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La penisola banchina

Conversazione con José Nivoi (USB, Calp Genova)

 

Stefano Serretta, Genova 7 giugno, 2025
Stefano Serretta, Genova 7 giugno, 2025

«Se anche solo per 20 minuti perdiamo il contatto con le nostre barche, le nostre compagne e i nostri compagni, noi blocchiamo l’Europa». Sono le parole dei camalli del Calp USB che risuonano potenti nella notte prima della partenza della Global Sumud Flotilla dal porto di Genova: gli aiuti umanitari devono arrivare a Gaza e che nessuno tocchi la flotta, nonostante siano già arrivate le minacce del ministro della Sicurezza Nazionale israeliana, altrimenti «non un chiodo partirà più dai nostri porti». La posizione politica è chiara: la solidarietà non basta, serve la lotta!

Il Calp, Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali fondato nel 2011, dal 2014 si occupa di contrastare il traffico di armi di passaggio nello scalo genovese, cercando contemporaneamente di costruire una rete di solidarietà internazionale che unisca le portualità italiane ed europee in questa lotta. Nel 2019 sono stati protagonisti del blocco della nave saudita Bahri Yambu, carica di armamenti da usare nella guerra in Yemen. Dal 7 ottobre si sono occupati attivamente di rispondere alla richiesta di aiuto del popolo palestinese. Ora, nella missione della Global Sumud Flotilla - che rappresenta la convergenza di quattro reti: Freedom Flotilla Coalition, Global Movement to Gaza, Maghreb Sumud Flotilla, Sumud Nusantara - hanno avuto un ruolo cruciale nella preparazione e nell’organizzazione logistica.

 L’artista Stefano Serretta - che ha dedicato una graphic novel, nel magazine indipendente Frankenstein, alle lotte dei lavoratori portuali di Genova contro il traffico di armi verso gli scenari di guerra e la costruzione di una rete di solidarietà internazionale in supporto dei popoli oppressi e in rivolta – in seguito ai blocchi di Genova a giugno e luglio ha incontrato il 3 agosto 2025 José Nivoi, portuale e sindacalista, membro del Calp e dell’Unione Sindacale di Base (USB), che si è imbarcato con la Global Sumud Flotilla nell’equipaggio salpato da Genova e diretto in Palestina, per rompere il blocco navale imposto da Israele e l’assedio di Gaza, nel tentativo di aprire un corridoio umanitario dal basso, a fianco della resistenza palestinese.

 

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Stefano Serretta: Comunicato USB del 31 luglio 2025: «L'Unione Sindacale di Base celebra oggi un’altra vittoria significativa nella lotta contro ii traffico di armi nei porti italiani. Grazie alla mobilitazione dei portuali di Genova e alla rete internazionale di solidarietà che si consolida ogni giorno, dopo aver contribuito a fermare la nave Zim a giugno, oggi siamo stati informati che i tre container contenenti materiale bellico, destinati a La Spezia e trasportati dalla nave Cosco Pisces, non verranno sbarcati né a Genova né a La Spezia. La compagnia Evergreen ha deciso di farli rientrare direttamente verso l'Estremo Oriente, dove erano stati inizialmente caricati». Da qui la decisione sindacale di ritirare lo sciopero previsto a Prà il 5 agosto e di lanciare due giornate di assemblea internazionale dei portuali contro la guerra il 26 e 27 settembre.

 

José Nivoi: Abbiamo invitato a partecipare all’iniziativa lavoratori da Tangeri, greci e francesi, svedesi, marocchini e turchi, come anche il rappresentante di EDC, l’European Dockworkers Council.


 

S.S.: Quella del 31 luglio può essere definita senza mezzi termini una vittoria dal valore fortemente simbolico. Come si arriva a un risultato del genere? Perché inizialmente, essendo previsto l’attracco della nave, voi lo sciopero lo avevate proclamato.

 

J.N.: Parte tutto con la mobilitazione dei greci di due settimane fa, quando gli viene comunicato che all’interno di questa nave c’erano tre containers diretti a Israele. Tramite mobilitazione e sciopero ottengono di non scaricarli, e subito dopo la nave parte in direzione La Spezia. A quel punto l’ENEDEP, che è il sindacato con cui abbiamo costruito il coordinamento internazionale, ci comunica l’arrivo su La Spezia e Genova di questa nave. Abbiamo cercato di capire in quale terminal dovessero sbarcare questi tre containers, perché le informazioni che avevamo erano molto vaghe, non sapevamo se a La Spezia dovesse imbarcare o sbarcare, non sapevamo in quale terminal a Genova doveva addirittura attraccare. Sapevamo però che su Genova il gruppo con cui doveva sbarcare era PSA, la Cosco è una tratta che ha preso da poco, non si è quasi mai vista a Genova se non al SEC. Però al SEC, in questo momento, stanno facendo dei lavori e quindi questa tipologia di nave da 20.000 containers non può attraccare, è troppo grossa. Rimaneva come unico terminal possibile PSA. Quindi lanciamo le comunicazioni dicendo che qualora avessero scaricato questi containers avremmo applicato lo sciopero. La nave si avvicina e poi avviene un fatto strano, rimane ferma in rada fuori dal porto di La Spezia per cinque giorni. Contemporaneamente noi facciamo una mobilitazione sotto il comune di Genova e una richiesta d’incontro con la nuova giunta visto che in campagna elettorale si era espressa contro la guerra. Nel frattempo facciamo un incontro con l’assessore Robotti, che si occupa delle relazioni coi sindacati, e gli chiediamo di prendere posizione chiaramente su una situazione che ormai non è più giustificabile da nessun punto di vista. Il 25, che era la data di attracco ipotetico a La Spezia, facciamo un presidio sotto il Comune di Genova, e di fatto lì Robotti ha portato in consiglio comunale le posizioni che gli avevamo avanzato il giorno prima. A quel punto usciamo con i comunicati e lanciamo lo sciopero e di fatto due giorni dopo Shipping Italy, una rivista di settore di peso specifico perché il direttore è anche il presidente della Cosco Italia, pubblica un articolo in cui dice che la compagnia Cosco riporta a Singapore questi tre containers, ed è la prima volta che per via di uno sciopero una compagnia marittima che ha un peso enorme prende una posizione del genere. Intendo per una questione non vertenziale o ambientale. Ci è capitato una volta di aver trovato dei containers di cobalto all’interno della nave non dichiarati che son stati o sequestrati e messi nell’area bunker o riportati indietro. Qua invece la differenza è che per una questione politico sindacale una compagnia del genere comunica che gira la nave e si riporta indietro i containers.


 

S.S.: Crea un precedente importante, oltre ad essere una bella medaglia.

 

J.N.: Enorme, perché vuol dire che con la lotta, con l’utilizzo dello sciopero puoi essere veramente determinante. Ti dimostra che se i lavoratori sono uniti determinano anche i traffici. Nelle logiche di chi commercia significa che magari per quei tre containers di armamenti non ne arrivano sessanta di Amazon, o il carico di medicinali urgenti che dovevano arrivare da qualche parte. Crea un precedente bello grosso per quelle che sono le regole di imbarco su queste navi: quanto si è disposti a mettere a rischio la nave per tre containers diretti in teatri di guerra? Per loro è economia. Un po’ la stessa logica che avevamo utilizzato con la Bahri, il gioco lì era non fare più sciopero solo sulla banchina ma dichiarare sciopero su tutto il porto, perché rompendo l’economia per 24 ore ci rimetteva anche quello che magari armi non ne trasportava.


 

S.S.: In questo quadro come si inserisce la riconversione della diga foranea di Genova?

 

J.N.: Il 25 luglio abbiamo fatto anche una assemblea sulla questione della diga foranea, che sarà la nostra nuova battaglia oltre a quella del traffico d’armi, perché c’è l’impegno da parte della Regione e dello Stato di spostare parte dei soldi del ReArm Europe sulla Nuova Diga Foranea, che diventerà double use, permettendo alle truppe NATO d’intervento rapido di sbarcare a Genova e far attraccare portaerei militari della NATO in caso di conflitto diretto in Europa. Questo mette a repentaglio non solo chi vive a Sampierdarena per quanto riguarda il traffico d’armi ma fa diventare tutta Genova un obiettivo militare sensibile senza mezzi termini. Questo progetto fa parte del famoso pacchetto da 800 miliardi e riguarda le infrastrutture NATO a livello europeo, ad Amburgo ad esempio stanno costruendo già delle aree interne al porto con una legislazione speciale, dedicato allo stazionamento di arsenali militari NATO e statunitensi, che è una anomalia perché esistono già le basi militari. Il fatto che ci sia un ragionamento di questo tipo a livello europeo ci deve veramente preoccupare. Su Genova, la diga foranea nello specifico siccome già adesso ha una mancanza di fondi, e parliamo di 1 miliardo e 300 milioni di euro di costo e per far sì che arrivino altri soldi la diga sarà appunto ad uso anche militare. Il progetto è in fase di sottoscrizione e dice palesemente che servirà per le truppe di sbarco d’intervento rapido della NATO, che sono quelle che arrivano e assaltano. Quindi non ha senso parlare di difesa, queste sono operazioni belliche: si parte dalle infrastrutture e si arriva alla guerra. Il secondo elemento che ci fa pensare in questa direzione è il riferimento all’attracco di portaerei, che sono considerate egualmente navi da attacco. Il 25 abbiamo discusso di questo oltre alle criticità che già ha. C’è un problema strutturale, il primo progettista della diga l’ha progettata diversamente da come la stanno facendo ora e ora ha dato le dimissioni perché vogliono costruirlo a 800 metri dalla costa in un fondale che è di 53 metri, laddove le dighe foranee devono essere costruite entro i 50 metri, in un fondale che è sabbioso, ulteriore fattore di rischio. Alla prima mareggiata che arriva la diga rischia letteralmente di cadere generando uno tsunami direttamente sul porto di Genova. E comunque vanno avanti.


 

S.S.: Il 5 giugno in Francia i portuali di Fos sono riusciti a fermare un carico di armi diretto ad Haifa. Il 7 giugno a Genova il Calp organizza un nuovo blocco, ribadendo il rifiuto di qualsiasi complicità e in opposizione a qualunque guerra. Segue Livorno, mentre dall’altro lato del Mediterraneo si fanno sentire le voci dei portuali di Tangeri, che protestano nonostante le repressioni. Queste azioni sembrano dimostrare il fatto che i lavoratori possono avere una voce in capitolo su quello che succede nel contesto globale. Com’è andata in quell’occasione?

 

J.N.: È andata bene, un altro capitolo del lungo percorso antimilitarista che stiamo portando avanti. La prima comunicazione del passaggio di una nave della compagnia ZIM ci è arrivata dai portuali francesi, che il 5 giugno a Fos si sono rifiutati di caricare le armi a bordo e sono riusciti a impedire l’imbarco di 14 tonnellate di materiale bellico destinato a Israele, prevalentemente munizioni. I marsigliesi si sono espressi con un comunicato e con una azione concreta, atta a minare l’ingranaggio produttivo bellicistico. A quel punto la nave di ZIM è ripartita con l’intenzione di fare scalo da noi. La navigazione del tratto di mare tra Marsiglia e Genova richiede circa 15 ore di viaggio. Nel frattempo, qui a Genova noi del Calp abbiamo organizzato un ulteriore blocco, la mattina del 7 giugno, per evitare che le armi arrivassero dalla Francia tramite containers trasportati via terra, e siamo entrati in corteo nel porto con circa 350 persone tra cui attivisti e lavoratori. È stata una chiamata cittadina, la seconda volta nella storia della portualità italiana, sempre qui a Genova. Ci siamo attivati per controllare che la nave della ZIM fosse effettivamente vuota e che non stessero cercando di caricare gli armamenti. Questo non è accaduto, e la nave è ripartita nel pomeriggio. Adesso stiamo organizzando altri due blocchi: uno a Salerno e uno a Scilla. Il coordinamento internazionale sta funzionando.


 

S.S.: Ci siamo visti la prima volta a giugno 2023, quando lo scenario attuale non era ancora pienamente prevedibile ma altri conflitti infiammavano già Medio Oriente e non solo. Guerre che voi del Calp (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) cercate di contrastare attraverso strumenti come il boicottaggio e lo sciopero nelle banchine del Porto di Genova. Ci siamo sentiti a maggio 2024 per raccontare il percorso che, dal blocco del Varco Etiopia del 7 novembre, aveva portato al Palestine Kongress di Berlino, e alla relativa chiusura anticipata e censura di quell’esperienza antimilitarista. Nel frattempo, il governo tedesco ha ammesso di aver esportato armi verso Israele per un valore di almeno 550 milioni di dollari, tra il 7 ottobre 2023 e maggio 2025. Dall'inizio dell’offensiva israeliana a Gaza, gli Stati Uniti hanno fornito oltre 90.000 tonnellate di armi e attrezzature, consegnate grazie a un imponente sforzo logistico che ha coinvolto anche 140 navi da trasporto. Questi dati dimostrano quanto siano sensibili logisticamente i porti quando si pensa alla filiera delle armi. Avevi concluso con l’auspicio di riuscire a organizzare uno sciopero generale dei portuali del Mediterraneo. Come sta procedendo la costruzione della rete di solidarietà internazionale che avete iniziato sette anni fa?

 

J.N.: Abbiamo fatto l’ultimo incontro il 28 febbraio 2025, durante lo sciopero generale greco. Si è trattato di una manifestazione molto sentita, con più di un milione di partecipanti solo ad Atene dove eravamo. Per arrivare a questo momento ci sono stati tutta una serie di passaggi, più o meno informali, con i portuali turchi, di Tangeri e tedeschi, che ci hanno portato a partecipare a questa giornata di mobilitazione devo dire bellissima, non sono mai stato in una piazza così piena in vita mia. Dopo l’assemblea abbiamo organizzato la prima riunione del coordinamento internazionale porti e abbiamo stilato una piattaforma, partendo ovviamente da quelle che sono le dinamiche del lavoro: automazione, intelligenza artificiale, questione ambientale, questione dell’attacco del capitale al mondo del lavoro portuale. Da parte dei grandi armatori a livello globale è in atto un tentativo di minare la forte leva contrattuale in mano ai portuali, che non sono molti se andiamo a vedere. In Italia ci sono grossomodo 13.000 portuali e queste poche persone hanno un’immensa forza. Una contraddizione assurda, veramente un po’ atipica. Ovviamente accade lo stesso anche negli altri stati ma in modo diverso, in Grecia c’è un unico porto di rilevanza strategica internazionale, quello del Pireo, come ci sono Anversa per il Belgio o Amburgo per la Germania, mentre invece in Italia l’interesse nazionale è spalmato lungo tutto il territorio: a Genova, Trieste, Livorno, Civitavecchia… guarda i dati della movimentazione container, si parla di 11 milioni per quanto riguarda il Pireo, 13 milioni per Anversa, mentre sull’Italia complessiva hai sempre intorno ai 13 milioni, perché c’è proprio un modo diverso di concepire la portualità, vista anche la geografia della penisola italiana, che è praticamente una lunga banchina. Partendo da questa analisi si è deciso di creare una piattaforma sentita sia a livello italiano sia a livello greco, turco, cipriota e quant’altro, per arrivare alla questione antimilitarista. Quello che abbiamo notato è che nell’ultimo anno (e dico grazie ma non grazie alla questione palestinese) si è sistematizzato il problema delle armi, e ci si è resi conto delle implicazioni provocate dall’avere un porto civile che traffica in armamenti. Si è deciso quindi di dar vita a questo coordinamento internazionale, soprattutto dopo i momenti di mobilitazione avvenuti sulla scia di quello che abbiamo iniziato a Genova: Atene ha fatto due blocchi contro la compagnia MSC, Barcellona ha fatto tutta una serie di dichiarazioni importanti (ma devo dire che il governo spagnolo in questa fase è molto schierato sulla questione israeliana quindi anche il sindacato più concertativo ha la tranquillità di applicare l’antimilitarismo), i portuali di Tangeri hanno prodotto un altro blocco contro le navi che trasportano armi a verso Israele.  Ci sono poi stati i casi turchi: anche lì grazie a nostri contatti (social e media ma anche privati) abbiamo avvisato i portuali di Istambul riguardo la nave con bandiera portoghese Catherine, che trasportava il gas RDX, un gas specifico che viene utilizzato dalle missilistiche utilizzate da Israele. Questa nave stava andando verso il porto israeliano di Ashod: dopo una serie di comunicazioni tra noi, la Germania e i maltesi, il Portogallo decide di levargli la bandiera di navigazione. Togliendo la bandiera la nave non può approdare finché un altro stato non la riconosce come sua. Questa nave resta sulle coste di Malta per circa una decina di giorni, riceve poi la bandiera tedesca di navigazione per completare le operazioni di scarico a Malta e puntare Ashod.  A quel punto approda in Turchia e lì c’è il primo vero atto dei turchi, la nave viene presa letteralmente d’assalto, qualcuno ha anche rischiato di lasciarci la pelle perché è caduto mentre questa nave si spostava e le eliche fanno un bel casino sott’acqua. Abbiamo quindi deciso di invitare anche i turchi a questo coordinamento internazionale e si sono resi disponibili a un ragionamento.


 

S.S.: Il dialogo che avete avuto negli ultimi due anni ha prodotto quello che vediamo oggi, ovvero una sensibilità maggiore tra i lavoratori portuali.

 

J.N.: C’è anche da dire che riuscire a mettere in connessione e a far ragionare francesi, tedeschi, italiani, greci, marocchini e turchi non è una cosa tanto semplice, anche perché ognuno di noi ha la propria sensibilità politica, la propria sensibilità sindacale, le proprie leggi di stato che limitano più o meno lo sciopero… c’è tutta una serie di cose da tenere in considerazione. In Italia il 20 giugno abbiamo indetto lo sciopero generale, contro il riarmo europeo e quindi contro il finanziamento dell’industria bellica da parte dei nostri governi, perché quegli 800 miliardi derivano da soldi pubblici di ogni stato e quando si parla di aumento del capitale PIL per l’armamento oltre il 2%, si parla di risorse levate a sanità pubblica, istruzione etc. Abbiamo caratterizzato quindi la giornata del 20 su questo, mentre il 19 di giugno si è tenuto un incontro con un pull di avvocati perché contemporaneamente stiamo ragionando su come tutelare operai e lavoratori in caso di obiezione di coscienza diretta. Mi spiego meglio: io lavoratore vado al lavoro, mi si presenta davanti un carico di armamenti, non voglio fare quel tipo di operazione perché non voglio esserne complice, sono tutelato? Nei termini della Costituzione italiana sì, visto che posso appellarmi all’Articolo 11 («L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali») e alla legge 185/90, che vieta il transito di armi. Abbiamo introdotto gli avvocati per capire come bypassare una serie di sentenze che obbligano comunque il lavoratore a fare tutta una serie di mansioni siccome non può rifiutarsi di svolgere una specifica mansione perché va contro quelle che sono le logiche della libera impresa, mentre con uno sciopero viene tutelato. Noi vogliamo fare in modo che ogni lavoratore sia libero di decidere se vuole o meno caricare le armi, che non è una cosa incisiva come può essere uno sciopero ma è un’altra arma da utilizzare contro quelle che sono le logiche bellicistiche. Fino a oggi o c’è una proclamazione di sciopero, o ti smarchi dai turni (per quanto riguarda i portuali). Ma il lavoratore di una fabbrica o di una industria riconvertita in armamenti che prima faceva lavatrici e oggi fa proiettili e non vuole produrre roba che uccide in questo modo ha uno strumento in più.

 


S.S.: Vorrei approfondire il ragionamento intorno all’applicabilità dell’Articolo 11 della Costituzione e della legge 185/90 negli ambienti di lavoro. Una delle prime cose che mi ha colpito quando abbiamo iniziato questo dialogo è stato il fatto di dire ok, ci sono vari modi più o meno legali di affrontare la cosa, più o meno delegati alle responsabilità del singolo. Voi sin dall’inizio vi siete mossi all’interno della legalità, lo permetteva anche il posizionamento dei portuali al centro di nodi strategici fondamentali, ma questo non vi ha evitato una accusa di associazione a delinquere e un susseguirsi di problemi legali. Secondo te è possibile applicare questo tipo di ragionamento fuori dall’ambito portuale? Penso alle università che hanno contratti e appalti con gruppi come Leonardo, e alle fabbriche che come dici tu riconvertono (in Italia ma non solo, vedi la Volkswagen in Germania).

 

Dal mio punto di vista qualunque abitante dell’Italia in quanto Stato è obbligato a rispettare la Costituzione e la legge. Se vado al lavoro e vedo armamenti che transitano verso paesi che usano come risoluzione la guerra, visto che ci sono i sopracitati Articolo 11 e legge 185/90, come mi devo comportare, a chi mi devo riferire?

 


S.S.: Mettiamo caso che io sia il cittadino modello, vado al lavoro e ho davanti la carta d’imbarco con scritto: porto di Ashod, Israele e due containers di missili, che si fa? Devo chiamare i Carabinieri?

 

J.N.: In teoria sì, ma in pratica non funziona così. Egualmente, se la mia fabbrica produce e vende armi a Israele, o la mia università collabora direttamente con Israele che è considerato «uno stato aggressore» per quelle che sono le leggi internazionali, io come mi devo comportare? In primis sono un cittadino e poi un lavoratore, il fatto che la mia azienda o università lavora con Israele non mi mette super partes alla legge. C’è tutta una serie di buchi normativi che andrebbero colmati. Pensa al caso di Michele Lancione, il ricercatore del Politecnico di Torino che collabora con Frontex, fino a dove si può spingere perché non accadano i licenziamenti? Perché se è come pensiamo noi si tratta di un’arma non da poco. Credo che anche l’utilizzo dello sciopero sia applicabile a fabbriche, università e scuole, esempi ce ne sono.


 

S.S.: Al di là del tempo lungo, mi sembra che in questo processo di costruzione ci siano due forze che procedono in senso opposto: da un lato c’è l’Europa delle istituzioni, che risponde alla tragedia di Gaza con proclami velleitari sulla «soluzione a due stati» e allo scenario ucraino con una corsa ai riarmi, totalmente fuori tempo anche perché nel momento in cui si riuscisse veramente a formulare un «esercito europeo» (cosa che non vedo plausibile) la fotografia del presente sarebbe cambiata. Dall’altro lato ci sono azioni come quella che avete messo in piedi voi, atte a costruire qualcosa che va oltre la comunicazione, puntando sulla comunione d’intenti e sul senso di comunità. Forse quella è la cosa più vicina all’Europa per come la immagino io, perché è l’Europa dei popoli che si muovono e non l’Unione delle merci. Quello che state facendo voi è una riattualizzazione, in termini di solidarietà sociale, di un adagio che con i movimenti operari ha molto a che fare: lavoratori di tutto il mondo unitevi. L’internazionalismo.

 

J.N.: Dal punto di vista delle istituzioni credo che il problema sia una questione di interessi, motivo per cui hanno tante difficoltà ad attuare nel pratico questi programmi, a meno che non vi siano delle forzature, delle esigenze di nemico interno o esterno. Si tratta della tattica che utilizzano ad esempio gli USA, quando dicono «mi hanno attaccato» e creano un nemico che poi produce il sentimento innestato del patriottismo. Il problema dell’Unione Europea è quello che è stato scritto sulla carta, si tratta di una alleanza economica nella quale i vari stati fanno finta che ci sia un unico polo politico, quando poi di fatto non c’è. Dico questo perché tu italiano ti fideresti di avere aerei prodotti in Francia che poi devi pilotare? Oppure tu francese, che sei l’unico che ha il deterrente nucleare, ti fideresti a dare i codici di attivazione agli spagnoli o al Portogallo che ha un partito comunista al potere? Tutta una serie di proposte secondo me sono più che altro propaganda, nei fatti non sono tanto applicabili davvero, ad oggi, e quello crea dei forti limiti. Io sono contro l’Unione Europea attuale, non contro l’Unione Europea dei popoli, sono proprio concetti diversi: la prima si basa su un interesse economico, il mio è un interesse di integrazione. Se io voglio andare a lavorare in Germania devo poterci andare con tranquillità, con gli stessi diritti, mentre invece per tutta una serie di logiche economiche creano una sorta di proletariato interno. Prendi la questione degli stipendi: un portuale tedesco guadagna 5.500-6.000 euro al mese, l’italiano 2.000 quando fa il massimo dei turni. C’è tutta una serie di cose che tendono a far sì che l’Unione Europea non sia una unione dei popoli ma del mercato.

 


S.S.: Questi conflitti sembrano aver acceso l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi a monte, le logiche sottese all’economia di guerra.

 

J.N.: In un altro scenario, molto probabilmente con i tedeschi non saremmo mai riusciti a fare un ragionamento del genere. Lo dico perché mi è capitato di andarci nel 2019, in tempi non sospetti, per discutere rispetto all’impoverimento che stanno cominciando a vivere anche loro. Prendi la Volkswagen, che sta andando verso una riconversione militaristica, è un segno. Come faccio a mantenere un’economia in una situazione di guerra ormai totale? Converto tutto per garantire soprattutto gli introiti economici. Se tu guardi il mercato delle automotive è completamente in calo, mentre il mercato delle armi è totalmente in salita. Nel 2019, quando facevamo questo ragionamento, i tedeschi ci prendevano un po’ per degli stupidotti. Oggi il fatto che la Germania è uno dei paesi in prima linea contro Trump e la Russia, che appoggia contemporaneamente sia Israele che l’Ucraina, che vuole il riarmo, unito alla questione dell’impoverimento ha innescato nella testa degli operai il ragionamento che gli facevamo già qualche anno fa.  È un processo complicato e ci vogliono dei tempi oggettivi per capire quello che sta accadendo, è un po’ come quello che è successo a noi: quando abbiamo iniziato questo percorso ci prendevano per matti, però oggi l’antimilitarismo è uno degli argomenti all’attenzione di tutti. Quello è il tempo che intendo: il tempo di coltivare la sensibilità di ognuno di noi. L’importante è che ci arriviamo insieme e andiamo avanti insieme. Quella comunità europea rappresentata da lobby militariste ed economiche, finché non supera il gradino del guadagno, non va avanti.

 


S.S.: Credo che non sarà un processo breve.

 

J.N.: Chi è che ha partecipato alla parata del 9 maggio in Russia per l’ottantesimo Anniversario della Liberazione dal nazifascismo? Quei popoli che fino a 5 anni fa subivano le angherie dell’Unione Europea, tra cui il Burkina Faso, al cui comando c’è Ibrahim Traoré, questo ragazzo di 37 anni che ha congedato l’esercito francese, rinazionalizzato le miniere di carbone e oro, pareggiato gli stipendi, abbassato quello dei politici e alzato le pensioni, applicato tutta una serie di politiche che ha fatto la Russia da 15 anni a questa parte. Da cittadino vorrei una cosa del genere. Poi, sul fatto che Putin rappresenti delle lobby di interesse economico e quindi se fossi in Russia sarebbe mio nemico, sono d’accordo. Secondo me l’Europa arriverà ad avere un esercito europeo ma per combattere all’interno il nemico, utilizzeranno quell’esercito contro di noi. Quanto resisteremo a questo tipo di impoverimento? Quanto possiamo sopportare veramente questo tipo di politiche di fascistizzazione continua nell’ambito delle proteste, degli scioperi e del lavoro? Quanto tempo? Il decreto DDL 1660 non a caso arriva in questo momento: è un’arma per far sì che uno che vuole riballarsi allo stato delle cose ci rifletta sei o sette volte. Mi viene quindi da pensare che sia il tentativo di evitare una guerra interna. È in questa chiave che vedo il riarmo europeo, anche perché credo che la Russia se vuole, con gli alleati che ha, ci spiana in una settimana o due.


 

S.S.: Essendo forze che si muovono per interesse e non esiste ancora un organismo centrale che limita davvero l’autonomia operativa dei vari governi nazionali, siamo sicuri che questa macchina funzionerebbe davvero nel momento in cui fossero toccati gli stati membri cosiddetti più fragili (un po’ come era successo alla Grecia durante la crisi economica, smembrata dagli interessi delle banche tedesche)? L’Italia da un lato è legata a doppio filo all’Unione Europea, anche fondativamente (pensa a De Gasperi, Adenauer e Shuman), dall’altro c’è un punto: dalla Seconda guerra mondiale siamo diventati una colonia USA e se facciamo un ragionamento sull’imperialismo, basta vedere la sproporzione di basi statunitensi, oltre 642, nel mondo rispetto ad esempio alla Cina, che ha una sola base fuori dai propri confini, a Gibuti. E in Italia ce ne sono tantissime.

 

J.N.: non sbaglio siamo a 120.

 


S.S.: Mi viene difficile pensare che vogliano o possano andarsene, nonostante lo spauracchio trumpiano del disimpegno. Ci sono operazioni ormai storiche ampiamente dibattute, Stay Behind, Gladio, e fa riflettere quanto le mitologie surrogate che vengono costruite intorno a questi episodi rendano fittizie anche le verità comprovate dalle carte. Perché si parla di questi momenti storici quasi sempre con un mezzo sorriso, senza crederci fino in fondo. Secondo te, politicamente e culturalmente, siamo ancora uno stato satellite degli USA?

 

J.N.: Posso partire dal farti vedere un libricino che ho letto recentemente? Si intitola Una storia di lotte, la storia delle FSM dal 1945 al 2013. L’FSM è il nostro sindacato di riferimento a livello internazionale, al quale aderiva la CGL (senza la i) quando c’era De Vittorio. In questo libretto si racconta tutta una serie di passaggi dalla fine della Seconda guerra mondiale al 2013, quando si reinnseca un meccanismo positivo in chiave diciamo comunista. Oggi vediamo CGIL (con la i), CISL e UIL e diciamo «ok, son sempre esistiti». Invece no, sono state operazioni politiche: la CISL per quanto riguarda la Democrazia Cristiana, la UIL nata dal soldo della CIA, ok? Se io dico una cosa de genere a un lavoratore, come dicevi tu prima si mette a ridere: «Sì vabbè, la CIA». E invece no, è stata proprio una operazione politica avvenuta in chiave anticomunista. Poi qui ci sono anche i vari interventi di Berlinguer rispetto a quando disse che si sentiva più tranquillo da questa parte del muro. Praticamente chi rappresentava i comunisti in Italia andava sostanzialmente contro l’Unione Sovietica e ha creato di fatto il sindacato come lo conosciamo oggi, quello confederale e concertativo – confederale perché bisogna stare all’interno delle camere di potere e assicurarsi il dialogo con chi il potere lo detiene, e concertativo per i lavoratori. Il punto è proprio come si è materializzato il sindacalismo (parto da questo tema perché mi è più vicino): sono state operazioni più o meno sovvenzionate da una parte da DC e CIA, e dall’altra dalla CIA direttamente per quanto riguarda la UIL, per far sì che all’interno dell’Italia non ci fosse il problema del comunismo, sostanzialmente. Quindi torniamo al fatto di avere 120 basi militari in Italia, tra cui una delle più grandi fuori dai confini statunitensi, Camp Derby, a un’ora e mezza di macchina da qua.


 

S.S.: Un domino di vicende dai contorni urticanti che hanno avuto gravi implicazioni per la sicurezza nazionale e minato la fiducia nei servizi di sicurezza.

 

J.N.: Questo avviene perché secondo una logica credo folle si cerca di avere rapporti di fiducia con lo Stato, ma anche con gli Stati Uniti e Israele, non a caso se guardi gli ultimi articoli di omicidi molto particolari che sono avvenuti in giro per il mondo ce ne sono due che dicono che l’Italia è un crocevia di spie e anche di terroristi: l’episodio del Lago di Como e quello che è successo la scorsa estate in Sicilia, il naufragio dello yacht dove è morto il numero uno al mondo delle telecomunicazioni, legato alla Russia. C’è tutto un movimento in Italia, che è crocevia di interessi esteri da sempre. È molto improbabile quindi che l’Italia abbia una sorta di autonomia politica ma anche industriale, nel momento in cui appunto hai tutta una serie di esempi storici dell’intervento degli Stati Uniti e in una seconda fase degli israeliani, determinante per quelle che sono state le politiche italiane.


 

S.S.: Momenti in cui realtà e finzione sembrano mescolarsi in modo inestricabile, tra ipotesi di complotto e racconto popolare.

 

J.N.: Bravissimo, e mi fa ridere sentire parlare il PD o Forza Italia di sovranità nazionale, quando sono proprio due elementi che garantiscono che in Italia non vi sia sovranità politica, perché sono nati e continuano a vivere grazie al sostegno economico e politico degli Stati Uniti da una parte e oggi dall’altra di Israele.

 


S.S.: Come si pone fine al reame del verosimile?

 

J.N.: Il fatto è che non basta cambiare l’approccio mentale della gente sulle questioni civili per far sì che la politica in Italia cambi. Diventa molto complesso attuare una rivoluzione in Italia, considerando che c’è una presenza militare costante americana e dei servizi di sicurezza israeliani. Questo ragionamento andava bene tra il ’45 e il ’70. Dalla caduta del muro di Berlino, con morte di certi personaggi storici che hanno mantenuto viva la coscienza di classe, è diventata una questione di cosa vogliamo noi da questo paese. Sarei anche disposto ad alzare il livello, però per chi? Per chi sta bene in questa condizione economica e sociale? Diventa molto complesso, tanto complesso.


 

S.S.: Fatico a risponderti. Ogni gesto conta. Fare dell’azione diretta uno strumento politico porta a trovarsi sempre in prima linea, prima di tutto con il proprio corpo, un rischio a cui non vi siete mai sottratti. All’inizio, mentre raccontavi della seconda marcia nel porto di Genova, hai parlato non a caso di chiamata cittadina: credo che in questo momento sia oltremodo importante il potere propulsivo dell’organizzazione collettiva, dal basso, senza mediazione. Con tutto l’amore che abbiamo dentro, con tutto l’odio che abbiamo davanti.


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Stefano Serretta (Genova, 1987) è un artista figurativo. Dopo la laurea in Storia Moderna e Contemporanea - dalla quale nasce la sua predisposizione per l’analisi dei fatti storici e per la ricerca dei linguaggi, dei codici e dei simboli delle ideologie - si è specializzato in Arti Visive e Studi Curatoriali presso NABA Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, dove attualmente è docente nel corso di Public Art. Il suo lavoro è sempre supportato da un rigoroso quadro storico e analitico, che mira ad evidenziare le fragili basi autocelebrative del capitalismo globalizzato e la macchina comunicativa che lo regola, di cui l’uomo è al tempo stesso protagonista e vittima. Con uno sguardo indagatore ne evidenzia le contraddizioni e la schizofrenia, aspetti caratteristici del nostro presente post-ideologico. Ha esposto in numerose istituzioni pubbliche e gallerie private tra le quali C+N Gallery Canepaneri (Milano, 2025), SPAZIOC21 (Reggio Emilia, 2025), Talyer 15 (Manila, 2024), Villa Arson (Nizza, 2022), la Galleria Laveronica (Modica, 2021) il Museu de Aveiro / Santa Joana (Aveiro, 2020), il MAMbo (Bologna, 2018), La Triennale di Milano (Milano, 2017) e la Galerie Papillon (Parigi, 2016). Vive e lavora a Milano.


José Nivoi, portuale e sindacalista, attivista del Calp e membro dell'equipaggio salpato da Genova e diretto in Palestina.



 

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Rolling down neon tracks, Slope 2 challenges players to control a ball, dodge obstacles, and survive increasing speed.

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Stickman Hook is a fast-paced physics platformer where momentum becomes a true test of skill. Built for players who love precision and timing, it transforms simple swings into thrilling chains of trampoline flips, elastic rebounds, and wall resets.

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