Report atipico di un festival programmatico
Alcune riflessioni a partire dal festival appena concluso.
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Questa volta, a differenza delle precedenti, ci siamo presi qualche momento in più per pensare il report. Pensare, non semplicemente scriverlo. Perché è stato un festival innanzitutto che ci fa pensare, ci costringe produttivamente a farlo. Non ci soffermiamo sui corposi numeri di chi ha attraversato queste cinque, dense e importanti giornate. E non sentiamo l’esigenza di rimarcare la straordinaria qualità di tutti gli incontri e dei molti contributi pubblicati su Machina che hanno fornito la base di queste giornate e su cui torneremo più approfonditamente prossimamente: arrivati fino a qui consentiteci, senza supponenza né falsa modestia, di darla per scontata. Il punto è che, questo sugli anni Novanta, è stato un festival differente dagli altri. Lo diciamo fuori da ogni retorica comunicativa. Differente perché programmatico del percorso che DeriveApprodi e Machina hanno intrapreso nell’ultimo anno e mezzo, delle cose finora fatte e soprattutto di quelle che ci si propone di fare: dalle nuove collane della casa editrice sui temi di estrema importanza per capire il presente al nuovo marchio editoriale MachinaLibro; dagli articoli che hanno sorretto queste giornate al libro Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio che raccoglie i contributi del precedente Festival.
Questa differenza è visibile innanzitutto nei temi. Abbiamo aperto il festival con un incontro sulla fantascienza, ispirandoci a essa per il titolo, Quando il futuro è finito. Nelle giornate successive siamo passati dalla musica al cinema, dall’industria del porno a quella del calcio, dalla produzione artistica e musicale alla satira. Non si tratta – ed è questo il nodo centrale – di temi di «contorno», da evento spettacolare. Al contrario, sono lì emerse questioni centrali, decisive, per la riflessione critica sul presente e sulla genealogia dei decenni smarriti, per capire dove viviamo e le possibilità di una vita diversa. Tant’è vero che problemi e riflessioni di queste discussioni si sono naturalmente intrecciati, senza sfasamenti e soluzione di continuità, alle analisi degli incontri (solo apparentemente) «tradizionali», dal berlusconismo al leghismo, dalla geopolitica alla guerra, dal lavoro alla razza e al genere. Utilizziamo volutamente le virgolette perché in quelle analisi c’è stato ben poco di tradizionale, se a questo termine attribuiamo al ripetizione del già noto. La sfida lanciata a noi stessi, alle nostre tradizioni di pensiero, è stata raccolta da tutte e tutti i partecipanti.
Non a caso quando, durante uno degli incontri, un relatore ha detto «dobbiamo finirla con gli anni Settanta», nella sala è scoppiato un applauso spontaneo e liberatorio. Crediamo non ci sia bisogno di specificare come ciò non significhi affatto mettere una pietra sopra alla straordinaria ricchezza di esperienze, metodo e teoria che da lì viene. Significa, invece, riconoscere che con gli anni Settanta si chiude un’epoca. È proprio nei «decenni smarriti» che possiamo trovare le tracce che costituiscono il presente, nelle sue ambiguità, nei suoi aspetti mostruosi e potenzialmente fecondi. Tant’è che le molte e i molti giovani presenti in queste giornate si sono trovati a loro agio con i problemi analizzati, perché essi risuonano, concretamente e non solo teoricamente, nelle loro forme di vita, molto più delle grandi epopee di tempi storici ormai lontani.
Problemi, è la parola che più utilizziamo. Perché abbiamo bisogno di appuntarli, discuterli, metterli in fila, capire insieme come affrontarli. Non abbiamo bisogno di consolazione retorica, speranze o ottimismo a buon mercato. Abbiamo bisogno di realismo. Di un realismo inquieto. Ecco, questo è il termine che ha accompagnato la fine del festival, nell’incontro su centri sociali e impresa politica: come facciamo a costruire delle istituzioni inquiete?
Non tiriamo alcuna conclusione, come solitamente viene fatto nei report standardizzati. Concludiamo invece con questa domanda, con questa sfida. Lasciando che l’inquietudine scavi dentro di noi, ci accompagni, ci costringa a pensare in avanti. Perché se un’epoca è finita, una nuova ce la dobbiamo conquistare.
Ps: insieme al ringraziamento a relatrici, relatori e partecipanti, esprimiamo gratitudine per le realtà che con noi hanno reso possibile queste cinque, intense e bellissime giornate: l’Aics, la Casa di quartiere Scipione dal Ferro, il Centro polivalente Il Pallone, Le Serre, preziosissime oasi con cui fare carovana per attraversare il deserto del presente.
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