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Operaismo e postfordismo

Come il patrimonio teorico dell’operaismo italiano è servito a comprendere la realtà del lavoro postfordista


Riprendiamo dall’archivio di commonware.org questo saggio di Sergio Bologna del 2014, apparso all’epoca anche in inglese su Viewpoint Magazine. Il testo, accompagnato da un’inedita introduzione dell’autore, va inserito nel contesto del lavoro genealogico che Machina sta conducendo sugli anni Ottanta.


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Rileggendo le conclusioni di questo saggio a circa dieci anni di distanza si è colti da un senso di sconforto per qualche minuto, ma poi l’abitudine alle sconfitte ci fa riprendere il cammino. Ragionando più a mente fredda, è vero che oggi, 2023, abbiamo visto concludersi il cammino di quella criminale rinuncia ai propri valori che la classe dirigente dei partiti storici del movimento operaio ha compiuto negli ultimi decenni, ma è altrettanto vero che gli scatti di dignità che la forza lavoro della gig economy riesce a compiere, ripercorrono nelle modalità di espressione e nei contenuti di fondo l’approccio operaista, sia che si tratti degli sceneggiatori americani, sia che si tratti delle dimostrazioni contro la riforma delle pensioni in Francia.

Se dovessi dire da parte mia quale novità è emersa in questo approccio negli ultimi vent’anni non avrei dubbi ad affermare che si tratta della focalizzazione sulla crisi/dissoluzione della borghesia piuttosto che sul lavoro operaio. Anche perché quella che chiamiamo gig economy coinvolge sia mestieri servili di nessuna qualificazione che competenze acquisite con studi superiori. Ricordo quello che disse Mario Tronti proprio allora, novembre 2014, presentando il mio libro Ceti medi senza futuro (DeriveApprodi, 2007) (https://www.youtube.com/watch?v=t1lk6DtlKxY&t=2191s); disse che leggeva con grande interesse le mie riflessioni ma che non era questo il terreno che stimolava il suo pensiero perché «il lavoro aveva perduto la sua centralità teorica». Lui, con straordinaria coerenza e tenacia continua a interrogarsi sulla forma del «politico» ed ha ragione nel dire che i conflitti sul lavoro comunque non riescono a trovare né una mediazione politica né uno sbocco politico, però è altrettanto vero – e per niente consolante – che dal terreno del «politico» non si vede giungere una nemmeno seppur debole luce, il buio è totale. È vero che i conflitti sul lavoro riproducono le stesse forme di quaranta o cinquant’anni fa, ma almeno lampi di luce riescono a mandarli.

In un recente intervento al Festival di DeriveApprodi Mario ha evocato il tema del rapporto tra «contemplazione e combattimento» perché «il conflitto vuole poi questo momento di interiorità quasi contemplativa perché questa interiorità approfondisce la coscienza del conflitto». «La politica ha bisogno di un grande pensiero», aggiunge, e il periodo iniziato negli anni 60 con l’autonomia del politico si è concluso con gli anni 80, si conclude lasciando un senso di «pessimismo antropologico che io mi porto dietro da allora e faccio fatica anche a comunicarlo, perché sembra rassegnazione e negazione del conflitto». Oggi non è tanto la miseria della politica quanto il degrado degli «individui massificati» che può toglierci la speranza, è la «decadenza della forma umana».

Avremmo definito toni «apocalittici» una volta questi discorsi, invece io, che proprio più degli altri ho avuto difficoltà a seguire Mario nei suoi sforzi di dare senso all’autonomia del politico, oggi mi trovo d’accordo con lui in questo realismo della definizione «decadenza della forma umana» e sono sempre meno convinto che termini come «classe operaia», «borghesia», «lower middle class» abbiano ancora un valore euristico e politico. A pensarci bene, il disgusto che ci coglie nell’assistere a quel che rimane di «politico», inteso come discorso istituzionale, costituzionale, come gestione del patrimonio pubblico, è ben poca cosa di fronte all’angoscia che ci coglie nell’osservare nei suoi comportamenti «l’uomo di ogni giorno», quello che incontriamo per strada, che abbiamo vicino in metropolitana, che attende il verde al semaforo accanto a noi. È questa colonizzazione dei cervelli, questa modificazione del DNA operata da Google e simili coi loro strumenti di connessione, la «potenza ostile» che sentiamo di fronte a noi. Ma, è la domanda che mi pongo, quale strumento se non il conflitto, anche nelle sue forme più tradizionali, il conflitto all’interno del rapporto primordiale di subordinazione, può restituire autonomia all’umano?

Un altro tema che Mario affronta in quel dialogo con Adelino Zanini e Gigi Roggero è quello della storia. Non mi dilungo su questo, mi limito a rimandare il lettore al testo delle mie «Tre lezioni sulla storia», appena uscito da Mimesis, e in particolare al rapporto tra quanto Mario dice sulla cecità del «presentismo» e le mie annotazioni (pp. 141-142) sul fatto che una buona parte degli storici di oggi cancellano il presente, non sono in grado di misurarsi con esso. E come si fa a fare il mestiere dello storico ignorando il presente? Forse pensano che cancellando il presente riescono ad ottenere la mitica «obbiettività»? S.F.B.


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Il sistema di pensiero che viene riassunto con il nome di «operaismo italiano» non è un sistema organico, racchiuso in un testo fondamentale, in una qualche Bibbia, ma è la somma di diversi contributi teorici provenienti da alcuni intellettuali militanti che hanno fondato le riviste «Quaderni Rossi» e «Classe Operaia»[1]. Raniero Panzieri, Mario Tronti, Toni Negri e Romano Alquati sono quelli che hanno posto le fondamenta del sistema, altri, come Gaspare De Caro, Guido Bianchini, Ferruccio Gambino, Alberto Magnaghi, hanno portato dei contributi essenziali su tematiche specifiche che completavano l’orizzonte del pensiero operaista e gli davano l’impronta di un «sistema» coerente al suo interno, come la storiografia, l’agricoltura, le migrazioni, il territorio.


Operaismo e fordismo

L’esperienza dei gruppi operaisti si è sviluppata in un periodo storico nel quale sembrava che nelle società capitaliste non ci fosse un’alternativa alla produzione di massa caratterizzata da grandi imprese in grado di ottenere forti economie di scala. La grande fabbrica nella quale migliaia di lavoratori svolgevano operazioni sempre più semplificate ̶ mentre le macchine svolgevano operazioni sempre più complesse ̶ sembrava il punto d’arrivo di un processo storico che aveva origine nella nascita dell’industrialismo. La produzione di massa era il modo migliore per produrre beni che costavano poco sul mercato e potevano essere acquistati da tutti, in primo luogo dagli stessi lavoratori che li producevano, anche se si trattava di beni complessi come l’automobile. Così si creavano le premesse per realizzare l’insostituibile integrazione alla produzione di massa, cioè il consumo di massa. Un sistema tanto perfetto e ben funzionante che era stato adottato anche dai paesi dove aveva trionfato la rivoluzione comunista. Anzi, la rivoluzione comunista aveva trionfato in paesi nei quali questo sistema era ancora molto imperfetto, poco sviluppato o addirittura inesistente, sono stati i governi usciti dalla rivoluzione a portare a compimento lo sviluppo del sistema della produzione di massa organizzandola in grandi Kombinat, in complessi industriali con migliaia di lavoratori, estendendola anche all’agricoltura. In Occidente questo sistema veniva chiamato per comodità «fordismo» perché aveva trovato la sua applicazione pratica e teorica più compiuta nell’organizzazione delle fabbriche dell’automobile di Henry Ford. L’idea di base dell’operaismo, mutuata ovviamente dalla teoria marxiana, era che la grande fabbrica con le sue migliaia di operai potesse trasformarsi in un grande terreno fertile per un progetto rivoluzionario e diventare da sede della produzione di massa a spazio liberato dall’oppressione capitalistica. Il capitalismo doveva essere imprigionato nella sua stessa dimora, le mura della sua casa dovevano diventare le sbarre della sua prigione. Il lavoro fordista alla catena di montaggio doveva diventare il terreno di formazione del soggetto rivoluzionario, dell’operaio massa. Come si vede, l’idea primordiale dell’operaismo era il calco, l’impronta rovesciata del fordismo. Senza un’organizzazione sociale come quella della fabbrica fordista l’operaismo avrebbe avuto difficoltà a elaborare il suo progetto rivoluzionario, l’operaio massa si formava come classe dentro un sistema produttivo con particolari caratteristiche tecnologiche, era tutt’uno con questo sistema, che gli forniva i mezzi di sussistenza. L’operaio massa era innanzitutto un salariato, la struttura della sua busta paga era composta da una parte fissa, il salario base, da un parte variabile, collegata alla produttività e da altre voci che corrispondevano ad altrettante conquiste contrattuali come il recupero dell’inflazione, gli assegni familiari, le ore straordinarie, i premi di produzione, le indennità per lavori notturni o nocivi ecc.. L’organizzazione produttiva fordista non era il sistema dominante solo all’interno della fabbrica ma proiettava i suoi rigidi schemi anche sulla società, sulla mobilità urbana ed extraurbana, sugli insediamenti abitativi, sugli orari dei negozi. Migliaia di operai uscivano al mattino presto dalle fabbriche dopo aver fatto il turno di notte ed altrettante migliaia erano in attesa fuori dai cancelli per entrare al primo turno del mattino. Era questo il momento migliore per distribuire e diffondere i volantini di «Classe Operaia» e di «Potere Operaio», volantini che quasi sempre erano stati scritti su indicazioni fornite da operai delle stesse fabbriche, dopo un lungo lavoro di «conricerca», di dialogo e di scambio di opinioni e informazioni tra militanti operaisti e operai di fabbrica. L’operaismo quindi è stato in tutto e per tutto l’immagine rovesciata del fordismo, era tutt’uno con il fordismo, viveva in simbiosi con esso, non sembrava immaginabile un operaismo senza una società fordista, senza una produzione di massa, senza l’operaio massa. Con la morte del fordismo avrebbe dovuto morire anche l’operaismo. La società postfordista, la società dell’informazione, la società della prevalenza del terziario e della finanza, del lavoro precario e del lavoro indipendente, avrebbero dovuto essere incomprensibili a chi si era formato sul fordismo. L’operaismo avrebbe dovuto estinguersi lentamente man mano che la figura dell’operaio massa diventava sempre più marginale nelle società occidentali. Invece ciò non è avvenuto, i militanti, gli attivisti, gli intellettuali che avevano condiviso l’esperienza operaista sono stati in grado meglio di altri di cogliere le caratteristiche della nuova formazione capitalistica – che per comodità abbiamo chiamato «postfordista». Anzi, di tutte le organizzazioni ed i gruppi extraparlamentari degli anni Settanta operanti in Italia, gli eredi dell’operaismo sono rimasti gli unici a tentare, a volte con successo, di elaborare una nuova teoria della liberazione praticabile nella società postfordista, sono gli unici che sono riusciti a tallonare l’evoluzione del capitalismo da Henry Ford a Steve Jobs, producendo analisi convincenti e pratica politica sia con il lavoro salariato sia con il lavoro non salariato. Com’è stato possibile?


Il ruolo dell’intellettuale

Innanzitutto occorre ricordare che l’operaismo non è stato una semplice riproposizione dell’anarco sindacalismo o del Linkskommunismus, gli operaisti non hanno mai creduto che il sistema capitalista, assediato da conflitti industriali sempre più estesi, con una classe operaia sempre più aggressiva, disposta a praticare il blocco della produzione e di qualunque attività propria del lavoro subordinato, sarebbe crollato in seguito a uno sciopero generale prolungato e irreversibile. Queste utopie non appartengono alla tradizione operaista, anche se le tecniche del conflitto industriale che l’operaismo ha cercato di promuovere erano le stesse dell’anarco sindacalismo. L’operaismo non è mai stato indulgente con le semplificazioni, con le facili parole d’ordine, a costo di apparire esercizio di intellettualismo, a costo di essere accusato di eccesso di pensiero astratto. Prima di tutto l’operaismo non ha mai preteso di poter «insegnare» agli operai la via della rivolta o della rivoluzione, al contrario, la pratica operaista della «conricerca» vuol dire semplicemente che il militante deve «imparare» dagli operai, deve saperli ascoltare, mantenendo però sempre il suo ruolo d’intellettuale, che gli consente di trasmettere strumenti di pensiero e di analisi che possono essere utili all’operaio che intende affrontare un percorso collettivo di liberazione. L’operaismo ha sempre rifiutato l’atteggiamento populista, che era molto comune tra i militanti dei gruppi extraparlamentari degli anni Settanta in Italia, di camuffarsi da operai, di vestire la tuta blu per assomigliare agli operai, di nascondere con vergogna le proprie origini borghesi. Al contrario, chi ha avuto la fortuna di poter studiare, di frequentare l’Università, di avere a disposizione strumenti per arricchire le proprie conoscenze, per sviluppare uno spirito critico, chi ha avuto la fortuna di poter studiare all’estero, di imparare le lingue, di conoscere meglio e da vicino il pensiero del capitale, chi ha avuto la fortuna di conoscere la storia del movimento operaio, il pensiero marxista, ha il dovere di perfezionare al massimo questi strumenti di conoscenza, di raggiungere con i suoi lavori i livelli più alti di produzione scientifica e di mettere a disposizione di tutti ma in particolare dei lavoratori il suo sapere, le sue conoscenze. Deve concepire sé medesimo come una cellula di una struttura di servizio. Questo atteggiamento degli operaisti veniva trattato con disprezzo, venivano chiamati spregiativamente «i professori», in realtà anche quando i loro principali esponenti si sono trovati a ricoprire ruoli accademici (da Negri a Tronti, da Alquati a Gambino, da Bianchini a Magnaghi) hanno sempre svolto il loro insegnamento come una missione politica, hanno sempre fatto ricerca come fosse una «conricerca», hanno sempre parlato e scritto lo stesso linguaggio nelle loro pubblicazioni scientifiche e nel materiale di propaganda politica. Il principio regolatore della loro vita d’intellettuali è stato quello di essere sempre sé stessi, non di sdoppiarsi in un ruolo di professori ed uno di militanti, facendo gli accademici di giorno e gli operaisti di sera o nei week end. Ed infatti sono stati gli unici professori universitari ad essere messi in galera o ad essere espulsi dall’Università. La repressione si è abbattuta in maniera selettiva su di loro.


La classe operaia come organismo complesso

Da quanto si è detto è facile intuire che il sistema di pensiero operaista non ama gli schematismi e le semplificazioni, al contrario, consapevole dell’estrema complessità della realtà capitalistica, cerca di scandagliare a fondo questa realtà, di rendersi conto dei suoi aspetti palesi e meno palesi. Potremmo dire che ha una grande considerazione dell’avversario, sa che deve combattere una potenza raffinata, brutale e seducente al tempo stesso. Sottovalutare l’avversario è proprio degli stupidi, destinati a sicura sconfitta. Il primo aspetto del sistema capitalistico al quale l’operaismo ha prestato la sua attenzione è stato quello della tecnologia. L’impulso decisivo lo ha dato Raniero Panzieri con la sua lettura innovativa del «Frammento sulle macchine» di Marx pubblicato sul n. 1 dei «Quaderni Rossi»[2]. La tecnologia è lavoro incorporato, essa svolge un ruolo ambivalente, perché «libera» l’operaio da una certa fatica ma al tempo stesso «sottopone» l’operaio ad un maggiore e più rigido controllo. La tecnologia ha il potere di plasmare un certo tipo di forza lavoro, di determinare certe sue caratteristiche professionali, che possono avere dei risvolti specifici anche nella sua mentalità, nella sua cultura e quindi nel suo agire politico. L’operaismo dice che la tecnologia ha il potere di determinare «la composizione tecnica della classe operaia». Facciamo un esempio. Nelle fabbriche dell’auto degli anni Settanta c’erano dei reparti nei quali l’operaio aveva un rapporto individuale con la macchina, ne conosceva tutti i segreti, era in grado di «prepararla», di attrezzarla ed era molto orgoglioso di questa sua conoscenza che era anche la fonte del suo piccolo potere. Si trattava di operai specializzati con una forte coscienza del proprio ruolo, che venivano considerati la cosiddetta «aristocrazia operaia» ed in genere erano anche i più combattivi, moltissimi erano comunisti e consideravano il loro essere comunisti come una naturale conseguenza del loro essere i più specializzati, i più qualificati, non solo per quanto riguardava la macchina loro affidata, una pressa, un tornio, una fresa, una saldatrice, ma per quanto riguardava l’intero ciclo produttivo; conoscevano la fabbrica in ogni suo angolo, erano in grado quindi di organizzare scioperi improvvisi, blocchi della produzione, fermando i punti nevralgici del ciclo. Trasmettevano il loro sapere ai più giovani ma al tempo stesso avevano un forte senso della gerarchia, ritenevano giusto un sistema salariale fortemente differenziato, il giovane doveva salire gradino dopo gradino la scala della specializzazione. In altri reparti della fabbrica invece c’erano le catene di montaggio, cioè un tipo di tecnologia che non permette un approccio individuale, dove potevano essere inseriti operai e operaie senza nessuna qualificazione. A Milano agli inizi degli anni Sessanta nelle fabbriche elettromeccaniche, dove il lavoro alla catena non era spesso pesante come nell’auto, nei reparti del montaggio venivano impiegate le donne, operaie generiche, pagate ovviamente molto meno degli operai addetti alle macchine. Questa classe operaia era quella che l’operaismo definì «operaio massa», con una mentalità molto diversa dall’operaio specializzato dell’aristocrazia operaia e quindi con delle rivendicazioni opposte: aumenti salariali uguali per tutti, abolizione del cottimo individuale. Rivendicazioni che dovevano suonare come una bestemmia alle orecchie del vecchio operaio comunista che lavorava come attrezzista sulle macchine individuali.

Cosa succede quando negli anni Ottanta la fabbrica si disintegra e poco alla volta si diffonde e poi dilaga la tecnologia dell’informazione? Cosa succede quando gli operai di fabbrica, specializzati o meno, operai massa o meno, vengono in parte sostituiti dai robot, in parte vengono licenziati perché la produzione si delocalizza verso i paesi emergenti, perdono la loro forza sociale, la tradizione comunista viene buttata a mare dai partiti di sinistra e la classe operaia non è più un soggetto politico? Succede che il mondo del lavoro si adatta alle nuove tecnologie, viene plasmato dalle nuove tecnologie. Chi proviene dall’esperienza operaista si trova ad avere degli strumenti intellettuali in grado di capire cosa sta succedendo. Come prima aveva osservato il rapporto tra operaio specializzato e macchina individuale o tra operaio massa e catena di montaggio ora osserva il rapporto tra personal computer e soggetto che lo sta utilizzando, mette a confronto due modi di lavorare totalmente differenti, un modo di lavorare fordista, inquadrato in una rigida organizzazione che comprende migliaia di persone in spazi dedicati, ed un modo di lavorare solitario, senza spazi dedicati, capace di determinare i propri ritmi e di accedere in permanenza ad un universo d’informazioni potenzialmente infinito. Al primo momento l’uomo che lavora al personal computer gli appare come un puzzle. È un uomo libero? Ha un grado di libertà maggiore dell’operaio schiavo della catena di montaggio? Apparentemente sì. Ѐ un uomo che ha potere? Potere di negoziazione nei confronti del suo datore di lavoro, quanto ne avevano gli operai che collettivamente fermavano la produzione e trattavano con la direzione? Apparentemente no, anzi sicuramente no, il potere sociale lo si ottiene solo con la coalizione, l’individuo da solo è sempre subalterno. Come dice Michel Serres, «la connettività ha sostituito la collettività», il lavoratore non vive insieme ad altri lavoratori come lui, a tu per tu, è connesso con altri lavoratori dei quali non conosce né il volto né la voce ma solo l’indirizzo mail. La massa d’informazioni che può procurarsi tramite Internet gli conferisce maggiore potere, maggiore capacità di negoziazione rispetto all’operaio che, schiavo della macchina, non aveva la possibilità di accedere al mondo dell’informazione? No, non ha maggior potere, il solo vantaggio che può avere nei confronti del lavoratore subordinato, operaio o impiegato che sia, è quello di potere usare quelle informazioni per vivere come lavoratore indipendente, come non salariato. Sono bastate quindi poche domande che il vecchio operaista ha rivolto a se stesso sulla natura del lavoro postfordista per capire che il capitalismo aveva fatto un enorme salto in avanti nella capacità di controllare la forza lavoro; il nuovo soggetto, al quale mancava ancora un nome, non aveva soprattutto la possibilità immediata di coalizzarsi, di porsi in maniera negoziale con il datore di lavoro, anzi non sapeva chi fosse il suo datore di lavoro, se medesimo o una terza persona? Per immaginare un percorso di liberazione era necessario ricominciare daccapo, mantenendo fermo però il punto di partenza, quello che tutti ritenevano ormai superato: il problema del lavoro. Era ancora possibile immaginare un percorso di liberazione partendo dal lavoro? Era ancora possibile vedere nell’uomo del personal computer un lavoratore o questa parola «lavoratore», worker, Arbeiter, travailleur, trabajador, doveva essere cancellata dal vocabolario, perché appartenente ad un’epoca ormai tramontata, cioè all’epoca fordista?


L’idea di lavoro nel postfordismo

La forza dell’elaborazione teorica operaista consiste, come si è detto, nell’affrontare la complessità dei problemi, nell’andare a fondo delle cose, evitando le semplificazioni, le scorciatoie. L’esempio più illuminante lo si può vedere osservando come gli operaisti trattavano il concetto di classe operaia. Per la maggior parte dei militanti politici degli anni Sessanta e Settanta il termine «classe operaia» era una specie di mantra, una parola magica onnicomprensiva. Bastava richiamarsi alla classe operaia per essere considerato una persona appartenente alla «Sinistra», al movimento operaio, per essere considerato un comunista. Per gli operaisti invece la classe operaia era un universo inesplorato, estremamente differenziato e complesso o, meglio, era il punto di arrivo di un processo lunghissimo, irto di ostacoli, nel corso del quale la forza lavoro prendeva coscienza del proprio ruolo e della propria forza e si presentava sulla scena della società come un protagonista, non come l’appendice del sistema di produzione capitalista. Come ho avuto modo di scrivere in un mio saggio sull’operaismo, «il lavoro collettivo che la pattuglia operaista stava conducendo a contatto diretto con il mondo della produzione di fabbrica cercava di andare a fondo dei diversi piani che compongono il sistema dei rapporti di produzione: l’organizzazione sequenziale del ciclo produttivo, i meccanismi gerarchici che esso produce spontaneamente, le tecniche di disciplinamento e di integrazione che vengono elaborate, l’evoluzione delle tecnologie e dei sistemi di lavorazione, le reazioni ai comportamenti spontanei della forza lavoro, le dinamiche interpersonali all’interno del reparto, i sistemi di comunicazione degli operai durante l’orario di lavoro, la trasmissione dei saperi dagli operai più anziani a quelli più giovani, la formazione di una cultura del conflitto, le divisioni interne alla forza lavoro, l’uso delle pause e dell’orario di mensa, i sistemi retributivi e la loro applicazione differenziata, la presenza del sindacato e le forme di propaganda politica, la coscienza del rischio e i metodi per tutelare la propria integrità fisica e la propria salute, il rapporto con i militanti esterni, il controllo dei tempi e il rapporto con il cottimo, l’ambiente di lavoro e via dicendo»[3].L’uomo con il personal computer, in quanto lavoratore, cioè persona che cede un determinato prodotto intellettuale a terzi in cambio di una retribuzione per poter sopravvivere, doveva presentare la stessa, se non maggiore, complessità. Cominciamo dalle cose più semplici. Per esempio: quale forma assume la sua retribuzione? La vecchia forma del salario oppure la forma dell’onorario? Viene pagato a ore o a prestazione professionale? Ha un orario di lavoro? I parametri fondamentali per definire un lavoratore sono il salario e l’orario, la sua vita privata, la sua esistenza personale, la sua quotidianità, i suoi consumi, i suoi rapporti di coppia, il suo standard di vita sono determinati in tutto o in parte da questi due parametri. È una visione molto materialista, rozzamente materialista, alla quale l’ideologia della modernità oppone la teoria che ciò che conta nell’individuo non è la sua condizione materiale ma è la sua personalità, il suo carattere, se è ottimista o pessimista, socievole o scontroso, seducente o scostante, portato alla leadership o sottomesso, espansivo o silenzioso, disinvolto o timido, che ha «carattere» o non ne ha. Ma, a ben vedere, il più rozzo materialismo è meno ingannevole del soggettivismo esasperato, dell’individualismo sterile e illusorio, che sono, a ben vedere, dispositivi ideologici che hanno lo scopo di dissolvere la nozione di «lavoro». La concezione moderna di lavoro contenuta nell’ideologia della modernità è che esso non è più un’attività umana conto terzi in cambio di mezzi di sussistenza ma attività in cui l’individuo estrinseca la propria personalità, conosce meglio sé stesso, è quasi un incontro mistico. «Il lavoro è un dono di Dio» ho sentito un giorno dire da un dirigente sindacale cattolico, il lavoro non rientra nel mondo delle merci ma in quello della psicologia umana. Da questa ideologia nasce l’idea del lavoro come «dono» dell’individuo alla collettività, nasce la giustificazione del lavoro gratuito, del lavoro malpagato. Il principio marxista che considera il lavoro il terreno primordiale sia dell’antagonismo sociale che della cooperazione tra individui, il terreno sia del conflitto che della solidarietà, viene completamente cancellato.


White collar e knowledge worker

Che nome diamo all’uomo con il personal computer? Abbiamo accettato il nome che gli aveva affibbiato l’ideologia dominante, knowledge worker, ci sembrava utile perché conteneva la parola «worker» e quindi nessuno poteva negare che si trattasse di una persona la cui essenza viene definita dal lavoro. Abbiamo cominciato a ragionare su questa definizione. Poteva assomigliare al white collar del fordismo? La risorsa analitica che potevamo mettere in campo era quella delle inchieste sui tecnici di produzione apparse sin dai primi numeri di «Classe Operaia» e poi divenute una costante della teoria e della pratica operaista. Quanto più complessa diventava la tecnologia, quanto più sofisticate diventavano le macchine, tanto maggiore era l’importanza della forza lavoro dotata di conoscenze tecniche. Il capitalismo incorporava dentro i suoi processi produttivi sempre maggiori contenuti scientifici, la produzione industriale di massa aveva alle spalle i laboratori di ricerca delle università e dei reparti specializzati delle aziende. I tecnici potevano essere rappresentati come una nuova classe, che avrebbe potuto avere uno sviluppo analogo a quello della classe operaia. Già nella storia del movimento operaio, durante i movimenti rivoluzionari dei consigli alla fine della prima guerra mondiale, i brain worker avevano svolto un ruolo positivo ed erano stati considerati dal comunismo delle origini una componente essenziale della classe rivoluzionaria. Non è un caso che l’operaismo, durante le rivolte studentesche del ‘68, era più diffuso nelle facoltà scientifiche che in quelle umanistiche. Ma l’uomo con il personal computer non poteva esser definito banalmente un white collar perché il mondo del lavoro non era costituito soltanto da lavoro subordinato, da lavoro salariato, bensì da tanti lavoratori indipendenti che fornivano le loro prestazioni, anche se avevano un solo committente, lavorando a casa o in spazi di coworking o in un caffé Starbuck. Il white collar condivideva con gli operai gli spazi dell’azienda, aveva orari di lavoro simili, era a contatto quotidiano con i problemi della produzione. Ci trovavamo di fronte ad un mutamento antropologico, non solo a un mutamento sociologico. Se avessimo dovuto ragionare ancora in termini sociologici avremmo dovuto dire che la divisione chiara tra classi che il sistema fordista aveva determinato non era più riconoscibile nella società dell’informazione e quindi i nostri parametri dovevano cambiare. Restava fermo invece il punto di partenza, cioè la convinzione che la tecnologia ha un effetto fortissimo sulla vita e la mentalità del soggetto che usa questa tecnologia per stare nel mondo, per lavorare, per guadagnarsi da vivere, per comunicare. Il nostro interesse, la nostra analisi, dovevano concentrarsi sulla figura del knowledge worker e scandagliare le caratteristiche intrinseche a quella moltitudine che formava la nuova middle class, un aggregato sociale che ormai non aveva più i valori della vecchia borghesia, che non era più capace di sfruttare il lavoro altrui perché ancora non capiva come faceva a non sfruttare se stesso. L’estrazione di plusvalore ormai si trasferiva sempre più dalla sfera produttiva alla sfera finanziaria, le enormi disuguaglianze di reddito che sempre più si accumulavano nelle società capitaliste, l’impoverimento progressivo della middle class, si spiegavano meglio analizzando le dinamiche finanziarie che quelle della produzione di massa. Anche su questo terreno l’operaismo poteva mostrare una sua superiorità, perché, unico tra le componenti dei movimenti di protesta degli anni Settanta, aveva affrontato le problematiche della politica monetaria e dei grandi flussi finanziari internazionali, soprattutto con il lavoro svolto dalla redazione della rivista «Primo maggio».


Il caso italiano

Infine, la ragione forse decisiva per la quale l’operaismo ha avuto gioco facile nel comprendere la natura del postfordismo è stata la sua origine italiana. Tra tutti gli stati del capitalismo avanzato l’Italia è stata il paese che ha portato avanti la disgregazione della grande fabbrica in maniera più radicale. L’Italia è stata all’avanguardia nel cosiddetto «decentramento produttivo», nella frammentazione dell’impresa in tante piccole e minuscole aziende artigiane. Nel giro di un decennio, dal 1980 al 1990, l’Italia diventa il paese dei «distretti industriali», aree specializzate in determinate produzioni, soprattutto in produzioni a basso valore aggiunto (tessile-abbigliamento, cuoio e calzature, arredo per la casa), caratterizzate dalla presenza di piccole e medie imprese. Il sistema del decentramento produttivo comporta due vantaggi rispetto alla fabbrica fordista: diminuisce i costi di produzione e riduce il rischio di conflitti industriali. Una parte delle lavorazioni vengono date in outsourcing, spesso agli stessi operai che vengono trasformati in artigiani fornitori, il numero dei dipendenti diminuisce drasticamente e si riduce la massa salariale e l’effetto di rivendicazioni sindacali. Siamo a metà tra fordismo e postfordismo o, se vogliamo, siamo in presenza di un postfordismo «dall’alto». I vantaggi di questo sistema consentono la formazione anche di grandi imprese multinazionali, come Benetton e Luxottica. I distretti industriali si diffondono in particolare nelle regioni a forte controllo sociale, nel Veneto cattolico e nell’Emilia Romagna comunista. Il Partito Comunista Italiano sposa l’ideologia del decentramento produttivo come un «capitalismo dal volto umano» sostenibile perché privo di conflitti, il fine principale di una comunità civile sembra quello, dopo il decennio di forti conflitti e scontri di classe, della pace sociale. Gli intellettuali che provengono dall’esperienza operaista colgono immediatamente questa trasformazione, che viene accentuata e resa più radicale anche dai movimenti di protesta del ’77, i quali rappresentano con le tematiche della soggettività, dell’ambiente, del rifiuto del lavoro normato, disciplinato, irreggimentato, una specie di postfordismo «dal basso», un desiderio di liberazione che non teme di contrapporsi alla stessa classe operaia. Sin dalle prime grandi ristrutturazioni di aziende dell’auto (Innocenti di Milano, anni 1974-75) con l’uso massiccio della Cassa Integrazione, gli operaisti seguono da vicino queste trasformazioni, l’analisi del decentramento produttivo è uno dei temi centrali sia di riviste come «Primo Maggio» che di gruppi universitari di ricerca, in particolare a Milano alla Facoltà di Architettura dove insegna Alberto Magnaghi[4]. Non sono gli unici, anzi molti laboratori universitari, nel Veneto, in Emilia Romagna, in Toscana, nel Mezzogiorno, seguono con interesse la trasformazione del modello fordista, la differenza sta che nell’analisi dei gruppi che mantengono il retaggio dell’operaismo il decentramento produttivo viene visto come un attacco all’unità della classe operaia, come una rivincita del capitalismo dalle sconfitte dell’«autunno caldo», mentre gli altri gruppi di ricercatori vedono nel decentramento produttivo solo una nuova frontiera del capitalismo, con molti risvolti positivi. È il periodo in cui Toni Negri promuove il movimento di Autonomia e teorizza l’emergere dell’«operaio sociale». Quindi la percezione del cambiamento e di un cambiamento epocale è, si può dire, immediata. Il movimento del ’77 sembra per un momento intravedere uno sbocco libertario del postfordismo, ma è solo una fiammata, l’anno successivo i gruppi della lotta armata alzano il tiro e raggiungono l’apice della loro azione con il rapimento Moro (marzo 1978). Un anno dopo, il 7 aprile 1979, parte l’ondata di arresti di tutti i militanti del disciolto «Potere Operaio». Non ci sarà più nessuna «via libertaria al postfordismo», il cambiamento di paradigma del capitale porterà solo ed unicamente il segno della rivincita di classe.


L’operaismo e le nuove generazioni degli anni Novanta

Per un decennio la talpa operaista smette di scavare. In realtà «il periodo d’oro» dell’operaismo si era chiuso già da un pezzo. Per Tronti, Asor Rosa, Cacciari ed altri si era chiuso già prima del ’68 con il loro ingresso nel Pci, per Negri ed altri compagni si era chiuso probabilmente con lo scioglimento di «Potere Operaio»[5]. Non c’è mai stata una discussione sulla periodizzazione storica dell’operaismo, non ci sono dubbi sulla sua data di nascita ma non c’è nessun accordo sulla sua data di morte, anche perché una teoria politica che è anche una metodologia conoscitiva non muore mai finché c’è qualcuno che ritiene utilizzabili i suoi strumenti analitici e le sue conseguenze pratiche. Sicché possiamo ben parlare di un «post-operaismo» intendendo con questo il riaffiorare di un interesse per i suoi paradigmi presso una nuova generazione di militanti e di ricercatori nati alla fine degli anni Sessanta e che all’inizio degli anni Novanta avevano vent’anni. La rivista «Primo Maggio» è stata senza dubbio un’iniziativa culturale che esplicitamente si richiamava all’operaismo, le sue pubblicazioni cessano nell’autunno 1988 con il numero 29, ma proprio negli ultimi anni, quando a dirigerla erano Cesare Bermani e Bruno Cartosio, s’erano avvicinati alla redazione alcuni giovani che in seguito avrebbero avuto un ruolo nella critica al postfordismo e nei tentativi di organizzare il precariato, il lavoro cognitivo, all’interno dei centri sociali[6]. Altri si erano buttati a capofitto nell’informatica e nella cultura digitale contribuendo a creare l’area italiana del movimento cyberpunk e del movimento hacker, avendo come punto di riferimento iniziale la Libreria Calusca di Primo Moroni a Milano, che era stata anche il centro propulsore della distribuzione di «Primo maggio». Raffaele «Valvola» Scelsi e Ermanno «Gomma» Guarneri[7] saranno tra i fondatori della rivista «Decoder» e poi della casa editrice Shake, che ha svolto un ruolo fondamentale nella diffusione della «civiltà del computer» e della cultura digitale. Essi, assieme a Rosie Ficocelli, Paola Mezza e Marco Philopat (il quale fonderà poi una propria casa editrice), appartengono alle nuove generazioni fortemente influenzate dall’operaismo, che intraprenderanno dei percorsi politici originali e innovativi. Altri ancora avevano avuto come maestri e docenti universitari i fondatori dell’operaismo e quindi facevano tesoro del loro insegnamento, come Devi Sacchetto, allievo di Ferruccio Gambino, o Emiliana Armano, allieva di Romano Alquati, che oggi è tra le ricercatrici più attive a livello internazionale sulle tematiche del precariato[8]. Questa nuova generazione, nata e cresciuta nel postfordismo, si serve per la sua crescita teorica e per le sue prime produzioni di saggi e di riflessioni della rivista «Altreragioni», nata nel 1991 nel clima di tensione politica creato dalla guerra del Golfo, per iniziativa di alcuni tra i primi collaboratori di «Classe Operaia», di «Quaderni Piacentini» e dell’Istituto Ernesto de Martino. Michele Ranchetti, uno dei più importanti intellettuali italiani del dopoguerra, storico, saggista, direttore editoriale, pittore, poeta, musicista, Franco Fortini, poeta, scrittore, critico letterario, già vicino ai «Quaderni Rossi», Edoarda Masi, sinologa, bibliotecaria, saggista, collaboratrice di «Quaderni piacentini» assieme a Sergio Bologna, Ferruccio Gambino, Pier Paolo Poggio, Lapo Berti, Guido De Masi, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni, Giovanna Procacci (tutti nomi che troviamo anche tra i collaboratori di «Primo Maggio») ed altri lanciano l’iniziativa della rivista «Altreragioni» alla quale si avvicinano immediatamente i giovani della nuova generazione che aveva subìto l’influsso dell’operaismo. Uno di questi è Andrea Fumagalli, che negli anni successivi, assieme alla compagna Cristina Morini, rappresenterà un punto di riferimento teorico e politico dei movimenti del precariato e del «cognitariato». Dopo i primi numeri la rivista sarà diretta da Ferruccio Gambino e Giovanna Procacci, mentre Sergio Bologna, Primo Moroni, Lapo Berti, Christian Marazzi, Pier Paolo Poggio, Mavì Defilippi, Marco Cabassi ed altri daranno vita ad un’altra iniziativa che ha avuto una certa importanza nel raccogliere l’eredità operaista, la «»Libera Università di Milano e del suo Hinterland (Lumhi)». Due i temi centrali della sua attività culturale: la battaglia contro il revisionismo storico e la definizione dei soggetti sociali del postfordismo. Dall’attività della Lumhi nasce in co-edizione Shake-Feltrinelli l’opera collettiva che rappresenta una svolta nell’analisi di classe post-operaista: Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia a cura di Sergio Bologna e Andrea Fumagalli[9]. È il 1997, vecchia e nuova generazione hanno trovato qui un terreno comune di dialogo e di produzione analitica.

Le tesi e le ricerche di alcuni ex militanti dei gruppi operaisti riguardanti la condizione dell’uomo moderno nel postfordismo e nell’economia del debito hanno trovato largo riscontro anche sul piano internazionale, è il caso per esempio di Maurizio Lazzarato, che si era laureato a Padova ed aveva avuto come insegnanti Toni Negri, Ferruccio Gambino, Ferrari Bravo e Sergio Bologna. La nuova generazione affronta anche la storia dell’operaismo, comincia a scriverla a partire dalle testimonianze dei principali protagonisti[10]. Dall’estero, non soltanto dall’Italia, arrivano altri contributi che, riflettendo sulla storia dell’operaismo, ne vogliono trarre, come Storming Heaven di Steve Wright[11], un bilancio culturale e politico. Oggi la fonte principale per i documenti originali dell’operaismo è la collana «Biblioteca dell’operaismo» della casa editrice DeriveApprodi di Roma, fondata da un compagno di «Potere Operaio», Sergio Bianchi.

Uno studio di caso sul passaggio da una società industriale fordista a una società del terziario avanzato in un quartiere di Milano è stato analizzato nel documentario di Sabina Bologna «Oltre il ponte. Storie di lavoro»[12].


Il ruolo della Libreria Calusca di Milano

A questo punto è necessario mettere a fuoco il ruolo molto importante che ha avuto Primo Moroni e la sua Libreria Calusca nel creare un ponte tra la cultura operaista e le nuove generazioni[13]. La Libreria, durante gli anni Settanta e Ottanta, ha svolto una funzione difficilmente classificabile con i parametri tradizionali delle organizzazioni culturali. È stata un luogo d’incontro, di convergenza, di dialogo tra tendenze politiche le più diverse, ma con un’accentuata simpatia per il filone operaista, per i diversi filoni anarchici, per le tendenze situazioniste e internazionaliste. Tradizioni e tendenze, come si vede, fortemente diverse tra di loro o anche conflittuali ma che trovavano accoglienza e rifugio (nei tempi duri) in un luogo che era straordinario perché eccezionale era la personalità del suo titolare, Primo Moroni, uomo di grande cultura e di ancora maggiore sensibilità per l’innovazione culturale, pur non avendo nessuna formazione universitaria. Ex ballerino del varietà, ex rappresentante librario, figlio di ristoratori toscani immigrati a Milano, cresciuto in quartieri popolari dove la piccola malavita locale aveva modi e codici di onore molto diversi da quelli della mafia, dove magari si rubava ai ricchi per dare ai poveri, ultima propaggine di quella «mala» milanese che agli inizi del Novecento popolava i quartieri del Ticinese e viveva in simbiosi nelle «case di ringhiera» con il proletariato industriale e l’artigianato tradizionale fortemente influenzati dal socialismo. Ladri, rapinatori, ricettatori, prostitute indipendenti, scassinatori, falsari vivevano accanto alla pellicciaia, al tipografo, all’operaio elettromeccanico, al bottaio, al falegname e formavano un amalgama molto resistente alla mentalità della società borghese. Erano i componenti di un’unica cultura proletaria che difendeva le sue prerogative ed ammetteva al suo interno le pratiche di illegalità e di esproprio. Attorno a questo mondo sono sorti miti e leggende, è nato un vero e proprio «Canzoniere» che negli anni Sessanta e Settanta è tornato di moda, soprattutto tra i movimenti di protesta che esaltavano molte forme di illegalità. Primo Moroni era capace di dialogare sia con le ultime tracce di questo mondo sia con gli intellettuali di «Classe Operaia». Egli riconosceva nell’operaismo il sistema di pensiero politico più innovativo, ne era affascinato, così come era attratto dal pensiero situazionista. Quando nel 1973 gli presentammo il nostro progetto di «Primo maggio» ne colse immediatamente la ricchezza d’idee ed il rigore scientifico e divenne l’editore e il distributore della rivista. Quando, dopo il 1971/72, iniziarono le prime azioni di guerriglia urbana e fecero la loro comparsa le Brigate Rosse e altri gruppi armati, Primo Moroni non esitò a tenere in libreria e a diffondere le loro pubblicazioni e i loro scritti; quando le carceri cominciarono a riempirsi di compagni che militavano nei gruppi extraparlamentari la Libreria di Moroni divenne un punto di riferimento per l’invio di materiali di lettura nelle carceri. Fu così che la rivista «Primo Maggio» ebbe una diffusione ampia nelle prigioni (circa 500 copie per numero venivano inviate in carcere su richiesta dei detenuti). Questa attività naturalmente portò gli inquirenti e la polizia a considerare «Primo maggio» una rivista vicina al terrorismo e solo grazie a delle prese di posizione decise di alcuni membri della redazione, anche nei confronti di Toni Negri, fu possibile evitare l’identificazione tra la nostra rivista e i gruppi dell’Autonomia o i gruppi armati. Negli anni Ottanta e Novanta tutta la controcultura giovanile delle nuove generazioni che entravano nell’era digitale faceva riferimento alla Calusca, la quale nel frattempo era diventata anche una struttura di soccorso ai vecchi militanti che scontavano molti anni di carcere, soprattutto a quelli privi di ogni sostegno, senza organizzazioni di riferimento, che avevano perduto tutto, casa, famiglia, lavoro. Abbiamo visto spesso queste persone, sempre ex operai o comunque gente di origine proletaria, uscire dal carcere a Milano, magari dopo vent’anni trascorsi nelle prigioni di alta sicurezza di tutta Italia e, non sapendo dove rivolgersi per un aiuto, arrivare in Libreria Calusca a chiedere un prestito per un biglietto del treno, in modo da andare sulla tomba dei genitori morti nel frattempo in qualche paesino del Sud. In Primo Moroni trovavano sempre solidarietà proletaria. La sua Libreria dunque metteva insieme i superstiti della cultura operaista, i giovani dei centri sociali e dei movimenti cyberpunk, i reduci della lotta armata ma anche moltissime persone di autentici sentimenti democratici, docenti universitari, professionisti, insegnanti. La Calusca era una specie di «zona franca» dove persone diversissime e ambienti che non avevano alcun contatto tra di loro si incontravano e si rispettavano. Primo Moroni era un grandissimo affabulatore, non ha scritto molto ma ha rilasciato molte interviste e testimonianze. Senza Primo Moroni l’operaismo non avrebbe mai raggiunto le giovani generazioni dell’era digitale.


Il post-operaismo e la sindacalizzazione dei self employed

La caratteristica specifica del pensiero dell’operaismo è la sua stretta aderenza alla realtà, è il suo rapporto costante con l’azione, con la pratica militante. Gli scritti della tradizione operaista non sono destinati alla mera lettura o alla mera propaganda, il loro rigore scientifico non è destinato alla valutazione accademica, il loro messaggio è un messaggio puramente politico, esso deve produrre azione, mobilitazione, conflitto, confronto. L’analisi non deve restare pura analisi, non avrebbe alcun senso se restasse allo stadio di analisi, anche la più sofisticata. L’analisi può essere anche parziale, insufficiente, ma deve produrre mobilitazione, deve risvegliare le coscienze, deve mettere in moto delle dinamiche soggettive che portano le persone a tutelare e difendere i propri diritti, la propria dignità, sul lavoro, nei rapporti di lavoro. Le analisi contenute nel volume Il lavoro autonomo di seconda generazione sono state anche duramente criticate dalla sociologia accademica, con qualche ragione, ma quelle pagine hanno trovato ascolto in coloro che cominciavano a muoversi per conto proprio per costituire una rappresentanza sindacale dei self employed. E così doveva essere. Se la critica accademica è arrivata a definire sprezzantemente le nostre analisi del lavoro autonomo come «inutilizzabili»[14] a noi non importa gran che, ne prendiamo atto ma l’importante per noi è che le nostre analisi vengano comprese, assimilate e condivise da coloro i quali vivono di lavoro autonomo, da coloro che del lavoro indipendente non salariato fanno dipendere la loro sopravvivenza. Queste persone hanno saputo utilizzare le nostre analisi ed hanno smentito in tal modo la critica accademica. Alla fine degli anni Novanta negli Stati Uniti e agli inizi del nuovo Millennio in Italia si sono costituite delle associazioni di difesa dei lavoratori indipendenti, dei freelance, i quali storicamente sia al di qua che al di là dell’Atlantico sono sempre stati esclusi dal welfare state e dallo stesso diritto del lavoro perché considerati «imprese». Poiché queste figure professionali, esplose con l’avvento dell’informatica, appartengono socialmente alla lower middle class, l’identificazione con il mondo dell’imprenditoria piuttosto che con il mondo dei lavoratori è stata un pesante retaggio della loro cultura borghese. Le organizzazioni sindacali dei lavoratori dipendenti non li hanno mai presi in considerazione, non li hanno considerati come soggetti facenti parte del mondo del lavoro. Solo in epoca assai recente, negli ultimi due anni, in Italia il sindacato Cgil, timoroso di vedersi sfuggire di mano una rappresentanza di questi gruppi sociali che avevano iniziato ad auto organizzarsi, ha cominciato a creare dei gruppi di lavoro dedicati ai professionisti ed ai self employed. Il postoperaismo è riuscito quindi a cogliere questa trasformazione del mondo del lavoro, è riuscito a dare un pensiero collettivo ai self employed, a renderli consapevoli della loro identità di lavoratori, ha dimostrato l’assurdità di considerare una persona come un’impresa (the one-man/one woman business), l’impresa è sempre un’organizzazione complessa di cooperazione tra più persone con diversi ruoli per la creazione di profitto in cambio dell’erogazione di salari. Quali sono le principali rivendicazioni dei self employed? In primo luogo il riconoscimento del loro diritto, come cittadini, a un’assistenza pubblica in caso di malattia, a sussidi di disoccupazione e ad un trattamento fiscale pari a quello dei lavoratori dipendenti[15]. L’attività di pressione che le associazioni di difesa dei diritti dei self employed ha esercitato in Europa negli ultimi cinque anni ha ottenuto qualche risultato, in particolare la dichiarazione del parlamento europeo del gennaio 2014 nella quale si afferma che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti indipendentemente dal lavoro che svolgono[16].

Molto maggiore ampiezza ha assunto invece la sindacalizzazione dei freelance negli Stati Uniti grazie a una donna, Sara Horowitz, che negli ultimi anni del Novecento ha saputo creare la Freelancers Union (Fu), che oggi conta quasi 250 mila iscritti. Grazie al sostegno finanziario di molte Fondazioni private, la Fu ha costituito una Insurance Company che offre ai soci copertura finanziaria e assistenza in caso di malattia[17].

In Italia l’associazione che ha recepito le analisi post operaiste è l’Associazione Consulenti Terziario Avanzato (Acta), fondata a Milano nel 2003, purtroppo ancora molto piccola, circa 2000 soci, ma riconosciuta come sister organization dalla Freelancers Union[18]. Acta è membro anche dell’European Forum of Independent Professionals, di cui detiene la Vicepresidenza[19]. Se nella storia del movimento operaio dei salariati la sindacalizzazione si accompagnava sempre a un’adesione alle idee socialiste, nella sindacalizzazione dei self employed prevale l’apoliticità, ma anche perché non esiste più una forza politica di sinistra a livello europeo. In Italia, per esempio, dove esisteva il più forte Partito Comunista dell’Occidente, non c’è più traccia di un pensiero sociale d’ispirazione marxista, se non in movimenti sociali che non sono rappresentati in Parlamento. Il Partito Democratico, che è in parte l’erede del vecchio Partito Comunista e che nel corso degli anni ha cambiato nome più volte per cercare di cancellare le tracce delle sue origini marxiste, è oggi una formazione politica che sposa interamente le dottrine neoliberali delle lobbies finanziarie. Essere apolitici non significa non avere idee politiche ma non riconoscersi nei partiti rappresentati nel Parlamento.


Conclusioni

Il pensiero operaista ha dimostrato di sapersi rinnovare e di saper interpretare le grandi trasformazioni della società e dei modi di lavorare. Ma le speranze dell’operaismo, i valori morali, civili e sociali per i quali si era battuto sono stati brutalmente combattuti ed emarginati, quasi cancellati, dal pensiero neoliberale dell’epoca postfordista ed in particolare dalle classi dirigenti italiane di origine cattolica, socialista o liberale. La sistematica persecuzione dei militanti di «Potere Operaio», talvolta più ossessiva di quella rivolta contro i militanti della guerriglia urbana, l’emarginazione del pensiero operaista dalla scena culturale ed accademica non sono riusciti tuttavia a impedire che le nuove generazioni riconoscessero in quel pensiero uno strumento utile di liberazione. Le classi dirigenti che hanno combattuto con stupido accanimento l’operaismo sono le stesse che hanno trascinato l’Italia nella condizione miserevole, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista civile, di oggi. Il 40% di disoccupazione giovanile non è forse l’aspetto più grave della miseria delle nuove generazioni, il precariato di milioni di persone, i bassi salari, gli stages gratuiti, oltre all’assenza di tutele, sono altrettanto, se non ancora più gravi. Se finalmente un giorno questa massa di cittadini umiliati troverà la forza di ribellarsi, il pensiero operaista e post-operaista tornerà ad avere un’ampia diffusione e forse avrà ancora lunga vita.





Note [1] Per coloro che hanno partecipato alla nascita del pensiero operaista scriverne la storia non è facile, si rischia sempre d’introdurre delle forzature soggettive; pertanto questo articolo va interpretato come una testimonianza piuttosto che una ricostruzione storica; forse per una deformazione professionale ho cercato altre volte di scrivere la storia dell’operaismo in forma di testimonianza, v. S. Bologna, Workerism: An inside View. From the Mass-Worker to Self-employed Labour, in Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations of the Twenty-First century, ed. by Marcel van den Linden and Karl Heinz Roth, in collaboration with Max Henninger, Brill, Leyden-Boston 2014, p. 121-143; il testo italiano è pubblicato in P.P. Poggio (a cura di), L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Vol. III, Il sistema e i movimenti, Europa 1945-1989, Jaca Book, Milano, 2011, pp. 205-222. L’opera più completa sulla storia dell’operaismo è G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni Rossi» a «Classe Operaia», DeriveApprodi, Roma 2008. [2] R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in «Quaderni Rossi», n. 1, p. 53 sgg, 1961. [3] P.P. Poggio, op. cit. pp. 205-206 [4] Queste analisi sono state pubblicate per la maggior parte sulla rivista «Quaderni del Territorio», fondata da Alberto Magnaghi e durata dal 1975 al 1979. Sono appena usciti in una nuova edizione i quaderni dal carcere che Magnaghi ha scritto tra il 1979 e il 1982, durante la sua detenzione nelle prigioni di Milano e di Roma, A Magnaghi, Un’idea di libertà, DeriveApprodi, Roma, 2014 con una prefazione di Alberto Asor Rosa e una postfazione di Rossana Rossanda. [5] «L’operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita dei “Quaderni Rossi” e finisce con la morte di “Classe Operaia”. Punto». cit. M. Tronti, Introduzione, in G. Trotta, F. Milana, op.cit. p. 5. [6] C. Bermani (a cura di), La rivista Primo Maggio (1973-1989), DeriveApprodi, Roma 2010. [7] V. il suo contributo nel numero 22 di «Primo Maggio», autunno 1984. [8] Non bisogna dimenticare i contributi importanti di Luciano Ferrari-Bravo, che ha partecipato all’attività dei gruppi operaisti sin dalle origini; una parte dei suoi scritti sono stati pubblicati nel volume, L. Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione. Cristalli di tempo politico, Manifestolibri, Castel San Pietro Romano, 2001. [9] Il volume è pubblicato in co-edizione Shake-Feltrinelli nel 1997 a Milano. [10]G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, Futuro anteriore. Dai Quaderni Rossi ai movimenti globali. Ricchezze e limiti dell’operaismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2002. [11] S. Wright, Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist Marxism, Pluto Press, London 2002 traduzione italiana S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma, 2008 [12] DeriveApprodi ha raccontato com’è nato e come si è realizzato questo progetto nell’opuscolo AA.VV, Dalla classe operaia alla creative class. Le trasformazioni di un quartiere di Milano, Fondazione Luigi Micheletti, Derive Approdi, Roma, 2009. [13] Calusca è il nome di un vicolo che sbocca sulla piazza Sant’Eustorgio, nel quartiere Ticinese di Milano, la sua origine deriva dall’espressione dialettale ca’ lusc (case losche, postriboli). La Libreria fu poi spostata qualche centinaio di metri più avanti, in Corso di Porta Ticinese, e successivamente in via Conchetta, sul Naviglio Pavese, dove esiste tuttora dentro un centro sociale. Primo Moroni è morto di cancro nel 1998, un suo profilo è pubblicato in AA.VV., Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto Enciclopedia Treccani, Roma, 2012, Vol.77. [14] Vedi in particolare la recensione di Paolo Barbieri dell’Università di Trento per l’Istituto Cattaneo. Questa critica è stata rivolta in particolare a S. Bologna, Dieci tesi sul lavoro autonomo di seconda generazione, in S. Bologna, A. Fumagalli (a cura di), op. cit., pp. 13-42. [15] Un’analisi del processo di sindacalizzazione dei self employed in D. Banfi, S. Bologna, Vita de freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano, 2011, in particolare l’ultimo capitolo. [16] 2013/2111 (INI) – 14.01.2014 Texte adopté du Parlement Lecture unique [17] www.freelancersunion.org. Il sito è lo strumento più efficace di propaganda e informazione sulle attività delle associazioni dei self employed. [18] www.actainrete.it [19] www.efip.org. Joel Dullroy, un attivista di EFIP che risiede a Berlino, ha lanciato quest’anno (2014) la campagna per un movimento dei freelance: www.freelancersmovement.org.



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Sergio Bologna (Trieste, 1937) ha insegnato in varie Università, in Italia e in Germania. Si è occupato di storia del movimento operaio, ha partecipato alla fondazione di riviste quali «Classe operaia» e «Primo Maggio». Espulso dall’Università, ha scelto di fare il consulente e in questa veste è stato coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale della Logistica (2010-2012) ed esperto del CNEL sui problemi marittimo-portuali. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Ceti medi senza futuro (2007), Maggio ’68 in Francia scritto con Giario Daghini (2008), Banche e crisi (2013), Tempesta perfetta sui mari (2017).



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