto» e rispetto alla quale non sono state fornite pezze di appoggio.
Va detto che, anche di fronte a esibizioni di numeri meno forzate, la filosofia in questione non potrebbe essere sottoscritta da chi lotta per trasformare l’esistente. Perché la cosiddetta sostenibilità finanziaria, assunta come valore assoluto, non può non entrare in collisione con un’altra sostenibilità: quella umana. L’innalzamento oltre ogni limite dell’età pensionabile non può non minacciare l’equilibrio psico-fisico di chi lavora. Tuttavia, fatte salve queste considerazioni di ordine generale, forte è il sospetto che Boeri e altri abbiano consapevolmente introdotto nel dibattito allarmi eccessivi, sì da fare pressione sulla classe politica. Quest’ultima, senza mai mettere in discussione le controriforme pensionistiche in atto dagli anni ’90 in poi, ha talora tirato il freno a mano, facendo i conti con le ansie dell’elettorato.
Certo, vi è un tema rispetto al quale risulta difficile non condividere le preoccupazioni del quotatissimo economista in pensione. E riguarda l’alto numero di lavoratori precari che distingue l’Italia odierna, frutto inevitabile delle controriforme del mercato (e del diritto) del lavoro che si sono avute in Italia a partire dal Pacchetto Treu. Ora, da questi lavoratori non possono che pervenire contributi previdenziali di modesta entità e ciò, alla lunga, può arrecare gravi danni al sistema. Nel porre il problema, Boeri e altri non sono stati mossi da una riscoperta dei valori di giustizia sociale. Però hanno saputo dare una connotazione progressista al loro discorso. Perché lavoratrici e lavoratori precari sono tra i pochi soggetti che non vengono colpevolizzati. Anzi, viene spesso ricordato che essi contribuiscono a pagare la pensione di quelli che hanno un posto fisso (e che sono oggetto di una colpevolizzazione velata). Invero, le ricette elaborate per venire incontro ai precari lasciano alquanto perplessi. In tal senso, si può dar riferimento al libro Senza pensioni[26] di Walter Passerini e Ignazio Marino. Qui si punta sul fatto che
la legge Biagi (...) prevedeva un ampio e articolato disegno di riforma, che non è stato a oggi completato, e poneva il problema, insieme all’introduzione di nuove formule contrattuali flessibili, della compensazione tra temporaneità del lavoro e nuovo sistema di Welfare, disegnata nell’ambito del cosiddetto Statuto dei lavori: vale a dire un cantiere aperto, che introducesse un insieme di tutele universali di cittadinanza, indipendenti dalla formula contrattuale adottata, anche sul piano della previdenza e della pensione.
Legge Biagi e Pianeta Previdenziale: come si legano le questioni del lavoro a quelle pensionistiche
Dunque, non si mette in discussione quella L. 30/2003 (Legge Biagi) che dichiarando di voler promuovere il lavoro di qualità ha invece drasticamente ridotto diritti fondamentali, rendendo precaria e instabile vita lavorativa di milioni di persone. In più, si esagera la portata di quelli che, a ben vedere, altro non sono che elementi di compensazione di una condizione intollerabile. Una condizione che, in rapporto al nostro tema, risulta ben evidenziata da un rapporto del CeRP[27] datato 2003 e intitolato Previdenza dei parasubordinati: situazione attuale e prospettive[28]. Qui, viene posto nei modi più chiari il problema del rapporto tra collaboratori coordinati e continuativi (figura normata dalla L. 30/2003) e le pensioni. Riferendo della possibilità «di poter contare soltanto su una pensione» spesso «più bassa di quella assicurata dall’assegno sociale: 40 anni di versamenti contributivi» portano «infatti ad una pensione annua compresa tra i 2227 e il 5056 €, contro i 4138 circa dell’assegno sociale». A fronte di un dato simile, riportato da un centro di ricerca non dedito ad attività contestative, più che di compensazioni si dovrebbe parlare di un’inversione di rotta, coincidente con il definitivo superamento di certe leggi. Ma ai salvatori dell’Inps il precario interessa solo se lo si può opporre al «privilegiato del posto fisso». E l’essenziale è che risulti solo un po’ meno povero, in modo da non far saltare la baracca.
La sirena della previdenza integrativa e i piazzisti sindacali dei fondi pensionistici
Ma l'elenco dei falsi amici di chi è sfruttato non finisce qui. A esso, purtroppo, possono essere aggiunti la Cisl, la Uil e la maggioranza Cgil. Che, ad esempio, addebitano la scarsa adesione ai fondi pensione dei lavoratori del privato e di quelli della PA a un'insufficiente informazione sui fondi pensione, indicati come fonte di indubbi vantaggi futuri. Per questo, le organizzazioni in oggetto insistono sulla necessità che i propri rappresentati si dotino di un'adeguata educazione finanziaria. Colpisce la loro convergenza con l'ex Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero, che fa coincidere il percorso di ciascun lavoratore nei meandri della previdenza integrativa con la conquista di uno spazio di libertà, avente «come contraltare non trascurabile una maggiore responsabilità in capo all'individuo». Una responsabilità che presuppone «un'adeguata informazione sulla propria posizione previdenziale e un'adeguata preparazione finanziaria»[29].
Ora, forse sarebbe il caso di chiedersi se, più che a ignoranza, il suddetto comportamento dei lavoratori non derivi dall'intuizione che i fondi pensione non siano poi così vantaggiosi. Non solo. Bisognerebbe mettere in discussione provvedimenti come la L. 205/2017 che, in relazione al fondo Sirio-Perseo, ha introdotto il silenzio-assenso per tutti i neo assunti nei Ministeri, nelle Regioni, negli Enti locali e nella Sanità. In pratica, i neo assunti hanno sei mesi di tempo per scegliere tra due opzioni: tenersi il Tfr o aderire al fondo previdenziale in oggetto. Certo, hanno diritto a una dettagliata informazione circa le implicazioni delle due scelte… ma poi, in mancanza di una indicazione chiara da parte del lavoratore, il Tfr viene automaticamente assegnato alla previdenza integrativa, dalla quale peraltro non sarà possibile uscire. Tra le motivazioni a sostegno della previdenza integrativa, una delle più strombazzate è che la scelta di conservare il Tfr produrrebbe non pochi svantaggi in tempi di inflazione. Ma la realtà, che molti lavoratori hanno semplicemente intuito, smentisce simili argomenti: lo attesta il «flop» dei fondi pensione nel 2022, con rendimenti negativi di circa il 9% laddove il Tfr si è rivalutato dell’8,3%. Il punto è che il Tfr ha un rendimento magari basso ma sicuro e, comunque, al riparo da ogni turbolenza finanziaria. Se si esamina la situazione nel dettaglio, si scopre che si è rivalutato in media del 4,3% l'anno. Un dato che può apparire inadeguato rispetto all'inflazione ma che risulta senz'altro migliore delle previsioni fatte circolare da chi, in modo interessato, spingeva i fondi pensione come soluzione oltremodo vantaggiosa. La modesta adesione ai fondi pensione, fondata su valutazioni empiriche e sull'istintiva difesa dei propri interessi, non ha portato i sindacati confederali a fare marcia indietro, cercando di salvare almeno la faccia. Anzi, essi caldeggiano una nuova iniziativa governativa finalizzata a incentivare i fondi previdenziali, non escludendo di generalizzare quell'odioso meccanismo del silenzio-assenso che sembra essere diventato la via maestra per aggirare il diffuso (e fondato) scetticismo dei lavoratori.
Note
[1] Si ricorda quanto improduttiva sia stata nel tempo la vendita di case per lo più a prezzi non di mercato e oggetto di speculazioni immobiliari.
[2] Fonti: serie 1951-79 Ferrera [1984] e serie 1980-2005 OECD online database, in AA. VV., Alle radici del Welfare all’italiana, Marsilio Editori, Venezia 2012.
[3] Fonte: serie 2010-70 [2023], in Ragioneria generale dello Stato, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, MEF, Roma 2023).
[4] Il sistema contributivo è un metodo di calcolo dell’importo della pensione, basato sull’ammontare dei contributi versati. Il sistema retributivo, all’opposto, si fonda sulle retribuzioni (salari) effettivamente percepite.
[5] Ci riferiamo al bilancio complessivo dell’Inps, che comprende anche spese non previdenziali. Il bilancio puramente previdenziale è all’incirca di poco oltre i 350.000 milioni di €.
[6] Fonti: serie 1910-2010 Ferrera [2012] su dati INPS 2012 e serie 1960-2010 Brambilla [2015].
[7] Fonte: nostra elaborazione su serie già citate (Ferrera [2012] e Brambilla [2015]).
[8] Dal ’60 al ’75, ad esempio, il salario operaio nominale medio passò da 47mila Lire a 154mila (Fonte: Gonzato, «storiologia.it», serie 1945-2023).
[9] Nel 2000 la popolazione ultra-settantenne era circa il 20% rispetto a quella dai 20 ai 69 anni; tra il 2050 e il 2055 potrebbe toccare il suo massimo e superare il 50%. Fonte: Ragioneria generale dello Stato, Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, MEF, Roma 2023.
[10] Le ragioni da evidenziare sarebbero molto più specifiche ma non è questa l’occasione per un approfondimento di questo genere. Ci limitiamo a dire che secondo uno studio che abbiamo già condotto ma non ancora pubblicato (perché parte di un libro più esteso, che speriamo possa uscire presto) tale riduzione si è articolata attorno a sei leve principali: attacco al valore nominale delle pensioni; prolungamento dell’età pensionabile; attacco alla «base pensionabile»; rivalutazione dell’età pensionabile; compromissione della rivalutazione degli importi pensionistici; privatizzazione del sistema previdenziale.
[11] Redazione ANSA, Istat, rallenta l'occupazione nel terzo trimestre, -0,1%. In 13 anni salari netti calati del 10%, 20/12/2022.
[12] Quelli versati per malattia, maternità/paternità, cassa integrazione, disoccupazione, ecc.
[13] Redazione ANSA, ibidem.
[14] Fonte: INPS, Bilancio preventivo 2023, Tomo I. Il totale dei crediti previsto dall’INPS per il 2023 ammonta a oltre 190 miliardi di €, a fronte di circa 101 miliardi di debiti.
[15] Si pensi soltanto al fatto che le spese per malattia, infortuni, ecc. nel linguaggio tecnico imprenditoriale vengano chiamate «oneri impropri».
[16] M. Donato, G. Pala, La catena e gli anelli. Divisione internazionale del lavoro, capitale finanziario e filiere di produzione, La città del sole, Napoli 1999.
[17] M. Donato, G. Pala, Ibidem.
[18] M. Donato, G. Pala, Ibidem.
[19] L’aumento della produttività, infatti, è legato alla diminuzione del costo del lavoro. Se per produrre un articolo serve meno tempo che in precedenza, ossia se in una giornata lavorativa un solo dipendente produce più articoli che in passato, la porzione di pagamento salariale per singolo prodotto diminuisce, determinando la diminuzione del costo del lavoro per unità prodotta. Il capitalista, perciò, investe in produttività (migliorando l’organizzazione aziendale, le infrastrutture, facendo ricerca, ecc.) mentre agisce direttamente sul costo del lavoro, comprimendolo e quindi spendendo meno soldi per ogni lavoratore. Dunque: l’aumento della produttività e la riduzione del costo del lavoro «liberano», entrambi, capitali utili per nuovi investimenti.
[20] M. Donato, G. Pala, La catena e gli anelli. Divisione internazionale del lavoro, capitale finanziario e filiere di produzione, La città del sole, Napoli 1999.
[21] P. Frigero, Evoluzione della grande impresa: evidenze dalle classifiche Ceris e Mediobanca, in Aa. Vv., Evoluzione della grande impresa e catene globali del valore, Fondazione Ansaldo Editore, Recco (GE) 2014.
[22] C. De Benedetti, Pensioni e Riforma del Welfare, «la Repubblica», 29 luglio 2002.
[23] R. Mania, Boeri all’attacco dei partiti: «Lo stop all’età pensionabile solo per ragioni elettorali», «la Repubblica», 27 ottobre 2017.
[24] G. M. De Francesco, La minaccia di Boeri: “Pensioni a 70 anni o saltano i conti Inps”, «il Giornale», 17 luglio 2017.
[25] M. Franchi, Quota 100, se anche Boeri imbocca la strada della demagogia, «il manifesto», 12 ottobre 2018.
[26] W. Passerini, I. Marino, Senza pensioni, Chiarelettere, Milano 2011.
[27] “CeRP” sta per Center for Research on Pensions and Welfare Policies. Creato nel 1999, è frutto della collaborazione tra l’Università di Torino e la Compagnia di San Paolo. Studia l’economia delle pensioni e dell’invecchiamento, muovendo da un punto di vista tutt’altro che rivoluzionario. Non a caso, a coordinarlo è stata chiamata Elsa Fornero.
[28] Redazione l’Unità, Per i co.co.co tutta una vita da precari, anche in pensione, «l’Unità», 13 luglio 2003.
[29] Elsa Fornero, La riforma delle pensioni apre spazi nuovi per la libertà di scelta, in M. Conte, Guida alla Pensione Integrativa, 1 - Come pianificare il proprio futuro in quattro mosse, il Sole 24 Ore, Milano 2012.
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Emiliano Gentili è docente alle scuole medie. Ricercatore politico-sociale (e attivista), esperto di musica e disabilità. I suoi studi attuali si concentrano principalmente attorno al tema dell’evoluzione contemporanea dell’organizzazione del lavoro, nel tentativo di individuare problematiche trasversali ai diversi settori lavorativi.
Federico Giusti è operaio e delegato sindacale della cub. Collabora a varie riviste e blog su tematiche sociali, del lavoro e di carattere internazionale. Corrispondente di RadioGrad.
Stefano Macera svolge la professione di guida turistica. Collabora con varie riviste, applicandosi a 2 campi di ricerca. In ambito socio-politico, si occupa delle nuove forme assunte dal conflitto capitale-lavoro. In ambito socio-culturale, si interessa alle produzioni artistiche e cinematografiche estranee alle logiche di mercato.
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