Questo testo, tratto da: Franco Milanesi, Militanti. Un’antropologia politica del Novecento, Edizioni Punto Rosso, Milano 2010, si coniuga a testi precedentemente pubblicati in occasione dell’inaugurazione della rivista, lo scorso settembre, sul tema «rivolta e rivoluzione»: Benedetto Vecchi, Una rivolta senza rivoluzione; Serge Quadruppani, L’incendio rivoluzionario contro la carbonizzazione del pianeta. (La seconda onda mondiale delle sollevazioni e ciò che essa combatte); Mimmo Sersante, Il tempo della rivolta.
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Il flusso della ribellione, le mete della rivoluzione
Il «fare» della militanza non è il passaggio all’atto di una teoria (come se ne fosse l’«applicazione») ma è la sua trasfigurazione nell’agire di un soggetto che si impegna per sovrapporre ideale e pratica politica. Questo nesso sconvolge alcune della categorie del politico, evidenziando i margini angusti di un linguaggio che transita quasi immutato dal XV al XX secolo. Osservate dall’angolazione del soggetto politico militante (fenomeno tipicamente novecentesco) alcuni concetti come rivolta, potere, ideologia – mostrano una slabbratura dei margini che obbliga ad un ripensamento che li adegui alla specificità del tempo della politica totale.
Questa critica alla tradizione concettuale occidentale è necessaria se si vogliono comprendere a fondo i due termini che hanno storicamente turbato e scosso la presenza borghese: rivolta e rivoluzione. La teoresi si è affannata attorno ad essi distinguendoli, unificandoli, contrapponendoli e soprattutto prendendo parte per l’uno o per l’altro. Ricostruire alcune curvature di questo percorso (così tipicamente novecentesco) serve a far chiarezza attorno al nucleo significativo della militanza. Contrapposizioni
Karl Marx dedicò molte pagine della sua Ideologia tedesca a demolire le teorie di «san Sancio», alias Max Stirner. In esse si trova anche una precisa critica alla rivolta, contrapposta, su diversi piani, alla rivoluzione. «Il malcontento di se stesso è o il malcontento di se stesso nell’ambito di un certo stato di cose, dal quale è condizionata l’intera personalità, per esempio il malcontento di sé come operaio, oppure il malcontento morale. Nel primo caso, dunque, si tratta in pari tempo e principalmente di malcontento per la situazione esistente; nel secondo si tratta di un’espressione ideologica di questa situazione, che non la oltrepassa affatto e anzi ci rientra in tutto e per tutto. Il primo caso conduce, come crede san Sancio, alla rivoluzione; per la rivolta resta dunque soltanto il secondo caso, il malcontento morale di se stessi» [1]. Con queste parole la critica di Marx centrava il bersaglio grosso dell’idealismo e delle sue numerose trasfigurazioni, tracciando contestualmente una precisa distinzione tra rivolta e rivoluzione. La prima sarebbe di ordine morale, individualistico, ideale. La seconda apparterrebbe alla storia, cioè alla materialità e alla concretezza di una situazione («un certo stato di cose») secondo l’assunto che «non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza» [2]. Marx aveva ben compreso che la «rivolta morale contro il mondo» non può che essere il velleitario prodotto di un’«anima bella», imbozzolata nella propria superiorità morale, indifferente alla «situazione generale» cioè alla condizione effettiva delle masse. Ma le successive differenziazioni tra rivolta e rivoluzione avrebbero dovuto muovere non tanto da una critica al socialismo utopistico e all’anarchismo, quanto dall’osservazione della concretezza materiale dei movimenti antagonisti ottocenteschi, affatto esuberanti rispetto alla nettezza di questa divisione. Infatti, se la rivolta e la rivoluzione sono effettivamente distinte (l’una raccolta nel qui ed ora, l’altra finalizzata al raggiungimento di una meta di alterità), proprio la militanza politica evidenzia un continuo sconfinamento, un’oscillazione, mettendo in campo pratiche che non erano come tali rivolte o rivoluzioni ma innanzi tutto insubordinazioni al comando borghese.
La teoria politica successiva insisteva su una differenza tanto precisa nell’orcio idearum quanto incerta nell’ordo rerum.
«La radicalità essenziale del processo rivoluzionario distingue quindi, e distinguerà sempre più, realtà e concetto di rivoluzione da una serie di altri concetti che impropriamente al primo vengono avvicinati (…) Né il concetto di rivoluzione ha qualcosa a che fare con quello di rivolta sia essa rivolta di massa o rivolta di palazzo: in entrambi i casi manca quella caratteristica di radicalità sociale, ma nello stesso tempo di continuità ed estensione che è invece essenziale al concetto di rivoluzione. La rivolta, soprattutto quella delle masse, può al massimo rappresentare un innesco del processo rivoluzionario (...) In un processo moderno di integrazione socio-statuale la ribellione può addirittura valere come momento di rivelazione dei momenti critici dello sviluppo ed essere talora a tale scopo sollecitata da gruppi riformistici» [3].
Negri descriveva (non a caso all’inizio della fase discendente del ’68 italiano) una ribellione che rischia di trasformarsi in spinta di modernizzazione della stessa società plasmata dal capitalismo, perdendo tutte le qualità autenticamente insurrezionali. Quando i militanti si ribellano chiedendo riforme si allontana la meta rivoluzionaria e, alla fine, si rafforzano le borghesie «oliando» il meccanismo di riproduzione sociale in atto. Certo, con qualche scossa, che risulta però non solo compatibile ma salutare al sistema.
Analogamente si può affermare la necessità di «passare dalla rivolta alla rivoluzione (…). La rivolta è una protesta contro lo stato delle cose, può essere fatta in nome del socialismo, può essere fatta in nome del fascismo (…) passare dalla rivolta alla rivoluzione: cioè passare al comunismo, perché la rivoluzione o è comunista o è controrivoluzione» [4]. Questa sottolineatura della direzione ideologica è certo importante ma riguarda anche la rivolta. Se è innegabile che vi furono sollevazioni fasciste, esse sono difficilmente definibili come rivolte perché la loro qualità reazionaria e restaurativa le caratterizza come «retroversioni» verso una condizione di antico dominio. Non spinte libertarie, collettive, desideranti (anche se non finalizzate all’instaurazione rivoluzionaria di un diverso sistema) ma volontà di ricollocare una élite pre-borghese al comando della «massa». Se la rivoluzione è solo comunista, la rivolta è solo quella contingente contro la sostanza classista, ineguale, ingiusta su cui la borghesia edifica la vita. «Tutta la pratica sociale è un antagonismo incessante tra l’assoggettamento della pratica alle forme definitorie, feticizzate, perverse del capitalismo e l’intento di vivere contro-e-oltre queste forme» [5]. Fissato dunque il carattere antiborghese delle rivolte come della rivoluzione, lo sguardo storico istituisce una progressività dalle rivolte alle mete rivoluzionarie.
«Dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla prima metà del Novecento si era consumata l’intera traiettoria da “ribelli a militanti”, dalle forme primitive iniziali (associazioni artigiane, luddismo, radicalismo, giacobinismo e socialismo utopistico) si era transitati senza soluzione di continuità verso le forme più compiutamente moderne di mobilitazione politica (movimento operaio, sindacati organizzazioni cooperativistiche, partiti di massa...). Al ribelle che si era presentato sulla soglia dell’età moderna, i cui orizzonti erano racchiusi in un mondo tradizionale e le cui aspettative si limitavano ad auspicare che gli uomini fossero tratti secondo giustizia, nei decenni successivi alla rivoluzione francese si sostituì il militante-cittadino che aveva già esperienza diretta dello Stato, delle differenze di classe, dello sfruttamento ed era in grado di esprimere le proprie ideologie “in termini di razionalismo laico invece che in quelli tradizionali della religione”. Dalla scintilla iniziale di una ribellione che scaturiva essenzialmente dalla voglia di vendicarsi di un torto subito secondo aspettative e sentimenti condivisi dalla comunità locale di appartenenza, si era passati a una scintilla che innescava un tipo di militanza alimentato dalla speranza di costruire un mondo nuovo, un uomo nuovo, una società buona e perfetta, così potente da segnare con i suoi ideali anche coloro che si erano rassegnati all’impossibilità di trasformare il mondo o la natura umana. Insieme a quella figura di militante affiorano progetti che trascendevano le sorti di singoli individui e si riferivano a nuove architetture sociali in cui la vecchia classe dominante doveva essere scalzata dalle sue posizioni, la terra redistribuita, i mezzi di produzione nazionalizzati, e tutto questo grazie all’iniziativa diretta e attivistica dei rivoluzionari. Quanto ai modelli esistenziali, il Robin Hood degli inizi (rubare ai ricchi per dare ai poveri) aveva lasciato il posto al rivoluzionario che pianifica la sua strategia, che non si accontenta di ridistribuire le ricchezze e appiattire le disuguaglianze, ma vuole un radicale capovolgimento sociale» [6]. Con precisione è qui tracciata la transizione dal ribellismo alla militanza politica, come passaggio dallo spontaneismo all’organizzazione, dall’ira e dalla rabbia alla razionalità del progetto ideologicamente e strategicamente orientato. Non solo ribellarsi e attaccare il Sistema, ma capovolgerlo, imporre un «ordine nuovo» ed elaborare i programmi per la realizzazione di un’Alternativa come potere (politica) effettiva. Ma si può ripercorrere questa vicenda di insubordinazione e di volontà di nuova storia da una diversa prospettiva che non sia illuminata dalla fine (e dal fine), cioè dall’esito rivoluzionario, ma della contingenza dell’atto ribelle agito dalla soggettività militante. Questo differente sguardo – ripetiamo, quello della singola soggettività impegnata nel conflitto antagonista – illustra condizioni di massima prossimità tra ribellione e rivoluzione, pur conservandone un margine di separazione.
Contingenza e fini
La riflessione storica e quella filosofica hanno spesso «condannato» le rivoluzioni, muovendo da un giudizio sul loro esito e sulla distonia tra intenzione, programma, realtà effettiva. Ben prima di Rosa Luxemburg, Georges Sorel poneva il problema di una degenerazione implicita a ogni potere rivoluzionario consolidato: «l’esperienza finora ci ha sempre mostrato che i nostri rivoluzionari, non appena hanno raggiunto il potere, si regolano secondo la ragion di Stato; impiegano allora i metodi della polizia, e considerano la giustizia come un’arma di cui possono abusare contro i loro nemici» [7]. Il potere che sorge dalla rivoluzione, cristallizzando la dinamica, si esibisce come punto concentrato di forza. Dunque dovrebbe esporsi al massimo della responsabilità (e della critica). È certo una semplificazione affermare che l’etica della responsabilità si connette al potere come quella della convinzione alla potenza. Ma diciamo che ognuna delle due forze si approssima maggiormente all’una o all’altra radice etica. La convinzione sospinge il flusso modificativo della potenza militante. La responsabilità appartiene a chi concentra il potere sul governo del presente. Questi interrogativi («cosa accade alla rivoluzione quando da potenza si fa potere?») assumono infatti un diverso tono se riferiti alla ribellione. Per il soggetto militante, all’origine, la ribellione attiene a un bisogno, è «divenire rivoluzionario» del tutto contingente che non può porsi il problema del dopo. La rivoluzione-rivolta è percepita come l’unica opzione possibile per la modificazione dello stato di cose presenti: «non c’è un dopo nella rivolta, c’è soltanto un prima» [8]. È questo prima, cioè l’insostenibilità di uno condizione presente del rapporto sociale tra gli uomini, che rappresenta la più profonda vocatio della politica militante: una «chiamata» al fare, al non lasciare «le cose come stanno» È questo l’appello all’impegno trasformativo, al prender parte al fine di modificare il presente. In un certo senso, in questo aurorale moto della soggettività, il ribelle e il rivoluzionario si identificano: nello sdegno, nel rifiuto, nella volontà di cambiamento. Certo, «il motto del Ribelle è: «Hic et nunc» – essendo il Ribelle uomo d’azione, azione libera e indipendente» [9] mentre la rivoluzione è un atto con un fine, è un’ipoteca sul futuro, una teleologia. E si può anche affermare che essa è più radicale, se con ciò si intende la definizione e la spinta alla realizzazione di una realtà totalmente altra. Si può riconoscere infatti che le prime ribellioni non sono state rivoluzionarie perché mancava loro una finalità, definita e perseguita razionalmente, di alternativa sistemica e quindi il pensiero di un potenziamento organizzativo. Come si deve riconoscere che vi sono ribellioni che non contemplano, come non può non fare il rivoluzionario, il coinvolgimento di massa, di popolo, (non a caso abbiamo scelto Ernst Jünger a dare voce a una ribellione come istanza di liberazione innanzi tutto individuale). Ancora, il rivoluzionario può criticare il moto di ribellione se lo ritiene ancora inefficace al raggiungimento del «fine ultimo», cioè al mutamento definitivo dei rapporti di potere. Il ribelle rigetta questo tipo di interrogativo e concentra l’azione nella contingenza, affrontando «passo a passo» i momenti di lotta. Ma la militanza novecentesca si è svolta spesso come ribellione sostanziata da volontà rivoluzionaria, come «precisione» nel circoscrivere un fronte di lotta (quella casa da occupare, quel diritto da difendere, quella vertenza di lavoro) costantemente proiettato nel senso ulteriore di un’alterità possibile.
Dunque, fatte salve le differenze tra i due «modi» dell’antagonismo antiborghese, si vuole rimarcare che il militante novecentesco ha espresso un’incessante oscillazione tra rivolta e rivoluzione. Una ribellione spontanea, immediata, ma intrisa di idealità; una fretta di risposta al potere del capitale che si sostanzia di teoresi; uno sdegno che sorge comunque dal sé collocato di fronte a un evento storico e subito si interroga sulla condivisione e diffusione di analoghi sentimenti e ragioni; un’espressione di potenza che non rifiuta il potere, ma ne fa pratica (e spesso critica) puntuale. La militanza è stata un incessante processo rivoluzionario che muove dalla contingenza e dalla ribellione. In tal senso, ripetiamo, la contrapposizione netta riforme/rivoluzione – che ha impantanato il movimento ribelle in una diatriba reiterata e indefinita – perde ogni rilevanza. «Il contropotere non è né rivoluzionario né riformista. La sua radicalità politica è un’altra cosa. I rivoluzionari credono che siano necessari grandi cambiamenti per raggiungere gli obiettivi, i riformisti pensano che bastino piccole trasformazioni. Pensiamo che l’obiettivo entri in gioco in ogni divenire rivoluzionario, ma che non esista di per sé. Noi diciamo: siamo sempre già impegnati [10]. Un’affermazione che trova una conferma (una, tra tante) nella vita dei militanti comunisti nel secondo dopoguerra, quando la «spinta propulsiva» dell’ottobre rivoluzionario era ancora simbolicamente potente e, al tempo stesso, il presente esigeva una pratica di riforma, anche «minima» sulla cose. Ricorda Lucio Magri che vi era:
«un’unità di fondo che, al di là di dissidi passati o di quelli in gestazione su alcuni punti, era sufficiente a definire un’identità, mobilitare grandi speranze in grandi masse. Non c’era socialista, per quanto riformista e gradualista, che non credesse alla necessità e alla possibilità di superamento del sistema capitalistico come obiettivo finale del suo impegno. Non c’era socialista, per quanto rivoluzionario e impaziente, che negasse l’importanza di battaglie parziali come strumenti per migliorare, se vincenti, le condizioni di vita dei lavoratori, o almeno, se sconfitte, ma ben combattute, per acquistare un grado più elevato di consenso e di mobilitazione alla propria causa» [11].
La soggettività traduce in movimento la comprensione di una distonia, il desiderio di una possibilità «altra», di una superiore razionalità non solo del dato ma del tempo per cui il «contro chi» del divenire ribelle è già sempre un «per cosa». Infine, cioè al termine della rivoluzione, quando essa istituzionalizza l’antagonismo in una «stato» effettivo, il moto ribelle può riafferrare il rivoluzionario, quando le pretese di una trasformazione totale si trasformano in pratica totalitaria, quando la liberazione dell’uomo da parte dell’uomo si immobilizza nella sclerosi burocratica, nelle miserie del personalismo, nelle ossessioni persecutorie. Si tratta allora di tornare a riaffermare, come insegnano i «grandi» ribelli-rivoluzionari come Victor Serge il «rispetto socialista della vita umana e del diritto dell’individuo, chiunque sia» [12]. Ciò che ha mosso il Novecento, non è dunque la presunta «purezza» del movimento o, all’opposto, il prevalere delle strutturazioni politiche «forti» (Stati, partiti, ideologie): è stata la tensione tutta politica tra flusso e condensazione, tra stato d’eccezione (la condizione «naturale» in cui si muove l’antagonismo di sistema) e istituzione di forme. È sempre il «nostro» luogo di osservazione, il militante, che evidenzia come mete rivoluzionarie e attività ribelle siano il più delle volte transitate nella stessa soggettività, trovando delicati punti di equilibrio, sintesi mirabili, alle volte dolorosi compromessi «con sé» In molti casi conducendo il soggetto verso acutissime tensioni. Questo dice il secolo della militanza e queste sono le qualità che troviamo proiettata dal soggetto alla politica (e non viceversa). Le retoriche del romanticismo politico (spesso condiviso dalla stessa sinistra) hanno «condannato» il rivoluzionario e rappresentato il ribelle secondo le fattezze della fatalità crudele, del perdente glorioso o del martire (scene della sacralizzazione ottocentesca dell’individualità). Sono questi residui borghesi che hanno mascherato la tensione dialettica – e la consustanzialità tra ribelli e rivoluzionari. La militanza racconta infatti tanto il desiderio di lotta quanto la volontà organizzativa, lo sforzo di raccogliere le forze, il recupero della coscienza e dell’identità di classe, la precisazione degli obiettivi rivoluzionari. La rivolta agita dai militanti è stata movimento puro, divenire, scuotimento della datità e si può affermare che il fondamento ontologico della militanza sia il divenire-puro-contro. «Se non siamo ancora, allora il nostro non-essere-ancora esiste già come progetto, come straripamento, come impulso verso l’oltre (…). Il non-ancora è un impulso costante contro la realtà identificata. La rivolta del principio di piacere represso contro il principio di realtà. Il non ancora è la lotta per decongestionare il tempo, per emancipare il poter-fare».
L’opposizione è netta: «Il capitale è il movimento del separare, del feticizzare, il movimento del negare il movimento. La rivoluzione è il movimento contro la separazione, contro la feticizzazione, contro la negazione del movimento» [13].
Note
Karl Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 366.
Ibidem, p. 13.
Toni Negri, Rivoluzione, in Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Scienze Politiche 1 (Stato e politica), Feltrinelli, Milano 1970, p. 426.
Edoardo Sanguineti, Comunismo, in Abecedario, DeriveApprodi, Roma 2006.
John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, Intra Moenia, Napoli 204, p. 193.
Giovanni De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 220.
Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza, in Id., Scritti politici, UTET, Torino 1996, p. 201.
Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 35.
Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano 1990, p. 93.
MiguelBenasayag, Contro il niente. Abc dell’impegno. Feltrinelli, Milano 2005, p. 47.
Lucio Magri, Il sarto di Ulm, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 31-32.
Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, Edizioni e/o, Roma 2001, p. 188.
John Holloway, Cambiare il mondo senza prendere il potere, cit., pp. 205, 283.
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