Il femminismo bastardo di María Galindo*

«Non si può decolonizzare senza depatriarcalizzare», «La donna che si organizza non stira più le camicie», «Non c’è niente di più simile a un macho di destra che un macho di sinistra», «Disobbedienza, grazie a te sarò felice»: sono solo alcuni dei migliaia di graffiti sui muri delle strade boliviane dipinte dal gruppo anarco-femminista libertario Mujeres Creando – un esperimento di autogestione, collettiva, transfemminista, di cui María Galindo è stata co-fondatrice – creato nella città di La Paz nel 1992, tra i più importanti in America Latina non solo in rapporto alla decolonizzazione del femminismo, ma anche all’emersione del femminismo comunitario.
Mujeres Creando ha attivato contro-spazi femministi non identitari, in cui ribaltare le norme dominanti a partire dai propri corpi fuori luogo e fuori norma, stigmatizzati e messi al bando. Pratiche di ribellione e resistenza, con azioni sediziose e non violente di guerriglia urbana, tra cui graffiti e murales, installazioni effimere e performance, fino alla fondazione di Radio Deseo, per dissolvere quel confine che separa la dimensione estetica da quella politica. Perché la creatività può diventare uno strumento di lotta, per depatriarcalizzare le forme di organizzazione sociale, per ricreare e reinventare i luoghi che occupiamo, per portare disordine nelle gerarchie del potere e denunciare le nefaste conseguenze della «tecnocrazia di genere».
Ma cosa può fare l’arte di fronte a un neocolonialismo autoritario in cui le logiche del femminismo e le sue politiche identitarie sono state cooptate al servizio di un modello neoliberale?
Secondo Paul Preciado – nella prefazione a Femminismo Bastardo (Mimesis edizioni, 2024) Galindo risponde dislocando l’arte dagli spazi del mercato e della galleria e riportandola proprio nel luogo in cui è nata: la strada, la piazza pubblica, il rituale sociale. Lo spazio non è un palcoscenico neutrale dove si svolgono le azioni umane, non appartiene a tutti, la sua natura genderizzata nasconde l’origine patriarcale della divisione tra pubblico-privato, maschile-femminile, spazio eterosessuale e spazio queer. In questa politica concreta e di coalizione di gruppi minoritari, le lotte femministe, queer e transfemministe si intersecano, persino si scontrano, con le lotte anticapitaliste e antirazziste, fuori e dentro il mondo dell’arte. Paradigmatica, in questo senso, la proposta installativa e performativa che Mujeres Creando ha esposto nel 2014 alla 31ª Biennale di São Paulo con la creazione di uno Spazio per abortire (Espacio para abortar).
Abbiamo incontrato María Galindo lo scorso aprile, in occasione della Biennale Arte 2024 invitata da Marco Scotini a partecipare a Disobedience Archive, con il video Revoluciòn Puta sul lavoro sessuale e le lotte delle sex workers. Capitava, nei giorni dell’opening, di imbattersi per le calle di Venezia nella sua performance Non esiste arte al di fuori della politica (No hay arte por fuera de la política): un’azione non annunciata, di cui non troviamo nessuna traccia nelle check list dei curatori, nei comunicati stampa ufficiali o nelle recensioni, Galindo scavalca il potere delle élite culturali e le sue procedure attraverso una rottura dell’ordine prestabilito dello spazio governamentale del sistema-arte e delle sue istituzioni. Galindo non chiede permessi e posiziona sui banner e i manifesti con l’identità visuale della Biennale centinaia di pañuelos, simbolo popolare della lotta femminista, con la scritta «No es una guerra es un genocidio. Todos los pueblos del Sur somos Palestina» (Non è una guerra, è un genocidio. Tutti i popoli del Sud siamo Palestina).
In questi giorni María Galindo è impegnata in un tour italiano, organizzato dal Forte Prenestino e da una vasta rete di alleanze, realtà collettive e autogestite italiane; in vista dei prossimi appuntamenti (18/02 CSOA Gabrio, Torino; 20/02 Circolo Arci Spazio Condiviso, Calolzio; 21/02 Centro sociale Cantiere, Milano; 23/02 CSO Pedro, Padova) pubblichiamo alcuni estratti tratti da Femminismo Bastardo, nei passaggi maggiormente incentrati sulle questioni artistiche, per prepararci in «rivolta e sorellanza» ad un 8 Marzo di lotte e abbracciare l’utopia della depatriarcalizzazione.
***
Arte?
Impostora
Negli spazi istituzionali dove le cornici di definizione sono quelle della presenza in quanto «artista», mi presento come un’impostora.
Nei musei sono un’impostora, nelle biennali d’arte sono un’impostora, nelle gallerie sono un’impostora, nei circuiti artistici sono un’impostora. Non potrei identificarmi in nessun altro modo in relazione al complesso insieme di definizioni e operazioni che implicano la parola arte nella sua versione ufficiale. Non potrei collocarmi in nessun altro modo in relazione alla divisione del lavoro all’interno di un’istituzione artistica, qualunque essa sia. Non potrei collocarmi in nessun altro modo in relazione a ciò che viene offerto al pubblico dall’interno dell’istituzione «arte». Non potrei collocarmi in nessun altro modo in relazione alla posizione artista/non artista o artista/artigianx. È una posizione scomoda per me, che mi pone in anticipo come una persona fuori luogo e in un conflitto irrisolvibile con «l’istituzione», qualunque essa sia, e con qualsiasi segmento dell’istituzione: il museo, il curatore, il gallerista, la biennale, il pubblico, il custode, la storia dell’arte, le pareti bianche dell’ospedale, la donna che pulisce la stanza o il critico.
La creatività come strumento di lotta e il cambiamento sociale come evento creativo
Se ne vedono solo poche
ma dietro ce ne sono milioni
Questa frase è stata formulata la prima volta che ho partecipato a un evento artistico nel 2000 e mi ha accompagnato per vent’anni in ogni spazio artistico e/o politico a cui sono stata invitata o come invasora inopportuna. È una frase di largo respiro che è servita a tessere uno spazio solido per l’Azione Creativa, ma che allo stesso tempo ci ha spesso erroneamente collocate nella posizione di un gruppo artivista, di un collettivo artistico o di un gruppo di illuse che vuole cambiare il mondo partendo dall’arte o con l’arte. Nessuno dei tre corrisponde né al significato, né alla realtà di ciò che facciamo. Non siamo un gruppo «artivista» perché in Mujeres Creando c’è un numero incalcolabile di mansioni esterne all’arte, legate alla produzione di giustizia, alla capacità di sopravvivenza collettiva e alla costruzione di una relazione conflittuale, di dialogo e provocazione, con la società a cui apparteniamo. Non agiamo collettivamente in tutto e non abbiamo mai dicotomizzato il collettivo dall’individuale. Ci sono molte compagne che non sono interessate a ciò che si discute o si fa nelle cosiddette arene «artistiche». Noi ci identifichiamo e ci riconosciamo collettivamente come movimento anarco-femminista che ha sviluppato una serie innumerevole di metodologie di lavoro, alcune delle quali vengono occasionalmente recuperate da «il mondo dell’arte» e sono state riconosciute come artistiche, anche se la loro matrice è sempre stata quella della politica.

[…]
Non abbiamo nemmeno concepito la lotta sociale dal punto di vista dell’arte, come se l’arte stessa avesse per sua natura un potere trasformativo. Quello che abbiamo fatto, e a cui la mia azione personale, non necessariamente collettiva, è stata dedicata, è la riflessione e la costruzione di linguaggi di provocazione e di lotta. Abbiamo prodotto delle burrasche che distruggevano gli schemi delle forme di percezione delle donne, di sé stesse, e siamo diventate esperte calibratrici della percezione sociale. Ecco perché, nel corso di più di vent’anni, la nostra produzione principale è stata il dibattito e la destabilizzazione delle strutture immaginarie. In questa dimensione, ciò che funziona come strumento è la creatività, ma non per produrre un messaggio, bensì per confrontarsi con la lotta sociale e per capire che il risultato stesso di questa lotta è un atto pulsionale di ricreazione e reinvenzione del luogo che occupiamo.

[…]
Siamo un collettivo di produzione di sussistenza che si dedica a decine di cose diverse ogni giorno. Ecco perché ognuna di queste cose è firmata da chi di noi le produce e allo stesso tempo dal collettivo che diventa un nido di ospitalità, in un laboratorio sperimentale o semplicemente in un luogo di confluenza. Alcune possono stare accompagnando un aborto illegale, altre possono star producendo un programma radiofonico, altre possono star esplorando antiche ricette di cucina, altre ancora negoziando debiti con le banche per ottenere un po’ di giustizia economica per fruttivendole e negozianti, altre si limiteranno a incubare tranquillamente i sogni, accoccolate nel nostro calore, altre scriveranno un libro, altre impareranno a leggere e scrivere, altre impareranno a sognare, altre ci rinnegheranno e scapperanno dalla nostra spudoratezza. Tutto questo è condensato in un’unica denominazione dinamica: Mujeres Creando.
La nostra posizione collettiva è quindi più complessa di quella di un gruppo «artivista» e più interessante come esperimento sociale. La mia posizione personale al suo interno mi pone, come ognuna di noi, come responsabile delle mie azioni e del mio lavoro che è, tra l’altro, auto-inventato, e che potrebbe essere riassumibile nell’insolita attività di produzione di linguaggi di lotta e di costruzione di nuovi campi di percezione per la ridefinizione infinita di ogni domanda, una per una.

Ci mettiamo il corpo
L’unica azione che viene firmata esclusivamente in modo collettivo e che si estende per oltre venticinque anni, stabilendo un dialogo continuo con la società, sono i graffiti. Abbiamo fatto graffiti in quattro città del paese ininterrottamente. Quello che abbiamo scritto sui muri è un testo concatenato, semplice e libero, del femminismo. Questo testo è diventato uno specchio dove la realtà e i suoi personaggi sono riflessi da una prospettiva femminista, e sono la testardaggine e il tempo che lo hanno trasformato in uno specchio. Sono l’insistenza e la costanza che gli conferiscono una dimensione diversa. Non è un solo graffito, sono migliaia; non è un luogo, sono quattro città; non è il centro delle città, ma tutti gli spazi immaginabili; non è un solo tema, è una catena di tematiche. Sono testimone di come le ragazze che sono cresciute con i nostri graffiti abbiano permesso a quelle frasi di interrompere e modificare le loro scelte.
Ormai sappiamo che, se i muri potessero parlare, chiederebbero graffiti per poter avere bocche e braccia per parlare e abbracciare.
I graffiti non perdono la loro musica, la loro forza, il loro significato, non si consumano con il passare del tempo, continuano a sudare sui muri, ad abbracciare e ad accompagnare lx ribelli, continuano a chiamare alla disobbedienza, al piacere, all’amore e alla lotta.
Siamo graffitare, non bombarole!!!

Arte e donne: una trappola concettuale
Non risiede il rapporto tra etica ed estetica
nel cosiddetto messaggio sociale di un’opera d’arte.
Il rapporto tra etica ed estetica
coinvolge l’intero processo creativo;
la forma che è il contenuto
e il contenuto che è la forma,
il come e il quando
il perché e il percome,
con cosa sì e con cosa no,
e tutte le domande che questo processo chiude
e tutte le domande che apre.
Le nostre azioni creative hanno un colore della pelle,
genere, classe sociale, scelta sessuale e posizionamento.
Anche il vostro e quello di coloro
che non vogliono riconoscerlo.
Non c’è estetica al di là del bene e del male,
non c’è estetica al di là della storia
e delle relazioni sociali in cui si trova
Credo decisamente e con rispetto che le Guerrilla Girls abbiano sbagliato la domanda quando hanno chiesto, alla porta del più grande museo di New York, il numero di donne artiste presenti in esso. Hanno certamente creato un precedente storico, sfidando la mascolinizzazione dell’arte esposta in quel museo ed estendendo l’analisi alle istituzioni artistiche nel loro complesso. La loro domanda ha generato un movimento per «l’inclusione delle donne» nelle mostre d’arte. Dov’è il malinteso in una domanda che sembra aver generato una risposta storica?

Quando la risposta è sbagliata, si possono sempre cercare nuove risposte ma quando lo sbaglio è nella domanda, la questione è più complessa perché quello che deve essere rivisto è la concezione stessa che ti ha portato alla domanda. La domanda delle Guerrilla Girls ci porta forzatamente a ruotare intorno all’esclusione/inclusione delle donne. In effetti, è una domanda che è diventata di moda fino a oggi, in ogni scena artistica, e che ha creato il contenitore «arte delle donne» o «arte e genere». Donne in termini di cosa? mi chiedo: come fatto biologico? Come dato quantitativo? Quali donne soddisfano questo requisito e quali no? L’inclusione di alcune donne può essere il meccanismo di esclusione di altre donne, per esempio le afro-discendenti, le cosiddette indigene, le donne trans o non europee?
D’altra parte, «prospettiva di genere» è usato come un cognome forzato per ciò che non può essere arte in senso stretto. Il genere viene scambiato come qualcosa che proviene dalle donne o che può essere semplicemente rivolto alle donne; gli si dà il cognome di genere per collocare quest’opera al di fuori delle preoccupazioni e dei dibattiti centrali dell’arte.
La prima cosa che dovremmo riconoscere è che tutta l’arte ha un contenuto di genere e che ci divertiremmo molto a svelarlo. Finché questa cosa del genere è una «cosa da donne» rimane una confusione deliberata.
Creare la sezione, l’ufficetto, il sottotitolo, il cassetto: arte e donne, proprio come si fa con l’arte e i popoli battezzati colonialmente come «indigeni» o l’arte e il genere, può essere un’operazione politicamente corretta che preserva i dibattiti centrali dell’arte nel territorio del potere come sempre senza intaccare, macchiare o contaminare il concetto di universalità che è il concetto da contestare.
Una tale disputa è possibile e sufficientemente profonda solo se si mettono in discussione tutte le omissioni che la storia dell’arte universale stessa produce. Non stiamo parlando solo dell’operazione di esclusione, stiamo parlando di costruzioni concettuali che omettono, negano, inferiorizzano, ammutoliscono e costruiscono immaginari, categorie, paradigmi ciclicamente al servizio di strutture di potere.

La strada come palcoscenico storico: il dentro e il fuori
E dico fuori, non dentro
non dentro la galleria,
non dentro l’istituzione,
non dentro l’obbedienza,
non dentro l’accettazione,
non dentro la legittimazione,
non dentro il sistema,
perché sapete?, il sistema non è tutto,
non è tutta la realtà, non è nemmeno una parte significativa
della realtà che ci circonda, ci avvolge e ci disfa.
È piuttosto fuori e non dentro che trovo e acquisisco senso. E anche se può sembrare una menzogna o una semplice fantasia di una eterna adolescente, oso dirvi che al di fuori del sistema non c’è il vuoto, il vuoto con cui vi minacciano e vi spaventano: al di fuori del sistema non c’è il nulla.
Ciò che è fuori dal sistema del privilegio.
Ciò che è fuori dal sistema dell’amministrazione delle violenze e delle reputazioni.
È ciò che, dal centro dei suoi interessi,
il sistema qualifica come inefficiente, non produttivo,
demenziale, criminale, sgradevole, scomodo,
brutto, squallido e pericoloso.
Ciò che sta fuori non è ai margini, né è la marginalità della società, non è nemmeno la marginalità della storia.
Ciò che è fuori dal sistema è tutto ciò che il sistema stesso non è ancora riuscito a inghiottire.

La strada è senza dubbio lo spazio più importante della politica e quindi della storia. Tutti i movimenti trasformativi immaginabili sono nati nella presa collettiva dello spazio pubblico, della strada, facendone la tribuna da cui parlare. Non sono stati i parlamenti, i musei, e nemmeno le università i luoghi della trasformazione sociale, forse in seconda battuta e in alcuni casi, ma inequivocabilmente la strada è stata e continua a essere il forum più importante della storia. Da Hong Kong a Washington, da Atene a Buenos Aires o Pechino, pensando in termini di città disparate che probabilmente non hanno quasi nulla in comune, la protesta sociale, di strada, trasformativa e collettiva potrebbe essere un luogo comune.
Nelle nostre società del sud è uno spazio di sostentamento, è un luogo di incontro e di dibattito, è un luogo di vita, perché centinaia di migliaia di persone trascorrono la maggior parte della loro vita in strada, vi fanno la siesta, vi fanno fare i compiti allx loro figlix. Per le donne in particolare, la strada è stata ed è tuttora un luogo fondamentale di emancipazione, la conquista della strada come spazio proprio è il più importante gesto storico degli ultimi 50 anni. È lo spazio d’incontro, è lo spazio per la costruzione di un’architettura effimera che sono le bancarelle clandestine. La strada è l’esterno da dove si possono gettare in un altro posto.
È anche uno spazio conteso con una miriade di dinamiche di potere, a cominciare dalle dinamiche di controllo e di disciplinamento della polizia, ma è anche lo spazio che il neoliberalismo regola e occupa per le grandi marche e i cartelloni pubblicitari. In strada l’estetica è complessa, i colori sono in gioco, luci e dinamiche che fanno parte di una scenografia impossibile da imitare nella sua ricchezza e complessità, tanto più in società come quella boliviana, dove la strada è tutto. Concettualmente, la strada è lo spazio anti-istituzionale per eccellenza, per questo la progettazione architettonica di grandi viali, che elimina la maggior parte delle piccole strade e che le trasforma in uno spazio di transito per le auto e non per le persone, cancella deliberatamente il luogo di incontro delle città.

Musei e spazi artistici istituzionali sono sempre privi di democrazia e quindi cronicamente, più e più volte, ripetono la loro vocazione autoritaria, riducono il rapporto con le persone al costo dell’ingresso, ai modi per motivare le persone a entrare nello spazio. Senza dubbio però il pubblico ha poco o nulla da dire in un museo, consuma passivamente, diventa un numero e basta. La tradizione, installata da questa visione antidemocratica del pubblico, è quella dell’artista che, attraverso l’istituzione, diventa l’unico che ha il diritto di esporre il proprio discorso; oggi è il curatore, in ogni caso, colui che attraverso l’artista dispiega il suo discorso per un pubblico che deve ingoiare senza diritto di replica. Questa stessa tradizione si è in qualche modo ripetuta nel rapporto tradizionale presente nel mondo dell’arte di strada, più vicina «all’artivismo». Si basa su un’idea missionaria che vuole portare l’oggetto artistico in strada come atto democratizzante e sovversivo. Un atto molto simile al predicatore evangelista che porta in strada la buona novella della sua predicazione con la quale ha invaso l’intero continente. Il nostro lavoro non è nato in nessun modo nel museo, nella galleria o nella scuola d’arte, ma è nato nella lotta sociale, in politica e in strada, e da lì, di tanto in tanto, passava al museo, alla galleria o alla biennale d’arte.
*Estratto da María Galindo, «Capitolo 2. Da carne senza verbo a carne fatta verbo», in Femminismo Bastardo, Mimesis edizioni, Milano, 2024, pp. 101-104 a pp.107-112. Traduzione di Roberta Granelli.
***
María Galindo nasce a La Paz (Bolivia) nel 1964, studia psicologia e teologia, viaggia e lavora in vari paesi europei. Nel 1992 torna a La Paz, dove fonda il gruppo anarchico femminista libertario Mujeres Creando, uno dei collettivi artistico-politici più importanti dell’America Latina, che detta anzitutto una politica visuale adatta a risignificare gli spazi pubblici. Assieme al collettivo, Galindo fonda Radio Deseo, autogestisce uno spazio nel centro della capitale boliviana e pubblica, nel 2013, No se puede descolonizar sin despatriarcalizar.
コメント