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Pedagogia del capitale umano

Riproduzione sociale ed estrazione del valore nel capitalismo digitale





Pedagogia del capitale umano

Apriamo il 2024 con un contributo di Federico Chicchi, ordinario di sociologia presso l’Università di Bologna già noto ai lettori di queste pagine, le cui analisi sul lavoro hanno programmaticamente indagato i nessi tra trasformazioni «strutturali», logiche dello sfruttamento e processi di soggettivazione, dei quali esplorare le ambivalenze a partire dal riconoscimento della loro centralità nel capitalismo contemporaneo. Le analisi di Federico Chicchi, infatti, hanno spesso spinto l’analisi delle trasformazioni del capitalismo sul terreno direttamente politico della «produzione» di soggettività (si vedano ad esempio le recenti analisi sulla «società della prestazione»), terreno necessario della lotta di classe nella perdita di rilevanza dell’occupazione come primaria forma di riconoscimento sociale. In questo articolo, Chicchi ritorna, con nuovi argomenti, su oggetti di studio già indagati, come il lavoro cognitivo (di cui fornisce una inedita analisi che ne pone in luce l’interna articolazione «soggettiva») e il prototipo della piattaforme digitale che, coerentemente con il suo approccio, è trattata – prima che come dispositivo tecnico – come «macchina sociale che orienta in profondità il funzionamento della soggettività, dei modi di lavorare, financo della dimensione estetica del mondo». Un contributo prezioso, con cui questa rubrica si propone di aprire un «cantiere» dedicato ai processi di soggettivazione nelle trasformazioni del lavorare e dell’agire; una questione proficuamente affermata nel dibattito dai processi di sottrazione, attrito, rinegoziazione che – senza con ciò immaginare improbabile scorciatoie di prossima liberazione dal lavoro - stanno ponendo in discussione gli assetti consolidati della struttura occupazionale e del rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Proposte e contributi sull’argomento sono benvenuti.


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Lavoro e società della prestazione

La società capitalistica neoliberale è oggi dominata dall’imperativo alla performance; ciascuno per costituirsi come soggetto è chiamato a dimostrare di saper concorrere con successo nell’arena del mercato. Il principio di prestazione (come lo chiamava H. Marcuse) oggi definisce la logica stessa della razionalità sociale (Dardot, Laval, 2013). Le soggettività sociali sono così calate in un contesto normativo, potremmo dire, paradossale che colloca lo spazio del progetto economico individuale – della sua performance, appunto – come il solo perimetro legittimo di organizzazione della propria carriera di vita. La prestazione si serve e si nutre, in tal senso, di una traduzione iperegoica della morale, che funziona come orizzonte (confine del) sociale. Le istituzioni, attraversate e profondamente risignificate dall’imperativo alla prestazione, non possono così che assumere, anch’esse, la logica del potenziamento individuale (empowerment) come criterio fondamentale di senso dei loro obiettivi e delle loro procedure funzionali.

È così che il soggetto contemporaneo finisce per assumere su di sé tutta la responsabilità di tracciare i contorni di una nuova e propria traiettoria di inclusione sociale. Tale scenografia, se vista dall’alto o comunque dalla giusta distanza, mostra anche come le vecchie istituzioni del moderno tendono oggi a perdere gran parte della loro cogenza normativa sui processi di soggettivazione. I nuovi imperativi normativi, esaltando la misura del potenziale prestazionale di ciascuno costituiscono e al contempo seguono quella soluzione immaginaria del poter maturare un rinnovato e aumentato livello di autonomia sociale. In altri termini: il soggetto sgravato, almeno in buona parte, dai rigidi ruoli che lo inserivano nella gerarchia sociale del moderno, calato all’interno degli attuali dispositivi di performance e impermanenza si illude di essere più libero e autonomo nelle scelte, mentre è sempre più vero il contrario.

Talent show, cartoon e serie, ma allo stesso modo in realtà, programmi e metodi scolastici, modelli di formazione professionale, politiche pubbliche, lavoro e tempo libero, volontariato e tempo riproduttivo, riviste e bestseller, vengono tutti oggi innervati da una nuova pedagogia performativa che ammette, e anzi diremmo sollecita, comportamenti etici e solidali, ma solo e se questi ultimi risultano compatibili con lo svolgimento di un’azione misurabile sul piano prestazionale o della propria employability (occupabilità). In altre parole, promuovendo l’immagine di sogno di un’affermazione individuale e solipsistica si riproduce un immaginario sociale che legittima il mercato e la logica della concorrenza a diventare l’unico principio costitutivo di una società che voglia dirsi e farsi giusta.

 

Il processo di cognitivizzazione del lavoro e il digital labor

Nella società neoliberale il lavoro salariato, l’emploi come lo definiva Robert Castel, la sua centralità sociale nella società industriale, sono quindi entrati in una crisi irreversibile. Il suo superamento come medium privilegiato del riconoscimento sociale – riconoscimento che si era attuato da un punto di vista materiale attraverso l’istituzione dei sistemi di Welfare – apre uno scenario di drammatica incertezza e precarietà sociale verso cui occorre muovere con urgenza un nuovo e mirato sforzo di analisi e azione politica. Il lavoro precario, secondo questa chiave interpretativa, diviene la forma principale del lavoro nella nuova società della prestazione, dove la precarietà è soprattutto crisi della dimensione pubblica intesa come dispositivo terzo di regolazione sociale fondamentale.

 Rispetto a tale prospettiva occorre però avanzare subito un’ulteriore precisazione: questa accezione di precarietà è infatti molto efficace nel definire uno scenario di confine, o meglio ancora di litorale, tra quello che era il lavoro nella società industriale e quello che sta diventando, nel capitalismo prestazionale, e postfordista, ma è forse in tal senso insufficiente per permetterci di tracciare in positivo i contorni e le emergenze dei nuovi processi di soggettivazione che nella nuova società oggi si producono.

 Precarietà, infatti, è un concetto che sul piano cognitivo, focalizza e richiama per contrasto e in negativo il dispositivo di stabilità fordista (Nicoli, 2015) che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta è andato progressivamente a de-istituirsi e a perdere di importanza. Dovremmo chiederci: le ultime generazioni – i precari di seconda generazione – che entrano o tentano di transitare in un mercato del lavoro già quasi totalmente destrutturato rispetto alle norme regolative della società salariale, e che quindi non hanno fatto esperienza diretta dei recenti processi di umiliazione del lavoro sono ancora disponibili a interpretare e definire la loro condizione a partire da un concetto di precarietà primariamente inteso come mutilazione e privazione di qualcosa che si è perduto?

 Per rispondere a tale domanda bisogna innanzitutto cominciare a circoscrivere i processi fondamentali attorno ai quali sono venute a precipitare le nuove qualità del lavoro nella società della prestazione. A nostro avviso è in proposito possibile indicare nel processo di cognitivizzazione del lavoro uno (seppur non sia l’unico) dei più significativi.

 La cognitivizzazione del lavoro, ovvero l’utilizzo fondamentale di risorse e competenze immateriali nei processi di valorizzazione, rappresenta oramai un processo strutturale e trasversale al mondo del lavoro contemporaneo; processo che attraversando e innervando le pratiche e le esperienze soggettive di lavoro – seppur in modi e forme differenti a seconda dei contesti – ne altera profondamente, rispetto al passato, le forme organizzative, le funzioni e i contenuti. Il rapporto tra lavoratore e lavoro, così come si era organizzato secondo il modello «operazionale» e «astratto» del lavoro fordista, basato sulla crescente e progressiva separazione tra lavoro e lavoratore, viene rimesso in discussione dalla presenza di nuovi saperi professionali all’interno di tale rapporto e dalla qualificazione cognitiva crescente richiesta per svolgere oggi le nuove attività produttive.

 Il lavoro cognitivo, in tal senso, è in primo luogo descrivibile come un’inedita riarticolazione di questo rapporto, che viene oggi a essere ricombinato nel senso di una crescente ri-soggettivazione del lavoro. L’esito principale è, da un punto di vista del lavoratore il ritorno di un investimento personale sull’esperienza lavorativa. E questo ovviamente in coerenza con le richieste di responsabilizzazione personale diretta, sulla propria carriera di vita, previste dal modello neoliberale.

 I dati empirici delle, in verità, non molto numerose ricerche svolte sul tema (Chicchi, Masiero, 2015) hanno sottolineato come tale processo, accentuato oggi dal contesto di scarsità crescente dell’occupazione, si produce, in primis, nei termini di un rinnovato «attaccamento» affettivo al lavoro. Ma di quale lavoro si tratta? A quale concetto, idea, immaginario soggettivo del lavoro si riferiscono questi dati?

 Gli assi di definizione del lavoro cognitivo a nostro avviso sono fondamentalmente tre ed è dal loro incrocio che si precisa lo spazio triangolare del lavoro cognitivo prestazionale:

a) la rinnovata passione verso il proprio lavoro potenziale;

b) l’incertezza occupazionale strutturale del mercato del lavoro;

c) la necessaria innovazione continua dei propri saperi professionali.

I rapporti e le modalità di articolazione tra questi tre campi fondamentali di definizione del lavoro cognitivo rappresentano quindi la posta in gioco che ci troviamo ad affrontare trattando il tema del lavoro nella società contemporanea.

 A seconda della vicinanza di ciascun lavoratore all’interno dello spazio bidimensionale formato dai tre lati appena individuati è possibile evidenziare una condizione sociale emergente particolare. Quando si è posizionati –  nel senso che nella propria esperienza prevalgono quelle istanze – verso il lato formato dai due vertici innovazione e incertezza occupazionale, allora ci troviamo nel contesto del cosiddetto cognitariato, cioè un lavoro ancora una volta più esecutivo che creativo, neo-taylorizzato, dove la risorsa immateriale o di conoscenza non viene a sostenere un progetto professionale, ma semplicemente a orientare le precarie e intermittenti traiettorie occupazionali dei soggetti coinvolti; dove invece, al contrario, sono la passione e l’innovazione/formazione continua a prevalere, l’esperienza di lavoro tende ad assumere traiettorie di lavoro autonomo professionale o posizioni di lavoro dipendente ad alto contenuto di capitale simbolico. Nei casi più fortunati, ma davvero residuali nel mercato del lavoro attuale, le traiettorie disegnate qui indicano il formarsi di una professionalità che Richard Florida avrebbe definito con il concetto di classe creativa, all’interno della quale è possibile trovare soggetti altamente performativi e capaci di spostarsi agilmente sulle reti sociali e produttive e di sfruttare al meglio le condizioni di estrema variabilità dei mercati del lavoro. L’ultimo segmento del triangolo del lavoro cognitivo, quello che collega i vertici dell’incertezza e della passione, delinea invece il formarsi di attività di lavoro caratterizzate da un elevato commitment soggettivo, ma al contempo anche da una sensibile difficoltà a stabilizzare e a adeguare ai propri bisogni sociali il reddito da lavoro. Quest’area descrive tutte quelle attività caratterizzate dalla cosiddetta trappola della passione o anche dell’economia della promessa, dove le capacità soggettive vengono premiate, e non sempre, con benefit simbolici che difficilmente producono una stabilità o progressione economica effettiva, se non come proiezione in una tutt’altro che sicura prospettiva futura. Il lavoro in campo artistico ne rappresenta un caso paradigmatico, il mondo della ricerca e della formazione ne è un altro significativo (dove però la tensione dei due vertici con il terzo della innovazione continua resta molto più forte).


Triangolo del lavoro cognitivo

Il lavoratore cognitivo da un lato, così, scrive – come abbiamo poco sopra argomentato – il suo destino lavorativo dentro un processo che richiede un’innovazione continua, riflessiva e sempre aperta alla contingenza e dunque assume una postura rispetto al lavorare tendenzialmente più indipendente e centrata sulle proprie aspirazioni. Dall’altro, per generare valore e acquisire i saperi che gli servono, deve inscriversi, senza poterne fare a meno, all’interno di pratiche e relazioni complesse di cooperazione sociale e condivisione, che i nuovi paradigmi del digitale rendono immediatamente disponibili.


Le piattaforme e l’estrazione del valore direttamente dalla riproduzione sociale

Tra gli effetti più evidenti del processo di cognitivizzazione del lavoro vi è quello di rendere il lavoro ancora più fragile, esternalizzato e atomizzato, oltre che in linea di massima meno capace di attivare forme di resistenza e conflitto.

 In altre parole, i processi di trasformazione del capitalismo (acceleratesi ulteriormente con la pandemia) hanno impattato in modo così decisivo il rapporto sociale di subordinazione che le pratiche di sfruttamento del lavoro si stanno inscrivendo sempre di più in uno spazio molto più esteso rispetto a prima tanto che le categorie marxiane classiche di sussunzione non sono più in grado di descriverle tutte in modo efficace (Chicchi, Leonardi, Lucarelli, 2016).

 Le modalità fondamentali attraverso cui il lavoro viene reso adeguato al funzionamento dell’emergente economia digitale (e dei suoi dispositivi) è rintracciabile, secondo me, innanzitutto nel processo di cognitivizzazione del lavoro. Sosteniamo cioè che questo processo dimostra come la piattaforma digitale, intesa come attuale dispositivo principale della messa a valore da un lato e della misurazione di efficacia della prestazione (via algoritmo) dall’altra, non organizza solamente un nuovo codice funzionale di intermediazione delle relazioni di lavoro ma contribuisce al radicamento sociale (e cognitivo) di una vera e propria cultura prestazionaria della nuova soggettività produttiva.

 Le piattaforme, come ha incisivamente messo in luce la sociologa inglese Ursula Huws, sono infatti efficientissimi dispositivi di cattura e mercificazione di socialità. La loro recente penetrazione nel mercato del lavoro riproduttivo e del tempo libero non sarebbe però stata possibile se i confini tra lavoro e non–lavoro non fossero stati nei fatti già superati durante la crisi postfordista del lavoro. Come ancora la stessa Huws ha sottolineato: questa perdita di confini non è affatto un’esclusiva del lavoro digitale, ma caratterizza una intera generazione già propensa ad accettare la compenetrazione tra «divertimento», «educazione», e le attività della vita online (Huws, 2014).

Le piattaforme portano così il livello tecnologico dei dispositivi di cattura del valore «all’altezza» dei nuovi rapporti sociali di produzione di tipo post-salariale, contribuendo a rinforzare reciprocamente la qualità dei processi di accumulazione. La presenza della piattaforma sui mercati istituisce, infatti, all’interno della relazione capitale-lavoro, una mediazione inedita che rende più difficile, a causa della diffusione dei processi di gestione automatica (a base algoritmica) delle pratiche di produzione, il contrasto del comando e dell’indirizzo privatistico, nonché sempre più sperequato dell’accumulazione. La piattaforma digitale è, a mio avviso, uno dei modi attraverso cui il Capitale oggi ricostruisce il tema della subordinazione della soggettività al capitale dopo la crisi dell’istituzione salario e lo scoppio della pandemia.

Inoltre, quello che vorremmo sostenere è che il processo di platformisation non è facilmente comprensibile se si rimane prigionieri di uno schema interpretativo interno o comunque per lo più schiacciato sulla questione tecnologica. La piattaforma, infatti, non è solamente un dispositivo tecnico, ma una macchina sociale che orienta in profondità il funzionamento della soggettività, dei modi di lavorare, financo della dimensione estetica del mondo. Inoltre, e infine, la diffusione della nuova intermediazione digitale ridisegna a fondo il tessuto urbano all’interno del quale le soggettività produttive si trovano a operare sotto l’imperativo del principio di prestazione: come è stato molte volte affermato in letteratura le piattaforme producono in tal senso nuove infrastrutture.

 Per quanto riguarda specificatamente il lavoro di piattaforma e più in generale il digital labor ci pare significativo segnalare come il tratto distintivo della nuova configurazione del rapporto di produzione sia la formazione di quelle che potremmo definire aree di indistinzione. Tali aree sono l’esito di una progressiva confusione e sovrapposizione tra quelle attività che nel moderno si caratterizzavano per la presenza di precisi confini e di loro specifiche proprietà funzionali, seppur fossero tali sfere tra loro fortemente interdipendenti.

 Tale confusione si manifesta oggi sempre di più sia in termini sostanziali (esperienziali e culturali) che formali (giuridici) e ha come effetto principale quello di determinare una nuova condizione di sfruttamento, più ampia della precedente, dove era ancora possibile rintracciare delle aree di non mercificazione. Una delle funzioni sociali fondamentali delle distinzioni prima rintracciabili tra le diverse aree sociali (produzione-riproduzione; tempo di lavoro-tempo libero; formazione-occupazione; produzione-consumo; ecc..) era quella di riuscire ad attivare mediazioni sociali all’interno del conflitto capitale-lavoro capaci di mobilitare modalità di equità distributiva e forme di protezione sociale per quelle sfere di attività non direttamente implicate nei processi di valorizzazione. Il formarsi della sempre maggiore confusività tra sfere e attività rende invece complicato e per nulla scontato il riuscire ad attivare istanze di giustizia sociale, collegate agli interessi dei diversi attori in gioco, soprattutto per quanto riguarda le figure sociali più fragili e marginali. Le aree sociali di indistinzione che diventano bacino privilegiato dell’estrazione del valore nel capitalismo contemporaneo sono così una caratteristica centrale della nuova società algoritmica.

 Occorre però dirne qualcosa in più sul piano della produzione di soggettività. Da questo punto di vista non si tratta più solamente di agire razionalmente in modo strategico, non si tratta più di realizzare degli interessi, si tratta piuttosto di riuscire ad apprezzare sé stessi.

 Il soggetto prestazionale è preso da un tratto confusivo preciso, in lui perde di rilevanza la differenza, nella soggettività industriale invece ancora visibile e importante, tra ciò che è concepibile come merce e ciò che invece non è definibile in quanto tale. Il soggetto prestazionale, diversamente dal soggetto economico moderno (il cosiddetto homo oeconomicus), non è cioè più in grado di tracciare e quindi istituire una frontiera tra sfera della produzione e sfera della riproduzione sociale. Esso nella sua «formazione» affonda i piedi senza possibilità di discernimento in entrambi i contesti: «tutti i miei comportamenti, in qualsiasi campo (dietetico, erotico, religioso...) contribuiscono allo stesso titolo della mia diligenza sul lavoro o della mia capacità di vendere le mie competenze, alla valorizzazione del capitale umano che sono – cioè a dire al processo di apprezzamento di me stesso di cui io sono imprenditore e azionista di riferimento» (Feher, 2007, p. 18).

 L’imperativo alla competizione come spazio di formazione della soggettività neoliberale invade così, nel farsi capitale umano, lo spazio dell’individuazione, componendolo come un portfolio di condotte (o stock di competenze) diversificate e trasversali alle sfere di vita, ma tutte utili a validare sul piano sociale il livello del suo ranking comportamentale. L’apprezzamento e con esso il livello di autostima di ogni soggetto passa così senza scarti dalla capacità di investire in modo strategico sul capitale umano che si è (e quindi non che si ha), e sulla abilità del sistema di valorizzare tali atteggiamenti, in modo da influenzare alla radice e in tal senso le scelte strategiche del soggetto.

 Certo, questo pone il problema di come intendere il conflitto (e il suo governo) dentro una logica dello sfruttamento che non può essere ridotta al tema «quantitativo» della distribuzione del valore/tempo di lavoro, così come si era per lo più determinato nella società industriale. In fondo, marxianamente, il capitalismo delle piattaforme non è che l’adeguamento delle forze di produzione al configurarsi di un rapporto sociale di produzione che non può più essere interamente determinato nello spazio della mera mediazione salariale. E che, al contrario, deve fare dell’appropriazione delle attività della riproduzione sociale (in senso lato) il suo nuovo spazio privilegiato dell’estrazione del valore. È per questo motivo che ora il conflitto politico non è più solo concentrato all’interno degli spazi di produzione industriale, ma si articola, ad esempio, sempre di più attorno al tema dell’appropriazione della natura e dei servizi di Welfare. Ed è sempre per questa ragione che la battaglia sul salario non può più essere l’unico spazio dove agire il conflitto, ma occorre articolare quest’ultima in modo stringente con le battaglie che riguardano la giustizia climatica, la progettazione urbana, la sofferenza sociale, la distribuzione di un reddito di auto-determinazione e soprattutto quella che possiamo definire qui attraverso il concetto della giusta restituzione (Chicchi, Simone, 2022).

In questo senso, la formazione delle aree di indistinzione come nuovo spazio dell’accumulazione nella società capitalistica rende anche più complicato e urgente immaginare l’organizzazione del conflitto. Quest’ultimo deve essere necessariamente ripensato come una prospettiva ad arcipelago[1] che tenga conto delle nuove interdipendenze tra le esperienze diversamente situate e insista dentro e contro i processi di valorizzazione della società della prestazione, e in tal senso è mia convinzione che siano necessariamente le lotte «incistate» nello spazio della riproduzione sociale quelle attraverso cui rivoluzionare l’attuale organizzazione sociale.


Note

[1] «Il "prospettivismo ad arcipelago", di cui parla Deleuze, è quello tipico di un percepire in divenire (sui piani della vista e dell’udito) proprio di una comunità di pirati, oserei dire dotati di fiducia in loro stessi e nelle capacità di navigazione/sperimentazione ("oltre che nel mondo")». U. Fadini, Il desiderio in America. Per una politica ad arcipelago, in F. Vandoni, E. Redaelli, P. Pitasi (a cura di), Legge, desiderio, capitalismo. L’anti-Edipo tra Lacan e Deleuze, Bruno Mondadori, Milano 2014, p. 40. L’arcipelago è però per noi anche lo spazio delle alleanze che si costituiscono tra soggettività eterogenee, accumunate però tra loro dal riconoscersi in una causa comune.

 

 

Riferimenti Bibliografici

F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, 2017.

F. Chicchi, A. Simone, Il soggetto imprevisto, Meltemi, 2022

F. Chicchi, E. Leonardi, S. Lucarelli, Logiche dello sfruttamento, Ombrecorte, 2016.

P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, DeriveApprodi, 2013.

U. Fadini, Il desiderio in America. Per una politica ad arcipelago, in F. Vandoni, E. Redaelli, P. Pitasi (a cura di), Legge, desiderio, capitalismo. L’anti-Edipo tra Lacan e Deleuze, Bruno Mondadori, Milano 2014.

M. Feher, S’apprécier, ou les aspirations du capital humain, in « Raisons politiques » n.28, 2007, pp. 11-31.

U. Huws, Labour in the Global Digital Economy, Monthly Review Press, 2014.

M. Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, 2015.


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Federico Chicchi insegna «Sociologia delle trasformazioni economiche e del lavoro» e «Globalizzazione e capitalismo» presso l’Università di Bologna. È inoltre docente del corso di «Trasformazione dei legami sociali» all’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata (Irpa, sede di Ancona). È direttore, insieme ad Alex Pagliardini, del progetto editoriale «err». Svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro, dell’impresa e della soggettività nel capitalismo.

 



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