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Note su «Un'idea di libertà» (II)


Disegno di Alberto Magnaghi
Disegno di Alberto Magnaghi

Pubblichiamo la seconda parte di una nota di Rossana Rossanda al libro di Alberto Magnaghi Un’idea di libertà. San Vittore ’79 – Rebibbia ’82 pubblicato la prima volta nel 1985 da manifestolibri e poi ripubblicato da DeriveApprodi nel 2014. Qui la prima parte. * * *

La terza parte del diario di questo parla, come traducendo le motivazioni di documenti già noti, pratiche e raggruppamenti che hanno segnato in questi anni le galere, e non solo politiche. È la più inquieta e ambigua, dove il linguaggio trascorre dall’analisi al racconto, dal racconto a una forma libera e in sé compiuta – così come la seconda parte era la più impervia, ma lineare nei modi e negli illimpidimenti d’una ricerca sicura di sé. Il nocciolo e l’approdo del diario nelle ultime pagine sono infatti il «come rompere la barriera», come impedire che l’istituzione ti pieghi al suo proprio modello nella rassegnazione o nella rivolta. Maturità e immaturità della domanda sono cosa di oggi, radicata nella diversità della popolazione carceraria fino a poco tempo fa caratterizzata dalla singolarità del deviante o «criminale» o dalla sua estrema marginalità, per cui il positivismo ha potuto persino scambiarlo con una sottoproduzione genetica. Né i lumpen né la classica «affaire» di soldi o passione sono più oggi i protagonisti dei recinti di reclusione, ma fasce, strati di età e popolazione, fortemente acculturati rispetto al passato, legati da e per modelli, traenti dunque una duplice identità, da se stessi e dalla condizione trascorsa e presente. Per questo il carcere li teme, si fa fortezza, si blinda, li disaggrega, induce sornionamente in questa società in fieri princìpi di divisione e autodistruzione – dal suicidio all’assassinio. Per questo si spende tanto oggi per recludere, e alla reclusione sovrastano due corpi dello Stato, l’amministrazione e l’esercito: esso è la zona infetta e infettiva d’una società che lo secerne. In quanto fasce diversamente acculturate – dalla scuola o dalle leggi non scritte del quartiere e della borgata o dal modello della droga con la sua forte, non debole, ideologia, quando non dalle società parallele e anticamente strutturate e in veloce modernizzazione della mafia e della camorra, e infine negli anni Settanta da un’esperienza politica acuta e antagonista – anche il costruirsi dell’io carcerato come soggetto autonomo avviene in forme diverse. La griglia attraverso la quale il diario legge questa strutturazione della soggettività è la dipendenza o indipendenza dal principio della continuità col prima e col dopo. E lo si intende, l’esperienza di Magnaghi essendo, a livello politico, soluzione di continuità con le forme parallele dell’antico far politica e dei meccanismi, repressivi o non, dello Stato, e a livello personale soluzione di continuità con quel che forse era stato pensato come unità fra persona e fare sociale, come condizione di accesso a una riacquisizione dell’io autentico. Le due rotture non sono esattamente coincidenti, non portano allo stesso ricomporsi dell’identità e non in tutti, tanto meno in tutte le fasce di popolazione carcerata, si presentano come necessità.

Non avviene così per parte dei detenuti comuni, forse la più tradizionale sotto il profilo della devianza, che vive la galera come interruzione parentetica in una vita che dovrebbe riprendere al punto in cui è stata interrotta, dopo tutto un guerreggiare di carte bollate con la barriera e affini (il sistema giudiziario, l’avvocato, il processo, i giornali). Non è così per l’affiliato alla mafia o alla n’drangheta o alla camorra, nella cui carriera il carcere è previsto e usato come luogo di iniziazione, prova sottoposta a regole ferree e vigilata da ferrei sguardi, che non sono quelli del personale di custodia; luogo dunque di acquisto e non di perdita di identità, di acquisto e non di perdita di prestigio, di acquisto e non di perdita di cultura. Costoro non si propongono l’abolizione della barriera; il carcere è dato, quindi lo si fa «servire», non riesce a essere struttura di separazione, annientamento, punizione; tant’è vero che ultimamente il tentativo di disgregazione del «crimine organizzato» avviene attraverso la lusinga dello Stato, più che attraverso la minaccia: è il negoziato del «pentimento». Mentre i politici struttureranno in parte la cultura dei normali comuni (specie nella fascia giovane marginalizzata e contigua o penetrata dalla tossicodipendenza) nulla di simile avverrà con mafiosi o camorristi: essi sono i più forti, la continuità fra dentro e fuori è assicurata da loro canali, e se contatto avviene saranno loro a modellare gli altri. I politici infine, la novità del decennio, forse un detenuto su dieci alla fine degli anni Settanta ma proporzionalmente di più agli inizi; e portatori di pesi suppletivi che incidono sulla struttura penitenziaria, dalle leggi speciali all’uso speciale dell’articolo 90 (solo recentemente soppresso) alla ristrutturazione fisica, edilizia del carcere speciale, salto in avanti nella tecnologia della reclusione e nell’automatizzazione dei tempi, spazi, rapporti, la costruzione d’una loro soggettività implica un doppio difficile passaggio. Anzitutto il riattraversamento del passato in una condizione per un politico senza precedenti: quando esso sembra definitivamente chiuso, e in certa misura irraccontabile a una società sorda. Alle spalle sta la vicenda di cui nessuno parla: la sconfitta del movimento e non soltanto dei gruppi armati. Dov’è oggi il detenuto politico, tipo Silvio Pellico (cui ancora si rendeva l’onore delle armi) con dietro a sé il Risorgimento? O quello degli anni Trenta, che poteva perfino morire in galera ma con la percezione esatta di testimoniare, più che per un partito, per una storia che sarebbe proceduta anche attraverso il suo sacrificio? Perfino il russo o polacco o l’ebreo o il comunista annientati nei campi nazisti sono pezzi di storia fracassata come si frantuma il ramo di un albero che non può essere abbattuto, annullati come individui, ma potenti nell’immagine di sé, diventata destino. I politici degli anni Settanta in Italia, «irriducibili» a parte (ma anch’essi più aggrappati a uno stile di comportamento che a una certa politica) sembrano non avere dietro di sé che una storia da raccontare come conoscenza per errore, biografia della quale salvare almeno la moralità. Non che questo sia, storicamente parlando, vero e ineluttabile: durante gli interrogatori, in qualche convegno, l’esperienza è ricostruita come ricchezza: così Torino, l’assemblea autonoma di Porto Marghera, l’irrompere di soggetti, forme di comunicazione, messaggi. Ma è come se il paese, consegnando questa vicenda ai tribunali, si mettesse in condizione di non sentire, non capire, dimenticare; e siccome continua a vivere la dimensione della sconfitta, il dubbio sulla natura obsoleta del pensato precedente, o delle sue forme e gesti, fanno sì che questa appaia grande e soprattutto introiettata, che è quasi dire percepita come «meritata». Dove è finito infatti quello che era stato pensato come il proprio referente? Come scriverà Magnaghi da San Vittore, il movimento non passa più sotto le mura chiamandoti a agitare uno straccio rosso dalle bocche di lupo, a gridarti «tu là, io qui, siamo insieme». Il movimento è rifluito in vite che non conoscono più quella parte di sé che è finita dentro. Così se ne scrive con esitazione, lasciando che la ricostruzione di quella vicenda passi alle sentenze dei giudici, documenti straordinari della incultura repressiva del nostro tempo, o di alcuni libri scritti da giornalisti, più fuori che dentro quella tematica e fedeli allo slogan di Stato «era in ogni caso una follia». E a scriverne da protagonisti occorrerebbe decidere fra i modi dell’ironia dissacrante (qualcuno, appunto introietta la sconfitta propria come ragione altrui, ci prova) e la non semplice visione di sé come materia riarsa per le forme attuali della modernizzazione, leggendo in questa e nei suoi specifici lineamenti la valutazione ultima di quanto avvenuto, del ruolo effettivo svolto, neppur residuale ma stravolto per un insospettato presente. Come che sia, quale soggettività in grado di tener testa alla pressione della struttura carceraria può derivarsi dal proprio passato? L’ampiezza del fenomeno del pentitismo, più che alla debolezza di psicologie e valori, va probabilmente riportata a questo nodo. Il diario, e il lavoro svolto da quello che sarebbero stati gli embrioni del movimento a San Vittore e la prima «area omogenea» di Rebibbia, ne sono coscienti. Di questa storia va salvato, non come passato, ma come sintomatologia leggibile del presente, l’origine del movimento, le vite che ha conformato, i bisogni che esprimeva, riconoscendo la vetustà o immoralità (non sempre sono concetti nella storia diversi) dei moduli; l’identità per «dissociazione», il documento dell’estate 1982 preceduto da un lungo travaglio, questo era. Nella condanna del ricorso alle armi non stava una resa, una captatio benevolentiae, un’abiura: più gelida, meno confortante, la constatazione della sua sanguinosa obsolescenza. E meglio potevano vederla coloro che alle armi non erano ricorsi, ma che non volevano dire: il movimento che produsse armati e non armati era del tutto diverso, due storie estranee – lo furono e non lo furono. Anche se in modo abusivo, e per una spinta opposta, come ininterrotta e lineare continuità sono giudicati dall’opinione esterna, perché gesta ed esiti degli armati servono a demonizzare chi armato non era. Occorre dunque costruire una soggettività assieme per il recupero d’una spina originaria, la sua disamina, una presa di posizione su una parte dei suoi esiti; si dà così un soggetto non personale, ma collettivo come parte d’una vicenda storicamente iscritta nel conflitto sociale, che chiede di esser visto e vedere, e la cui proposta di dialogo non implica tanto «mediazione» quanto conoscenza delle parti in causa, rimessa in analisi, ricomposizione di un dialogo, dunque d’una articolata unità del sociale – come è sempre nelle cose – piuttosto che «riconciliazione» fra padri e figli, erranti e non erranti. Nato dai politici, questo cammino alla riconquista d’un io parlante collettivo, e parlante non solo e non tanto le parole della protesta, dilagherà fra i comuni, sostituendo alla non nuova visione di sé come frutto della società, la nuova visione di sé come soggetto non interamente surdeterminato, capace di giudicarsi e mutarsi: parte della società che si rende visibile come riflessione e proposta, dolorante e in piedi. Così la barriera è rotta. E infatti non sarà l’istituzione penitenziaria a bloccare l’espandersi di questa soggettività una volta messa in moto; se mai essa ne è stata mutata in certi aspetti parziali del regime interno e ha tentato di farne uso ai fini propri. Il movimento di Rebibbia e San Vittore si sono scontrati piuttosto con la «barriera» esterna collocata nella cultura della sfera politica e di gran parte della società civile, quella che sta al fondo, prima ancora che degli anni dell’emergenza, del «bisogno di carcerare», dell’esorcismo del deviante. E quale deviante più pericoloso di colui che in qualche modo ha preso su di sé un bisogno che ha sfiorato tutti, una spinta covata dalla storia, il brivido, l’incrinatura trascorsi una volta per sempre nelle fondamenta della democrazia progressista e statalista? E come la barriera è spostata fuori dal recinto carcerario così si sposta all’interno, costruendo l’invisibile recinto degli «irriducibili». Il dilemma d’una identità non perduta sta infatti, apparentemente, tra il percorso prima disegnato e il restare ciechi, disperatamente attaccati allo slogan della guerra continua come scudo di moralità personale, protagonismo finto, sopravvivenza simbolica o, qualche volta ancora, suggestione di sangue. Questo avviene in alcune correnti delle Brigate rosse, forse è al fondo del silenzio di alcuni sopravvissuti dei Nap. L’irriducibile non rompe la barriera, perché è ormai quasi la sola garante della sua identità, ne ha bisogno, ha bisogno di sentirsi in trincea, vivo perché in guerra col nemico di sempre, fissato per sempre in gesti uguali di conflitto. È il «giapponese», diranno gli altri, il kamikaze della rivolta inutile, del simbolo già non più comunicante. Rompe la barriera soltanto chi, traversato dalla metamorfosi che il carcere gli iscrive nel corpo come la macchina invisibile della Colonia penale kafkiana, se ne libera costruendosi un’identità che non è quella entrata in galera, né aggredibile da essa. È il movimento che parte dal 1981 come soggetto riformatore perché riformato. Ma come avviene, a livello della coscienza, questa trasformazione? Qui il diario corre su un’ambivalenza che non risulterà. Essa non avviene, sembra dirci, senza una modifica interiore, una riflessione ab imo; ma se questa è necessaria perché nasca il movimento, non si esaurisce in esso, e in qualche misura scarta da esso. È lo scarto fra quel che Magnaghi scrive nel suo tempo riappropriato e il lavoro che negli stessi anni e mesi e giorni compie, prima a San Vittore poi in quella che sarà l’«area omogenea» di Rebibbia, o con i documenti o gli scritti mandati fuori – ripresa di quel suo modo di essere, e bisogno di essere, in comunicazione con altri, ascoltando e suggerendo, aggregando per un lavoro comune, che aveva dispiegato prima nell’azione politica poi all’università. È un naturale coagulatore di uomini, e lo resta. Ma nel diario appena ne parla, e quasi con diverso linguaggio da quello dei momenti di più fitta analisi solitaria, disegna un processo ma non ne fa la storia, spersonalizza la spinta alla riacquisizione collettiva di diritti prima non solo non riconosciuti, ma forse neanche immaginati: il diritto all’affettività che parte dalle lotte di San Vittore, un grido alto, positivo, che incrina il senso comune della separatezza sessuale; il diritto di scegliersi nell’area omogenea, di compiere in essa e oltre a essa un lavoro su di sé che è lavoro non del recluso, ma d’una parte della società su se stessa, riflessione, proposta, dialogo. Quale rovesciamento comporti nelle carceri si misura riflettendo alla distanza che sta fra le rivolte dell’Asinara e di Trani, violente e disperate e senza altro sbocco che una repressione feroce – esito ultimo d’una protesta separata – e il contemporaneo formarsi d’una presenza carceraria di impatto diverso, non previsto, non speculare alla griglia repressiva e quindi, paradossalmente, irriducibile davvero ad essa. Questa parte dell’esperienza, che pure è stata determinante e nella quale egli è stato fra i determinanti, Magnaghi la appunta e profila senza eccesso di indugi; forse anche perché l’intui- zione sembra dirompente, il movimento aggrega oltre lo sperato, si esprime in pratiche mai conosciute, muta la natura della protesta e la valica, produce interventi reali nel quadro esterno e interno. E infatti – malgrado lo spostarsi della barriera istituzionale in due barriere invisibili e reciproche, dentro e fuori, non più capaci di dominio totale – se il movimento non ha portato a quel dialogo collettivo ed esplicito del paese con quella parte di sé che ha recluso negli anni Settanta, già la separatezza totale più non esiste, i muri sono incrinati, il carcere s’è fatto permeabile e frange non indifferenti della società civile, e perfino politica, ne sono problematizzate. Così nel diario queste sono anche le poche pagine nelle quali l’asciuttezza della forma trascorre nell’emozione, l’affermazione, la speranza, il cammello nietschiano s’è fatto leone, l’attraversamento del deserto è stato una nascita. E tuttavia, per quella parte di sé che ha scritto queste note, resta la percezione di aver conosciuto nel deserto una solitudine insanabile, e in essa un incontro con se stesso che non si trasferirà nel collettivo. Chi ha sperimentato la metamorfosi e la sua fatica, e quel trascorrere per distacco dai tempi esterni al tempo interno, e la fragilità del suo convergere in una piazza del tempo che, contrariamente al centro vuoto dell’istituzione panottica, è come l’affluire nel cuore dell’antico paese sulle Langhe, costui porta dentro di sé un finito, un compiuto, un lasciato alle spalle troppo smisurato per convertirsi senza residui in un nuovo sistema di relazione con il mondo. Ha scoperto il luogo dell’io senza dispersione, non tributario, e esso sembra inconciliabile con l’abituale sistema di relazioni della persona – che rimane su un altro piano, un altro livello, non complementare. Non si passa dall’uno all’altro senza la sofferenza d’una perdita. Nella prima parte del diario, ancora a San Vittore, l’architetto aveva costruito un aliante, un minuscolo oggetto cui le mani intelligenti avevano impresso la possibiltà del volo oltre il muro, un’idea di libertà. Ma allora l’aliante, dopo un breve prendersi nel vento, si era impigliato nella tettoia, e con esso s’erano impigliati gli sguardi di tutti, fermati nel momento di speranza e caduta del superamento della barriera. Non era ancora possibile: come un tema che appena si delinea all’inizio d’uno spartito, i segni che a volte ci manda il trascorrere della vita. Alla fine del diario, costruito il movimento di Rebibbia, della cui area omogenea l’aliante diventerà il simbolo, quello che traversato il deserto scopre nella tensione esatta alla costruzione dell’aliante, nel rapporto unico e chiuso fra mani, corpo, materia che si fa «altro» e capace di librarsi, la realizzazione totale. Non nell’uscita dal carcere, non nel protagonismo collettivo, ma in quella tensione desiderante a un altro che nasce fra le mani, momento di fusione tra essere e fare, soggetto e oggetto che ti riflette, simbiosi. Tempo dell’amore, scriverà nelle ultime pagine, dell’identificazione totale, dell’innocenza senza ricordo, senza storia, rispetto al quale ogni ricordo, ogni storia, ogni sguardo è un’intrusione senza senso, «idiota». In questa tensione perfettamente fine a se stessa, l’io autentico si riconcilia con sé, è finito lo sdoppiamento, è l’essere intero, il divino dir di sì a se stesso e quel che con te è il frammento di «altro», tutt’altro, che ti risponde. Così il soggetto del diario si è ricostruito, liberato. Di molto di più che dal carcere, paradossalmente il luogo dove soltanto potevano unificarsi le molte carcerazione che parevano averlo condizionato da libero. Qui è la chiave della scrittura di un libro, tutto nel carcere e nei tempi conquistati dentro a esso, che non si può definire un libro sul carcere, anche se ne dice quel che forse così non è mai stato detto. È un libro sull’identità di chi ha cercato una unità nell’estroversione politica, nell’attraversamento di tutte le contraddizioni, nelle lealtà agli altri, percependo sempre un vuoto, una eco irrisolta, forse la nota rinviata dalle molte sconfitte ma che le sconfitte rendono udibile, a monte di esse. Non occorre aver teorizzato l’unità fra personale e politico, con qualche facilità, per avvertire, quando la tensione vincente del fare collettivo si frantuma, quanto fragile fosse questo lega- me se non esistente. E tuttavia nel raggiungere l’io profondo, il nocciolo «autentico» attorno alle quali si stratifica l’identità, l’unità è perduta un’altra volta. Perché esso avviene per spoliazione e – nell’attimo stesso in cui l’io acquietato è felicemente colto – avvertita come perdita d’una parte di sé, riduzione all’innocente perché al di qua dell’esperienza, salvato da essa, all’animalità come forma perfetta perché liberata dall’inquietudine della ragione. Finché l’io appare assoluto e intatto in quanto racchiuso in una barriera, di fondali infiniti e di perimetro minimale; che forse è minimale il nostro passaggio nella trama della vita. Quasi che la coscienza dei nostri giorni potesse acquietarsi o in condizionamenti tutti esterni o in condizionamenti tutti interni, in differenti reclusioni, ognuna sola percepibile, ognuna avvertendo in lontananza l’altra come esattamente quel che le manca. Ma perché scrivo «di oggi»? L’introiezione del passaggio dall’una all’altra finitezza è l’accettazione della condizione tragica, nel senso irrisolta, della coscienza moderna. Questa intuizione affiora con violenza nelle ultime pagine del diario, per rottura di continuità anche stilistica, dà luce al percorso e a quel passare del linguaggio dall’analisi alla compiutezza poetica. Ne fa una storia che è impossibile ridurre a una storia politica.

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