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Omnia Sunt Communia



Un nuovo, possibile campo di indagine per Machina; un nuovo percorso, poco tracciato, di confronto. Che punta verso il nodo centrale, mai sciolto, del rapporto religione-rivoluzione. Lungo il cammino sempre tormentato della difformità, della differenza, del rifiuto, della separazione, dell’insorgenza, del conflitto.


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Ortodossia: dal greco ὀρϑοδοξία, in latino orthodoxia, «corretta opinione». In una dottrina cristiana intesa come un insieme di dogmi – cioè di credenze trasformate in decreti immutabili – l’ortodossia è il campo nel cui perimetro va messa in atto e trasformata in forme di vita

la propria esperienza di fede, e sono lecite speranze, aspirazioni, orizzonti d’attesa rivolti verso la trascendenza o l’ultraterreno. Al suo opposto c’è l’Eterodossia, laddove ἕτερος (heteros) significa «altro» o «diverso». Ma poi, subito oltre: l’Eresia. Dal greco αἵρεσις (heresis), «scelta». Un termine che solo per pochi, primi passi evangelici rimane per così dire «neutrale», a indicare semplicemente opinioni e interpretazioni altre, ma non necessariamente alternative, a canoni e principi dottrinali tradizionali. Ma che già dai Corinzi e dai Galati, e poi attraverso Giustino, Tertulliano, Gerolamo, Ireneo, ovviamente Agostino e fino a Tommaso d’Aquino, passa a indentificare una perversione dogmatica che e gerarchie e le istituzioni ufficiali della Chiesa devono combattere e reprimere con tutti i mezzi.


L’Eresia è scandalosa e sovversiva. In un mondo, in un contesto in cui un Cristianesimo autoproclamatosi «ortodosso» regge le fila e detta le regole del «materiale» e dell’«immaginario», di tutti i rapporti tra gli individui, da quelli biologici e antropologici più elementari a quelli più evoluti e complessi di tipo sociale, culturale e politico,

essa sfocia non solo nella rottura dell’unità della ἐκκλησία, della comunità di fede e di pensiero in cui trova origine; ma anche, quasi automaticamente, in una esplicita contrapposizione da subito agli ordinamenti imperiali, ma poi a quelli ecclesiastici e feudali, come ancora alle Signorie, ai Principati o alle Monarchie – a tutte le forme di

potere e le istituzioni di governo.


Essa nasce «naturalmente», ogni volta come prodotto della società del suo tempo. È spesso spontaneo movimento di protesta, suscitato da un diffuso profetismo popolare, sempre animato dalla fede in una età futura, concepita come la «nuova era» nella quale regnerà sovrana la giustizia sociale e tutti i mali della condizione presente, corruzione del clero e della Chiesa in primo luogo, saranno eliminati. Anche quando altrettanto non raramente origina tra i dotti e i chierici degli studia, o in ambienti comunque intellettuali, punta in ogni caso ad andare oltre il momento della pura controversia scolastica e mira al consenso di più larghi strati sociali, se non delle masse. Quella «eretica» è una visione, una concezione della vita proiettata verso una rappresentazione ideale del mondo, in cui egualitarismo e abolizione di ogni privilegio vengano comunque vissuti come restaurazione della «vita apostolica»: dalla facoltà per tutti i credenti di diffondere i testi sacri e il Vangelo in volgare e di predicare «alle genti»; dal diritto di accedere come esperienza e ritualità collettiva ai sacramenti, anche rifiutandone alcuni; dalla messa in comune dei beni e delle risorse materiali, fino alle attese sulla Parusia, il Secondo Avvento del Cristo Messia, e i millenarismi sul Regno e sulla fine dei tempi.


Protesta: o ancora di più ribellione, insorgenza, rivoluzione.

Sorge immediato il ricordo, nel mondo della tarda romanità, dei bagaudi, i ribelli quasi certamente Ariani che insorgono contro i latifondisti e i proprietari terrieri nelle Gallie cattolicizzate dai vescovi costantiniani. O ancora di più, quello dei circumcelliones della Numidia, che nel loro Donatismo si sono proclamati milites Cristi. Ma la storia procede a lunghi passi verso gli Hussiti, gli Orebiti, i Taboriti, e poi i Ribattezzati, gli Hutteriti, tutte le dottrine e le correnti radicali che l’Ortodossia romana, ma anche quella di Wittenberg o di Ginevra, non esita a definire communisticae.


Tutto è in comune, tutto è di tutti. È il motto più eretico e apocalittico che a un certo punto della storia cristiana (…ma non solo di quella!) si possa pronunciare. Anche se in piena ortodossia lo ha già detto Guglielmo di Auxerre, che ha probabilmente riflettuto su un qualche paradigma aristotelico, pur se prudentemente ha posto all’espressione la premessa necessaria di una extrema necessitas. A noi è ben noto e alla nostra coscienza dolorosamente caro che un tale grido di battaglia si sia levato dalla voce, subito troncata, di Müntzer e dalle masse contadine del Bauernkrieg.


Opportuna conoscenza e collaudatissimo metodo di ricerca dovrebbero a questo punto spingere a trarre la prima e più ovvia considerazione: che a simili vicende storiche si approssimino ottimamente le spiegazioni scientificamente deterministiche del rapporto tra «struttura economia» e «sovrastruttura religione». Si può però, se si vuole, cercare di aggirare tale richiesta rievocando e ripercorrendo (anche, ma non solo…) alcuni passaggi del Bloch di Thomas Müntzer, appunto, davvero buoni per l’occasione: quelli che citano i Millenarismi (e dunque l’eresia) come critica della religione dominante, come il «non ancora» della coscienza anticipatrice della religione come trasformazione. E quelli in cui si sostiene che la Guerra dei Contadini (e dunque l’eresia) abbia in qualche misura contenuto «l’estasi del camminare eretti» nella fede del Secondo Avvento verso «il principio metapolitico, anzi metareligioso di ogni rivoluzione: l’inizio della libertà per i figli di Dio». Comunque, Bloch ha anche (lapidariamente) detto: il meglio della religione è che suscita eretici.

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