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Dalle campagne venne al fascismo il grosso dell’esercito



Discutendo il saggio di Davide Vender Piccola borghesia tra socialismo e fascismo (Odradek edizioni, 2021), Sandro Marucci analizza il rapporto tra fascismo e piccola borghesia rurale.

Se l’ascesa del fascismo può essere spiegata – anche ̶ dall’apertura di Mussolini nei confronti del malcontento contadino dopo la guerra, il suo consolidamento passa dal tentativo di costruire una base sociale pacificata supportando gli interessi dei mezzadri e dei piccoli proprietari. In questo progetto grande importanza ebbero i tecnici, a cui venne demandata buona parte della realizzazione di tale programma.

È proprio nell’incapacità di portare questo piano – che quindi portò alla ribellione delle masse rurali ̶ che va ricercata una delle cause della caduta del regime.


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Un passato pieno di incomprensioni

«Il popolo delle scimmie riempie le cronache, non crea storia». Con questo giudizio tranchant Gramsci, il 2 gennaio 1921, riassumeva sulle pagine dell’«Ordine Nuovo» il generale disprezzo dei marxisti per la «piccola borghesia». Non diversamente pensava ancora nel ’24 Amedeo Bordiga, al V congresso dell’Internazionale comunista che, pur riconoscendo al fascismo un’origine non industriale, invitava a squarciare il «velo di maya» dell’apparente autonomia dei ceti medi, per scorgere l’inesorabile dominio della borghesia. E del fascismo come «rigurgito del passato» contro gli interessi della «borghesia sanamente produttiva» scriveva in quegli stessi anni il leader riformista Filippo Turati. Se così si ragionava nella sinistra, considerazioni ben più realiste circolavano invece tra le fila del fascismo nascente. È indubbio che gli effetti della guerra sulla tradizionale quiete del sistema mezzadrile scatenarono nel paese un diffuso malcontento. Inoltre gli eventi collocati fra il ’20 e il ’22 – quelli che sconvolsero gli strati intermedi del mondo rurale – sono veramente molti, forse troppi. Tra questi basterà ricordare i sacrifici sopportati dai fanti-contadini e la loro ansia di riscatto culminata con l’assunzione dei poderi nel 1920. Non a caso, dalle colonne di «Gerarchia» (del 25 maggio 1922), Benito Mussolini, che dell’entusiasmo iniziale dei braccianti per la socializzazione era stato un testimone e dell’avversione del mezzadro, del fittabile, del piccolo proprietario per la spoliazione della terra un incitatore, apriva le porte del suo partito a quei contadini che stavano «conquistando la terra colle loro forze», poiché avrebbero avuto «tutto da sperare» e «nulla da temere» dal fascismo.

Vale, dunque, con particolare attenzione alla crisi del sistema mezzadrile, il monito di Angelo Tasca, per il quale la critica del fascismo «sarà risolutiva solo come autocritica del socialismo» e come soluzione dei problemi che il movimento mussoliniano porta dentro come eredità di quest’ultimo: un avvertimento che va di pari passo con il suo risaputo invito a «comprendere il fascismo scrivendone la storia». Solo nel 1935 del resto Palmiro Togliatti riconosceva di aver ignorato l’«importante problema» delle «masse piccolo-borghesi» e di non aver compreso che gli «ex combattenti, alcuni strati di contadini poveri in via di arricchimento, gli spostati non erano individui isolati, ma una massa, e rappresentavano un fenomeno che aveva degli aspetti di classe». Mussolini, con una impresa spregiudicata, condotta con abilità e impareggiabile intuito politico, se n’era messo alla testa.


Socialisti, proudhoniani, modernizzatori

È attorno a queste schiere di nuovi piccoli proprietari (alle quali corrispondono tre forme di reddito: salari, profitti e rendite) che il saggio di Davide Vender – Piccola borghesia tra socialismo e fascismo, Odradek edizioni –, intende mettere mano, riprendendo e ampliando le sue ricerche universitarie sulla piccola borghesia rurale, e cercando di cogliere, anche con l’ausilio di interessanti materiali d’archivio, il peso esercitato dalla «revisione del marxismo» sulla formazione dell’ideologia fascista.

L’idea di una collaborazione integrale tra le popolazioni rurali non era nuova. Ma fu l’intervento di un protagonista della politica agraria, Arrigo Serpieri, – che faceva parte di quella fitta schiera di tecnici nittiani a cui Mussolini si affidò – a darle concretezza di programma. Fu sicuramente una grande battaglia modernizzante, concepita in un arco relativamente breve, e con l’aperta opposizione dei grandi proprietari fondiari dell’Italia meridionale: quattro anni di studio dei ceti agricoli e di lotta alle sperequazioni tributarie (’20˗24), dieci anni di attività bonificatrice ed espropriatrice (’24˗35). A favorirne la diffusione delle idee un paese in gran prevalenza agricolo «a fondo psicologico individualista».

Negli intenti programmatici, si insisteva sul carattere «socialista» del frazionamento, ben più conveniente della grande proprietà, «contemplare l’iniziativa privata con l’intervento pubblico», sulla volontà di combattere «il ritorno periodico delle crisi economiche, la povertà nelle campagne, ma anche per liberarsi dalla rendita considerata un mero residuo di passati modi di produzione» – e dunque sulla sua natura di «reddito non guadagnato da sopprimere» – nella persuasione che «ci si potesse liberare di essa attraverso l’esproprio o lo spezzettamento della proprietà».

I propositi – tutto lo fa credere – erano ambiziosi, corrispondenti del resto a idee diffuse su ciò che una grande comunità di liberi produttori fuori dalla libera concorrenza capitalistica doveva rappresentare. Non si può negare che l’attività di Serpieri e dei suoi collaboratori cercò di mantenere fede a queste elaborazioni. E l’aspirazione riformatrice, con alcune eccezioni (De Capitani d’Arzago, Mosconi), fu largamente condivisa: la presenza di studiosi di orientamenti notoriamente nittiani o filo-socialisti fu significativa, tra i tecnici e i legislatori, ancora nel corso degli anni ’30, anche quando cioè gli effetti della grande crisi del ’29 minarono la possibilità di estendere la base sociale piccolo borghese del fascismo, coinvolgendo tutte le istituzioni pubbliche dell’agricoltura.

Erano gli anni in cui Mino Maccari, direttore del «Selvaggio» e portavoce del fascismo «strapaesano», tuonava contro la città, presentata come il luogo di tutte le aberrazioni, e reclamava un ritorno «alla terra» che mettesse fine a tutte le corruzioni e al disordine sociale. Maccari non era il solo a pensare così. Anche di questo clima, come dell’imperante e insopportabile retorica «antimoderna e antindustriale» di tanti intellettuali si deve tener conto, per valutare il reale rapporto tra mentalità e forze sociali.

Per questo l’autore si interroga sul significato tutto particolare che assunse in Italia il diffondersi di una «mentalità fascista», sorta in Francia negli anni Dieci, come forma di socialismo non marxista, intorno al Circle Proudhon (e ai suoi Cahiers), secondo il criterio principe di tutte le teorie utopistiche, che in una legge unica della produzione delle merci hanno sempre espresso il desiderio dei piccoli produttori di sfuggire dalla concorrenza capitalistica. La Filosofia della miseria di Proudhon (1846), è un chiaro riflesso di tali intendimenti: basti ricordare le suggestioni dei bazar del lavoro, dove lo scambio diretto dei beni sarebbe avvenuto senza denaro, oltre alle teorie sul «possesso» della proprietà che non produce rendita ma salva il lavoro, che Marx parlando della piccola borghesia («quella contraddizione sociale messa in azione») avrebbe ridicolizzato nel 1847.


Vitalità della nuova classe dirigente: i tecnici

Ma queste considerazioni non sono però sufficienti a dare piena concretezza al giudizio storico sugli obiettivi e le circostanze che contraddistinsero la realizzazione dell’opera e sugli orientamenti culturali che vi si intrecciarono. Il disegno originario di Serpieri nasceva infatti in un ben determinato contesto e rispondeva a precise finalità politiche. Nel corso del 1925, all’indomani del delitto Matteotti, stava prendendo corpo quel processo di formazione del regime che doveva portare alla costruzione dello Stato totalitario e alla stabilizzazione sociale. Ma è d’altra parte in tale contesto che si moltiplicano le aperture di Mussolini verso i tecnici, per raccogliere e consolidare l’ascesa di una nuova classe dirigente, così come l’adesione di un uomo come Serpieri si indirizza al PNF, nell’intento di trovare nella nuova realtà economica una base sociale pacificata, attraverso gli interessi dei mezzadri e dei piccoli proprietari, e in termini che ne potessero raccogliere gli ideali politici.

Secondo le formule elaborate da Serpieri la piccola borghesia che aveva realizzato la «rivoluzione» contro la «plutocrazia demagogica» doveva difenderla con la forza. Da questo punto di vista, dunque, la bonifica doveva diventare lo strumento attraverso cui il fascismo non solo attuava grandi opere pubbliche, ma metteva in atto rivolgimenti profondi nella proprietà riappropriandosi delle fonti di produzione. L’approccio politico con cui le singole riforme andavano affrontate, soprattutto per quanto riguardava la grande proprietà terriera, doveva assicurare il recupero allo Stato della rendita differenziale, quella forma di extraprofitto derivata dalla coltivazione dei terreni marginali sottoposti a bonifica. Su tali criteri insistette Serpieri nel Corso di economia e politica agraria, e tali criteri furono più volte ribaditi. Non vi era, difatto, una comprensione in senso capitalistico della rendita: queste idee sul primato dell’azienda contadina a base familiare e i caratteri e i guasti delle crisi periodiche, con la considerazione del trauma dell’industrializzazione e l’idea di una «conduzione patriarcale» con abitudini d’ordine e di risparmio che vi erano impliciti, erano proprie del pensiero sismondiano e del romanticismo agrario formatosi in Europa tra Otto e Novecento a sua volta variamente influenzato dall’opera teorica di Proudhon che, come Serpieri, promuoveva una rete di aziende domestiche ad alta intensità di lavoro.

Sono aspetti che vanno tenuti presenti nel valutare il significato di molti progetti di politica agraria, e più generalmente di modernizzazione produttiva del paese: nel senso che un tale impianto concettuale, che sarebbe scorretto definire «fascista» o specificatamente condizionato dal fascismo, spiega bene quella sorta di contraddizione più o meno palese in cui il regime si trovò ad operare che, se aveva nella piccola proprietà la sua base d’appoggio in funzione anticiclica, poteva anche trovare nei tecnici quelle idee per accompagnare le spinte di progresso tecnico e industriale. Nell’affrontare il problema della piccola borghesia, in particolare quella rurale, nel ventennio fascista, non ci si può limitare a prendere in esame le sue espressioni psicologiche e morali, o se, al contrario, seppe opporsi alla modernità attivando certi valori; perché bisognerà anche chiedersi in che misura la struttura produttiva e i valori cui essa si richiamava non presentassero caratteri e orientamenti in grado di stabilire consonanze e convergenze sul «lungo periodo» con la storia nazionale.

Ma un altro aspetto delle contraddizioni insite nella politica agraria del regime va ricordato. Si tratta delle scarse disponibilità finanziarie per portare avanti non solo l’attività bonificatrice ed espropriatrice ma anche le diverse spese connesse in vario modo con il credito agrario e il reinvestimento nelle campagne. Su tali questioni Vender offre elementi di grande interesse: ne risulta una pagina significativa delle normative e degli orientamenti volti a sostenere le trasformazioni fondiarie che, in risposta ad una elevatissima fragilità strutturale, fin dalla metà degli anni Venti andavano maturando in ambito tecnocratico, come del clima che, all’indomani del decreto sugli obblighi dei proprietari dei fondi del 1933, caratterizzò i rapporti tra latifondisti inottemperanti e consorzi. Quei rapporti, che in termini generali possono essere definiti di scontro e recriminazione, si rifletterono infatti anche sulla carriera del Serpieri.


Blocco agrario o piccola proprietà coltivatrice?

L’orientamento «socialista» che fin dall’inizio fu dato alle politiche di esproprio non poteva non impensierire il «blocco agrario». Serpieri, già nel presentare i consorzi, aveva espresso la necessità che la loro costituzione fosse indipendente da particolari consensi dei proprietari. Era un progetto di razionalizzazione che, per le scarse capacità contributive dei terreni consorziati, non poteva che sostenersi con l’aiuto finanziario dello Stato. L’affidamento della preparazione dell’inchiesta sulla piccola proprietà coltivatrice a diversi e numerosi delegati tecnici, primo fra tutti Giovanni Lorenzoni (figura eminente di tecnico agrario e fedele discepolo di Serpieri e del suo insegnamento metodologico) corrisponde infatti alla volontà del regime di stabilire un rapporto con importanti strati di borghesia «tecnica», accogliendo i loro progetti «riformatori» elaborati in età giolittiana nell’alveo del corporativismo.

I progetti di modernizzazione integrale si scontrarono dunque con un sistema produttivo fermo ancora alle regalie, conseguente all’idea che la rendita era in realtà il reddito dei proprietari terrieri, cioè un mezzo di produzione irriproducibile. Da ciò tensioni, contrasti, tentativi continui intorno a una serie di norme che toccavano le forme di finanziamento per assicurare l’integralità della bonifica e mantenere un collegamento stabile della forza-lavoro alla terra. La Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, cui fu affidato il compito di finanziare le opere di bonifica, si proponeva di coordinare non tanto l’attività «amministrativa» per cui era nata, ma quella «finanziaria», per determinare tassi di interesse o prestiti alla stregua di un istituto bancario a cui i consorzi si rivolgevano per ottenere condizioni più favorevoli. Ma in tal modo si instaurava un sistema in cui era improponibile la distinzione tra riserva previdenziale e forme di finanziamento. Né, del resto, gli orientamenti dello stato mutarono quando la cassa fu trasformata nell’Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale (Infps), un organismo che intervenne non solo per finanziare «le opere di bonifica interna, ma anche i lavori di valorizzazione agricola in Tripolitania». Al di là del fatto che tra tutti gli organismi rappresentò meglio di altri «il principio fascista della collaborazione fra le classi» resta comunque efficace modello di finanziamento industriale e sostegno ai gruppi economici in crisi che non mancò di riproporsi nel dopoguerra.



Dalla bonifica integrale alla crisi di regime

La questione della bonifica e, nel suo ambito, dell’atteggiamento rispetto alla popolazione agricola dei tecnici rurali che vi collaborarono, è questione complessa, che d'altra parte rinvia a quella più ampia di modernizzazione integrale durante il fascismo. Essa, come è noto, ha suscitato e suscita di volta in volta giudizi contrastanti. Il tentativo di Vender è quello di illustrare le politiche agricole (in un paese contrassegnato dall’irrilevanza della borghesia produttiva) che producono rilevanti innalzamenti della forza produttiva della forza-lavoro. Per l’autore, il problema storicamente rilevante sta nella capacità del regime di governare la frammentazione strutturale del paesaggio agrario, che di fatto impone quel dualismo della sua politica economica a larghe masse di forza lavoro, incrementandone l’intensità del lavoro, l’autoconsumo e l’autosfruttamento soprattutto nelle aree più arretrate e agevolandone la produzione per il mercato, con la meccanizzazione e la motorizzazione dell’agricoltura nelle zone più avanzate.

Contadini atomizzati, si dirà, ma non per questo meno rilevanti nel difendere la stabilità del tessuto sociale dove operavano fitti intrecci tra terra e famiglia. È in fondo la forma del colono che sostituisce quella del bracciante e contemporaneamente quella della famiglia che assorbe l’individuo ad essere messo al lavoro. Ne sono protagonisti figure diverse, contadini stabili, piccole aziende nelle varie accezioni, i vari componenti della famiglia colonica (dal lavoro domestico femminile ai minorenni). Il loro sistema di relazioni, prevalentemente parentale, la loro caratteristica di attivatori di reti fondate sull’autoconsumo e l’inclinazione al risparmio individuano le trame identitarie di una popolazione rurale sobria e frugale, imperniata sulla semplicità dei costumi. Credo non si possa comprendere l’adesione o l’accettazione del fascismo da parte delle classi rurali senza tener conto del prevalere nel comune sentire di idee e sentimenti che trovavano nel «catonismo», e nei caratteri di sdegnato rifiuto dei valori mercantili che vi erano impliciti, la loro espressione più piena ed efficace.

Nella realtà contadina si riflettevano certamente gli umori generali. Del resto il censimento del 1936 segnava intorno al 47% il grado di ruralità del paese. Ma la campagna era anche lo specchio delle difficoltà del regime, della precarietà del suo potere. La coincidenza un po’ sorprendente fra gli «anni del consenso» e la crisi economica non deve però trarre in inganno. Mussolini, mentre annunciava nel ’25 la battaglia del grano, in un memorabile discorso alla Camera dove auspicava l’autosufficienza produttiva (che avrebbe avuto pesanti ripercussioni sui consumi della piccola borghesia contadina nel decennio successivo), contrappose negli anni successivi la bonificazione, per aumentare le parcellizzazioni e salvaguardare il blocco sociale piccolo borghese, introducendo così tecnologia e capitale finanziario soprattutto nell’Italia settentrionale.

Questa politica, in realtà, non resse gli urti della guerra. Saranno a questo punto le spese militari con il conseguente aggravamento del bilancio dello Stato che, tra l’inverno del ’40 e il principio del ’41, portarono a un rovesciamento degli equilibri nelle campagne. La ribellione delle masse rurali, infatti, assunse la forma di una rivolta fiscale, delegittimando dall’interno il regime con delle forme di vero e proprio boicottaggio, attraverso soprattutto la sottrazione dei raccolti agli ammassi; quella «nuova politica» che la piccola borghesia aveva interpretato per quasi un ventennio franava ora sotto i colpi della tragedia militare, e con essa il fascismo e il suo discorso politico diventavano ormai materia dei libri di storia.



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Alessandro Marucci insegna Letteratura italiana presso la Rome International School. È coautore di saggi sulla storia del socialismo, tra cui Il crollo (Marsilio, 2013) e Decisione e processo politico (Marsilio, 2014). Per i tipi di Palombi ha recentemente pubblicato Roma 1944-1960. Rinascita di una città (2021)



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