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Note sull’Argentina: dal neoliberalismo all’ultraliberalismo?


Argentina neoliberismo

Il Sud America ancora una volta laboratorio politico-economico del dopo neoliberalismo? È questa la domanda che si pone Maurizio Lazzarato a partire dall’affermazione nelle primarie delle presidenziali argentine di Javier Milei, con un programma incentrato sulla privatizzazione della creazione monetaria e quindi sull’esautoramento delle funzioni della banca centrale dell’Argentina.

La fine del neoliberalismo, ci dice l’autore, porta a centralizzazioni politiche, militari, economiche di vario tipo che sembrano condurci dritti verso la guerra.


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Cosa sta succedendo in Argentina? Lì il neoliberalismo ha fallito, come nel resto del mondo. È entrato in crisi definitiva con il disastro finanziario del 2008 che ha avuto il merito di far capire, finalmente, che capitalismo e neoliberalismo non sono la stessa cosa. Il primo si sta sbarazzando del secondo come il capitalismo dell’inizio del XX secolo si è sbarazzato del liberalismo classico, favorendo il sorgere del fascismo e del nazismo. Ora ci troviamo in una situazione simile: il neoliberalismo non soltanto ha fallito ma, come il liberalismo classico, con le sue acclamate «libertà», con la sua pretesa capacità di sostituire il «dolce commercio» allo scontro armato, ci ha portato alla guerra e ci sta facendo precipitare nella guerra civile.

La fine del neoliberalismo ha aperto una fase di grande instabilità dove le alternative che si presentano davanti a noi, nuovi fascismi, populismi autoritari, democrazie oligarchiche, sono una più pericolosa dell’altra. L’ultraliberalismo di Milei, arrivato in testa alle primarie a cui partecipano tutti i candidati alle presidenziali (dove ha preso più del 30% dei voti), è una di questa. Il Sud America ancora una volta laboratorio politico-economico del dopo neoliberalismo, al seguito del fallimento dell’esperimento Bolsonaro? Come agli inizi degli anni ’70, ancora una volta gli americani stanno cercando una nuova gestione della guerra civile, che serpeggia già in diversi paesi del continente, adeguata alla congiuntura della guerra tra imperialismi?

Ecco, in sintesi, il vero programma economico politico dell’ultraliberale Milei, se non ci si fa ingannare dall’ideologia del mercato, della libertà, della concorrenza: operare una centralizzazione dell’economia e del potere attraverso la moneta, la cui gestione non è più demandata allo Stato argentino, ma all’oligarchia delle famiglie più ricche e alla Federal Reserve degli USA. Le travolgenti novità del capitalismo cognitivo, biopolitico, informatico, delle piattaforme, le fantasmagoriche innovazioni dell’Intelligenza Artificiale e via discorrendo, stanno producendo guerra e potere oligarchico, due concetti che erano stati decretati morti e sepolti.

Il programma di Milei è l’esatto contrario di ciò che egli sventola: privatizzare la creazione monetaria, eliminando il controllo che lo Stato argentino esercita sui suoi flussi, liberebbe finalmente le forze economiche e il loro sviluppo. In un’intervista afferma:«la gente sceglierà volontariamente tra le monete disponibili», e, grazie alla «libera concorrenza tra di esse», sceglierà la «moneta migliore» che non sarà sicuramente il pesos («nessuno vuole pesos in Argentina» ha dichiarato), ma il dollaro che, effettivamente è la sola cosa «stabile» nell’economia argentina. Si tratterebbe di portare fino in fondo la dollarizzazione dell’economia rendendo le banche libere di creare moneta come loro aggrada, senza dover rendere conto a nessuno se non al funzionamento impersonale del mercato — in realtà all’oligarchia argentina che è la sola a detenere ricchezze in dollari.

La soluzione dei problemi economici dell’Argentina sarebbe dunque il «free banking»: l’affermazione di una moneta più efficiente, più stabile, più sicura sarebbe il prodotto della totale liberalizzazione della creazione della moneta stessa.

In Argentina, l’origine di tutti i mali sta nella centralizzazione della creazione monetaria. Per questo motivo l’odio verso le banche centrali trova un consenso sicuro presso la popolazione che vede sfumare i risparmi e ridotto il potere d’acquisto a una grande velocità. Milei dichiara: «Esistono diversi tipi di banche centrali, le cattive, come la Fed e le pessime come quelle dell’America Latina…». Il suo programma prevede che la Banca Centrale Argentina (definita «la peggior schifezza mai esistita sulla terra») sarà chiusa se sarà eletto.

La privatizzazione della creazione monetaria è la condizione per portare fino in fondo il processo di privatizzazione del sistema sanitario e dell’educazione e per ridurre le spese dello Stato del 13%. «Ciò che domanda il FMI è minuscolo rispetto al piano di austerità che propongo» proclama ancora Milei al Financial Times.

Come per la teoria economica ortodossa, anche in questo ultraliberalismo i rapporti economici esistono indipendentemente dalla moneta: la moneta non viene considerata come conditio sine qua non per avviare il ciclo economico ma come semplice strumento contabile che serve semplicemente a favorire gli scambi senza però influenzarne le condizioni in cui si danno. Per gli economisti della scuola di Chicago, ad esempio, la moneta è un velo che copre la realtà economica. È chiaro gli obiettivi che essi hanno: spoliticizzare la funzione della moneta. È, infatti, l’accesso alla moneta di investimento a decidere chi è capitalista e chi è proletario.

In altri termini, la teoria economia ortodossa ignora la vera natura della moneta, politica prima che economica perché dipende da un centro di potere. La moneta, infatti, è una delle espressioni più importanti del potere sovrano: battere moneta è, storicamente, un privilegio dei re che lo Stato moderno delega alle banche private sotto certe condizioni.


Vediamo molto rapidamente come funziona la moneta nel capitalismo odierno:


- Il «free banking» esiste da cinquant’anni. La liberalizzazione della creazione della moneta è ciò che la controrivoluzione ha messo in atto dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del 1971. «Un dollaro è un dollaro» dicevano gli americani. Che aggiungevano, rivolti al mondo intero: «il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema».


- La privatizzazione della creazione monetaria, la sua liberalizzazione, il «free banking», hanno creato, dopo una lunga serie di rotture parziali del sistema monetario e finanziario, la più grande crisi sistemica della storia del capitalismo, la crisi dei mutui subprime.


- Il capitalismo nel 2008 è stato salvato solo dall’intervento delle banche centrali. Esso sarebbe crollato almeno una trentina di volte dal 1971 senza l’intervento dello Stato. Le banche centrali, a loro volta, hanno scaricato i costi dei salvataggi dei debiti privati sulle fasce più deboli della popolazione.


- Il dollaro, che secondo l’idea di Milei dovrebbe diventare la moneta argentina, non funziona nella maniera più assoluta secondo la logica del mercato che il neo-candidato alla Presidenza propone, ma in modo esattamente contrario: è, infatti, strettamente controllato dal governo americano che con la Fed ha prodotto la più grande centralizzazione del potere sulla moneta mai registrata nella storia dell’umanità. In altri termini la moneta invece di dipendere dalle decisioni dello Stato argentino, dipenderebbe, invece, da quelle degli Stati Uniti. Si passerebbe cioè da una centralizzazione nazionale a un’altra, imperiale, favorevole solo all’oligarchia argentina.


Il progetto degli ultraliberali è togliere allo Stato ogni possibilità di battere moneta, privatizzandone fino in fondo la creazione. Già oggi il 90% della creazione monetaria è opera delle banche private. I crediti che le banche concedono non sono fondati sui depositi detenuti, sul risparmio: è vero il contrario, sono infatti i crediti che creano i depositi. Se domandate un credito per comprare una casa, i soldi che saranno accreditati sul conto non esistevano prima della firma del contratto. La banca crea denaro dal nulla (ex-nihilo).

Questo straordinario potere economico e politico è già stato trasferito dallo Stato ai privati ed è la madre di tutte le privatizzazioni.

Sempre seguendo la logica della privatizzazione, la controrivoluzione ha imposto la separazione tra Tesoro e Stato. Quest’ultimo non può più stampare moneta tramite il Tesoro – per assicurare le spese militari, sociali, per l’educazione, per il sistema sanitario, per le infrastrutture ecc. – ma deve finanziarsi sui mercati privati. Mentre prima lo Stato si procurava i capitali praticamente a tasso zero presso il Tesoro, ora deve pagare tassi di interesse a chi detiene capitali, facendo così esplodere il debito pubblico che diventa una vera e propria mucca da mungere per i privati. Il debito pubblico della Francia è oggi il 112% del suo Pil. Se non ci fosse stata questa separazione tra lo Stato e il Tesoro, il debito pubblico non supererebbe il 40%. La differenza è stata tutta inghiottita dall’ «efficienza» dei mercati che operano un vero e proprio prelievo, un meccanismo di sottrazione, un diritto di appropriarsi di una parte delle ricchezze, un’estorsione del prodotto, dei beni e dei servizi, del lavoro della società, esattamente come faceva l’aristocrazia nell’ancien régime: un altro fondamentale arcaismo nel più tecnologico dei capitalismi.

La privatizzazione della moneta è fondata su un altro principio: l’indipendenza della Banca Centrale dal potere statale. Il fondamentalismo suicida dell’ordoliberalismo tedesco è arrivato a imporre altre regole per togliere potere discrezionale allo Stato, le celebri «3 regole d’oro» che ogni paese dovrebbe iscrivere nella propria costituzione come ha fatto la Germania: stabilità monetaria, pareggio di bilancio, concorrenza libera e non falsata.

Attenzione: questi principi valgono per tutti i paesi, ma non per gli Stati Uniti che hanno costruito una nuova forma di imperialismo a partire proprio dal dollaro.

Lo Stato americano mantiene un controllo centralizzato e assoluto sul dollaro e non si è mai sognato di rendere la Fed un organismo indipendente dalle sue decisioni.

Se le tre regole d’oro, iscritte nella costituzione del servile Stato italiano nonché dell’Unione Europea esangue, fossero applicate agli Stati Uniti, determinerebbero un immediato collasso economico e politico poichè la Fed, per catturare e controllare la ricchezza di tutto il pianeta, gioca continuamente sugli squilibri, alzando e abbassando i tassi di interesse a suo piacimento. Tutto il dominio del dollaro è infatti costruito su un deficit della bilancia commerciale che deve essere permanente, perché nessuna concorrenza «libera e non falsata» al sistema finanziario e monetario americano può essere accettata.

Raggiungere la stabilità monetaria, iscrivere l’obbligo del pareggio di bilancio nella costituzione, è una regola per i vassalli. Il potere Usa si fonda sullo squilibrio, anzi sugli squilibri di cui la guerra è allo stesso tempo continuazione e compimento, quando questi squilibri non si possono più determinare solo con l’economia.

La «strategia del dollaro» ha favorito il trasferimento della creazione monetaria verso i privati, ma la leva monetaria è mantenuto strettamente nelle sue mani. Se il paese egemone dell’occidentale – che tramite il dollaro cattura e controlla la ricchezza mondiale – adottasse il progetto di Milei, il capitalismo crollerebbe nel giro di pochissimo tempo.



«I fallimenti del mercato, non esistono » (Milei).

In realtà i fallimenti sono stati talmente tanto frequenti da quando si è installata la contro rivoluzione finanziaria che il capitalismo è continuamente sull’orlo del baratro, ogni volta salvato non da se stesso, non dal mercato, non dalla banche che producono 90% della massa monetaria, ma da ciò che Milei vuole eliminare: lo Stato.

La privatizzazione della creazione della moneta è stata giustificata dalla superiore razionalità economica delle banche private rispetto allo Stato, le cui azioni sarebbero invece dettate da interessi politici. La storia del capitalismo dimostra invece che le sue crisi hanno sempre origine, almeno dall’inizio del XX secolo, nell’irrazionalità senza limiti delle banche private, spinte da una sete di profitti che le ha sistematicamente portate all’autodistruzione.

La più grande crisi finanziaria della storia (quella del 2007-2008) è opera delle banche private, delle loro spregiudicate operazioni che non hanno rispettato alcun principio economico se non quello dell’accumulazione ad ogni costo: hanno prestato soldi (coprendo, in alcuni casi, il 100% del valore di mercato) per l’acquisto di case a persone o famiglie statunitensi che non erano in gradi di rimborsare i debiti contratti, sbarazzandosene al momento opportuno trasformandoli in titoli vendibili sul mercato. Le banche di tutto il mondo, soprattutto europee, si sono riempite di titoli che garantivano forti rendimenti proprio perché a forte rischio.

L’idea geniale delle banche private era questa: spalmando il rischio su una molteplicità di attori economici, lo si sarebbe ridotto a qualcosa di insignificante. Quando il ciclo immobiliare si è invertito e il valore delle case ha cominciato a scendere, la crisi, partita dal debito privato delle banche, si è diffusa alla velocità della luce proprio grazie alla molteplicità dei detentori di titoli/debiti che oramai non valevano più niente. Il capitalismo americano, all’origine del credo «neoliberale » del mercato, della privatizzazione della moneta, dell’efficacia e della stabilità economica, ha prodotto invece, dopo il 2008, la situazione che ha aperto le porte alla guerra.

Il capitalismo è stato salvato dall’intervento delle banche centrali, gli unici soggetti che dispongono di una moneta sovrana che può finanziare le banche e evitare fallimenti a catena quando la moneta «privata» crolla,. Le banche private possono creare moneta, ma non per salvarsi dai disastri che regolarmente producono, non possono cioè ricapitalizzarsi, non possono battere moneta per evitare il loro fallimento. Miliardi e miliardi di dollari sono stati immessi sul mercato dagli Stati: i debiti privati sono stati stati trasformati in debiti pubblici, pagati dal «contribuente». La crisi dei subprime è stata l’occasione di un enorme trasferimento di ricchezza (espropriazione) dalla società e dalle sue componenti più deboli ai privati, tramite l’azione delle Stato. I flussi monetari e finanziari privati superano di gran lunga quelli che lo Stato può controllare, ma solo quest’ultimo ha la capacità di funzionare come il creditore in ultima istanza, capace di arrestare il panico che assale i privati in tempo di crisi. La creazione monetaria privata non può niente contro una crisi scatenata da se stessa, deve affidarsi allo Stato. Il capitalismo non può esistere senza la sovranità (monetaria, politica, militare) dello Stato. Costituiscono una macchina Stato-Capitale in cui l’uno non può fare a meno dell’altro.

Il dollaro è un buon esempio di come il mercato non sia l’istituzione principale che la fa funzionare: l’azione dello Stato e del Pentagono è fondamentale. Le 800 basi militari americane disseminate in tutto il pianeta sono determinanti nel fissare l’efficacia e la stabilità del dollaro e non sono sicuramente rette dalla logica del mercato e della libera concorrenza. Le decisioni sul dollaro sono certamente prese in collaborazione con Wall Street e con i monopoli e gli oligopoli capitalistici, ma l’ultima parola spetta alla coppia Stato/Pentagono. Questa realtà del comando sulla moneta e sull’economia emerge chiaramente in periodi di guerra come quelli che stiamo vivendo.


Verso quale tipo di scontro?

Non si può prevedere se questo programma ultraliberale porterà Milei alla presidenza della Repubblica Argentina. Dal punto di vista strettamente capitalista il suo progetto è un delirio perché porterebbe ad un’implosione devastante. La moneta che gli argentini dovrebbero adottare, il dollaro, funziona secondi principi sovrani e imperiali e non sicuramente secondo la logica del mercato. Ciò che si può affermare con certezza, invece, è che il programma ultraliberale porterà l’Argentina a perdere la sua sovranità perché dipendente dalle scelte e dalle decisioni di un altro paese sovrano. L’Argentina diventerebbe di fatto una colonia degli USA quando il suo maggior partner commerciale è la Cina (sic!). Non sono in grado di sapere se questo progetto sia di gradimento alle oligarchie del paese sudamericano.

Dal punto di vista politico, però, emergono due cose: la fine del neoliberalismo spinge a centralizzazioni di ogni tipo – economiche, politiche, militari – che possono assumere diverse forme – neofascista, reazionaria, populista o oligarchica – ma tutte sembrano condurci verso una guerra che già oggi comanda sia la politica che l’economia. Queste concentrazioni del potere non possono funzionare senza i dispositivi reazionari proposti da Milei: abolizione del diritto all’aborto, mercato degli organi, machismo e sessismo, ecc. Ancora degli «arcaismi » sempre più attuali che convivono con la più sfrenata innovazione.

Ma l’emergere di questo «libertario» che nega la libertà di tutti i non proprietari, ci indica anche un’altra opzione strategica: la guerra civile. Il suo programma non potrà che condurre a uno scontro sempre più radicale perché renderà ancora più poveri i poveri e ridurrà in miseria definitiva anche il ceto medio.

La tendenza alla guerra civile è mondiale perché la crisi aperta dal 2008 non è mai finita ed è stata ancora approfondita dalla guerra (la Germania, ad esempio, è già in recessione e ben presto lo sarà anche il resto dell’Europa). Del resto la guerra tra imperialismi in corso sul pianeta è sempre, per definizione, anche una guerra civile.

La guerra civile contemporanea, differentemente dal XX secolo, è combattuta da una sola parte, ovvero dalla della macchina Stato-Capitale. La completa mancanza di nemico (non c’è nessuna forza o movimento politico che minacci la sua esistenza) permette al potere di modulare le sue modalità di azione, di continuare la guerra civile con altri mezzi più o meno violenti, più o meno democratici, mantenendola sotto il livello di dispiegamento aperto. Il governo della «guerra civile» riesce a ottenere tutti i suoi obiettivi di sfruttamento e di dominio senza portare lo scontro all’ostilità estrema, continuando, malgrado l’assenza di un vero nemico di classe, a creare polarizzazioni radicali trascinato dalla sete infinita di potere e di dominio dei capitalisti e dello Stato.

Non credo che si possa opporre un discorso razionale al programma «irrazionale» di Milei. La sola cosa che si può opporre ad esso è un programma di rottura rivoluzionaria. E qui sta il problema: le forze politiche che si oppongono a Milei e quello che resta dei movimenti, anche se radicati come in America Latina, non sembrano essere in fase con quello che sta succedendo nel mondo.

Il pensiero critico, che rimuovendo il concetto di guerra dal suo armamentario non è stato capace di cogliere il suo ritorno, coglie neanche il continuo svilupparsi delle condizioni che conducono a una sempre più probabile guerra civile mondiale. La sua possibilità non viene minimamente in considerazione.

I movimenti – o meglio, ciò che resta – sono ripiegati sulle loro proprie problematiche e non sembrano essere preoccupati dalla situazione che, da anni, si sta radicalizzando. Leggono la realtà a partire dalle specificità delle relazioni di dominio e di sfruttamento in cui sono presi, che è sicuramente un punto di partenza necessario e efficace. Ma in questo modo, fermandosi a questo livello, non si riesce ad elevare l’analisi né l’azione al livello dello scontro che la guerra e la guerra civile impongono: non si tratta solo di confrontarsi con i dispositivi di dominio e sfruttamento economici, razzisti, sessisti, ma con un potere che li comprende e li supera in una gestione più generale che si sviluppa a livello planetario. La crisi del marxismo ci ha fatto perdere la capacità di leggere la congiuntura (i rapporti tra forze politiche ed economiche e l’intensità del loro scontro). Le teorie critiche e dei nuovi movimenti considerano queste analisi come «astratte» non «situate», un «macro» che non coinvolge i soggetti sociali in prima persona. Alla vecchia strategia dei «rapporti di forza» generali che si delineano sul mercato mondiale, si privilegia la novità del «rapporto a sè», opponendo il secondo ai primi, quando andrebbero strategicamente tenuti assieme.

In queste condizioni, la possibilità di trasformare la guerra civile mondiale in rottura, come era avvenuto nel corso del XX secolo, è praticamente inesistente. Il «riformismo» è possibile solo dopo l’atto rivoluzionario , dopo la rottura politica. Prima è un’illusione!

Eppure come diceva il filosofo, la trasformazione diventa attuale quando «l’impossibilità di cambiare diventa impossibilità di vivere». Situazione dentro la quale siamo già immersi. Trasformarla in azione politica sembra l’impossibile compito attuale.


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Maurizio Lazzarato sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: La fabbrica dell’uomo indebitato (2012), Il governo dell’uomo indebitato (2013), Guerra o rivoluzione (2022) e Guerra o moneta (2023) pubblicati da DeriveApprodi.


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