Proseguiamo con gli interventi sul tema della «crisi della militanza» pubblicando un testo di Benedetto Vecchi estratto dal ciclo seminariale di Commonware Stili della militanza, realizzato a Piazza Verdi a Bologna nel maggio 2013.
Il 7 gennaio 2021 nella sezione «scavi» sarà disponibile un Pdf scaricabile gratuitamente dedicato a Benedetto Vecchi, dal titolo Benedetto Vecchi. Un intellettuale dai piedi scalzi. Una guardia rossa con le scarpe da tennis.
Un argomento ostico, quello sullo stile della militanza. Anche se condivido la vostra proposta di declinarlo al plurale. È infatti meglio parlare di stili della militanza. Perché dobbiamo partire dall’eclissi della figura del militante. Una figura nobile, che ha il suo esordio nelle strade parigine, in quella rivoluzione che ha scandito, politicamente, per sottrazione o per evidenziarne i limiti, la modernità capitalistica. È lì che vengono dichiarate le possibili virtù e le insidie che aspettano il militante. È un uomo, più recentemente una donna, che compie una scelta di vita, che ha il valore di uno spartiacque tra un prima e un dopo. Giorgio Agamben, scrivendo di San Paolo, allude sempre al mutamento che la vita conosce. Paolo di Tarso lascia tutto alle spalle per diventare un militante della chiesa di Pietro. Non è questa la sede di un’analisi del testo agambeniano, che parla più del funzionario di partito che del militante, ma è importante sottolineare il passaggio, l’irreversibilità della scelta. In un bellissimo libro di Sergio Luzzatto (Il Terrore ricordato. Memoria e tradizione dell’esperienza rivoluzionaria), lo storico italiano raccoglie le memorie, i ricordi dei rivoluzionari francesi in fuga dalla restaurazione. Ne emergono due elementi: generalmente i militanti sono giovani. Quando la biologia segue il suo corso, il militante torna sempre al momento della scelta compiuta, spesso per riconfermala, per dichiarale fedeltà, anche se si è stati sconfitti. L’altro elemento è appunto la vita che cambia, ma dalle testimonianze di Luzzatto, e le tante che costellano le vicende storiche del movimento operaio o dei più recenti movimenti sociali, si impone il fatto che la militanza è una prassi conoscitiva. Il militante si inoltra in quella terra di nessuno che è la realtà, la esplora, ne traccia mappe che non coincidono con quelle dominanti.
Bene, questa figura del militante ha conosciuto il suo declino negli anni Settanta. Da allora è difficile parlare di stile della militanza – con le sue virtù: coerenza, solidarietà con i simili o con la classe, spirito di sacrificio. Da allora siamo entrati in un altro continente, dove si dà militanza, ma è come se fosse venuto meno il primo elemento: l’irreversibilità della scelta di vita. Il vivere in società è un mutante, che devia spesso dal corso del tempo. Non afferma coerenza, ma libertà di cambiare, di deviare dal cammino intrapreso, di ripensamento. Più prosaicamente non accetta quel rinvio al futuro. Viviamo ancora nel regno della necessità, ma non si attende messianicamente il regno della libertà. Si vuole tutto e subito. Ma questi sono elementi del passato, dirà qualcuno. Certo, ma questo cambiamento segna appunto gli stili della militanza, senza riuscire ad attivare quel circolo virtuoso tra scelta di vita, organizzazione politica e liberazione dal bisogno. Gli anni Ottanta sono stati descritti, giustamente, come gli anni caldi della controrivoluzione neoliberale. La sconfitta bruciava sulla pelle. Dalle carceri, dove molti dei militanti dell’assalto al cielo erano rinchiusi, giungevano testi, materiali teorici che invitavano a ripensare radicalmente tutto. Tralascio ciò che scrivevano alcuni militanti della lotta armata, quando rivendicavano le scelte del passato, riproponendelo per l’allora presente. Le loro parole mi apparivano come svuotate di senso. La distanza era abissale. Ero più sensibile verso chi chiedeva di confrontarsi con quanto nella società si muoveva, con quei cambiamenti che più tardi saranno chiamati antropologici, che vedevano comportamenti in bilico tra un’adesione acritica al nuovo regime di accumulazione che si stava delinenando e un rifiuto tanto radicale, quanto incapace di misurarsi politicamente con le trasformazioni del capitalismo. Era di aiuto, certo, la rilettura di Panzieri con il suo metodo che metteva al centro della prassi teorica l’agire concreto della classe, interpretando l’azione del capitale come meccanismo reattivo all’insubordinazione operaia e proletaria. Ma quel metodo nulla riusciva a dire su quanto invece si muoveva nella realtà.
Sia ben chiaro: nessuna lettura degli anni Ottanta può chiudere gli occhi sul fatto che non è stato un decennio solo luttuoso. Anzi, va segnalato il fatto che l’elaborazione del lutto della sconfitta è stata consegnata a una sfera privata. Un fattore che può essere giudicato negativamente, ma che invece si è rivelato, nel tempo, la condizione necessaria, ma certo non sufficiente, per riprendere il bandolo della matassa. Anche qui chiarezza: non voglio fare un elogio dell’assenza di memoria o di azzeramento del passato. Guardo soprattutto a un diverso rapporto tra la continuità e la indispensabile discontinuità rispetto gli anni Settanta. La frase migliore che sintetizza questa attitudine critica è ricavata da Walter Benjamin, autore che ha conosciuto proprio in quel decennio una vera renaissance: gli anni Settanta sono il futuro che abbiamo alle nostre spalle. Nel senso che vanno riprese le fila di temi e pratiche politiche che, sicuramente confusamente, si erano manifestate nell’assalto al cielo, che ha visto una generazione politica cadere al suolo senza nessun paracadute o materasso che poteva attutire lo schianto. Da questo punto di vista l’esperienza dei centri sociali va al di là della loro marginale consistenza politica. Per tutti gli anni Ottanta sono il porto che offre rifugio a chi è alla deriva. Luoghi di marginalità sociale e politica, viene scritto. In Italia ce ne sono pochi. Sono a Milano, Napoli, Firenze, Roma, Torino. I più creativi sono a Milano (Virus e poi Conchetta) e a Roma (Forte Prenestino). Non c’entra il Leoncavallo, che raccoglie l’ultima leva di militanti del Settantasette milanese. Hanno piuttosto fatto propria la parola d’ordine del punk sul No future ed è l’esperienza militante che nuovamente pone con forza la necessaria convergenza tra uno stile di vita non omologato e la militanza politica. Ha come punto di congiunzione tra passato e presente una figura intellettuale e politica rilevante in quegli anni. Mi riferisco a Primo Moroni, figura ruvida e altrettanto generosa, che guarda ai centri sociali come il punto di congiunzione tra una rivolta esistenziale e indisponibilità al nuovo regime di accumulazione. Nella bibliografia che ho dipanato pensando a questo incontro ci sono assenze imperdonabili, come il volume curato proprio da Moroni e da Sergio Bianchi che ha come titolo L’Orda d’oro. Ècerto un libro sugli anni Settanta, ma nell’introduzione i due curatori offrono coordinate per il presente. La più ricorrente è appunto la necessaria congiunzione tra stili di vita e militanza politica, tra scelte individuali e loro proiezione militante.
Questo aspetto tornerà con forza quando al termine degli anni Ottanta un centro sociale viene sgomberato. Qui il riferimento è proprio al Leoncavallo. Lo sgombero del Leoncavallo e la manifestazione che ne segue possono essere considerati la chiusura degli anni Ottanta. La risposta neoliberale alla crisi del capitalismo degli anni Settanta incontra diffuse pratiche di resistenza. Per uscire da una lettura provinciale, vanno segnalati altri due fatti che hanno un’eco mondiale. Il primo è la rivolta di Los Angeles, l’altro è la comparsa di movimenti sociali in America Latina e Asia. Il continente latinoamericano sta uscendo dalla feroce stagione delle dittature e dalla presa di congedo dal fochismo guevarista da parte dei movimenti sociali. Via campesina, i Sem terra prendono forma proprio in quegli anni. Anche qui assistiamo a una militanza che vuole «fare società», cioè sviluppare iniziative sociali e produttive che esemplifichino la distanza dal capitalismo, inteso non solo come regime di accumulazione, ma anche come forma di società, dunque di dispositivo politico che plasma quella che Etienne Balibar chiamerà, evocando un lessico spinoziano, il transindividuale. Ma torniamo ai centri sociali. Dopo il nuovo sgombero del Leoncavallo avvenuto nel 1994, le occupazione si moltiplicano. Due anni più tardi ne saranno censiti 121 in tutta Italia. Quella che sembrava un’esperienza marginale, residuo passivo degli anni Settanta rivela invece una sua capacità inaspettata di diventare il punto aggregatore di una nuova composizione sociale metropolitana. I centri sociali sono presentanti come «zone temporaneamente autonome». Sono gli anni durante i quali la riflessione sul postfordismo, sull’intelletto generale, o sull’intelligenza collettiva, sull’esodo, sulla precarietà come parola chiave politica escono da una dimensione recintata a piccoli gruppi intellettuali e si impongono come temi qualificanti una nuova prassi teorico-politica. I centri sociali sono individuati come «camere del lavoro e del non lavoro». Da qui emerge la messa a tema dell’organizzazione, del rapporto con il politico e con il sindacale. L’evocazione del soviet come forma organizzativa o del sindacalismo degli IWW non può tuttavia essere guardato come uno sguardo rivolto al passato, ma ad alcune caratteristiche che il soviet o l’esperienza degli Industrial Workers of World evocano. Da una parte il soviet è considerato come la costituzione di una sfera pubblica che infrange il monopolio della decisione politica esercitato dallo Stato. L’IWW contempla la figura centrale nell’hobo, il vagabondo che si sposta secondo le dinamiche del mercato del lavoro. L’hobo dunque come antenato prossimo del precario. La precarietà non come mancanza, come espressione di un lavoro dequalificato e manuale, ma come possibilità, come figura lavorativa pienamente aderente a una prestazione lavorativa che assegna alla cooperazione sociale produttiva l’innovazione. Questi sono temi aspramente discussi dentro la costellazione dei centri sociali che danno luogo a fratture e a tentativi di ricomposizione. La Carta di Milano e la prima grande frattura. Il nodo che non si riesce a sciogliere è il rapporto con il politico e la definizione di una forma organizzativa che dia continuità a una presenza militante alterna, erratica come sono le forme del lavoro contemporanee. Tematiche dell’alleanza e della coalizione: due parole che tornano in auge ogni volta che ci si confronta con l’impossibilità di pensare in termini tradizionali la ricomposizione del lavoro vivo.
Gli anni Novanta vengono chiusi da tre fattori tra loro interdipendenti: la crisi della borsa del 2000 ( va in crisi un processo di accumulazione capitalistica fondato sull’high-tech e sulle cosiddette dot.com); la rivolta di Seattle e la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti interstatali, ma anche la guerra come operazione di polizia internazionale e della gestione dell’ordine pubblico come guerra a bassa intensità. La crisi della borsa – amplificata mediaticamente dalla leggenda del millennium bug – rende evidente una forma di organizzazione che accetti la stratificazione del lavoro informatico, dell’high-tech, nonché della forte mobilità del lavoro vivo, unita al fatto che non è più rilevante la fabbrica o l’impresa come luogo della produzione. Se si accetta il fatto che la produzione è diffusa, tutte le forme pensate di organizzazione presentano il loro limite. Da questo punto di vista, la rete diventa l’oggetto del desiderio: medium universale emergente, ma anche modello organizzativo. Un rompicapo che continua ad agitare i sonni dei militanti. La rete ha momenti di esemplificazione nella rivolta di Seattle. Ma è un modello interpretativo che interviene sempre a posteriori. Perché l’eterogenea composizione culturale e sociale del movimento no-global più che la Rete sceglie il forum come forma organizzativa. Anche qui siamo in presenza di un’auspicata costituzione di una sfera pubblica, meglio di un’arena dove condividere esperienze, mettere in relazione mondi diversi. Più che organizzazione, la parola magica in questo caso è movimento. Parola evocatrice, talvolta performativa, più di comportamenti che non di dinamiche sociali e di conflitto vero e proprio. Le uniche definizioni che sono associate a movimenti, una volta confutata e messa in discussione la concezione che i movimenti sono variabili dipendenti del sistema politico, è che sono la forma assunta da una società civile organizzata e di una spazio dove c’è politicizzazione dei rapporti sociali. È interessante che sono questi gli anni dove al termine «militante» viene sostituito quello di «attivista». Indica certo chi è attivo, ha sicuramente una genealogia statunitense, ha radici nelle single issue che hanno caratterizzato i movimenti sociali negli Stati Uniti. Indica uno stile sobrio, talvolta radicale, ma è lontano dalla visione del militante novecentesco. L’attivista è cioè l’uomo o la donna che decide di partecipare a un movimento, ma anche di smettere di dare il proprio contributo. L’attivista è un militante intermittente. Anche qui, emerge un’omologia tra la condizione precaria e quella del militante. Da questo punto di vista, la mayDay di Milano segnala un altro stile di militanza, che si pone in continuità con l’esperienza dei centri sociali, ma ne sottolinea anche la distanza. Anche in questo caso, più che le continuità vale la pena di sottolineare le discontinuità. Ciò che si impone è la precarietà, ma anche una composizione sociale in continuo divenire, che non prevede forme rigide. Vengono esaltate modalità di azione del mouvment americano – la performace di strada – ma anche dimensioni della controcultura degli anni Novanta. Il subadvertising, il détournement, il divertissment linguistico che punta a ribaltare di senso il linguaggio corrente e passaggi chiari dell’ordine neoliberista fanno intravedere un militante che è consapevole dei limiti dell’orizzonte no-global, ma consapevole della dimensione globale in cui opera. Qui l’accento è posto nel ribaltamento della precarietà in chance, opportunità non di accedere al mercato del lavoro, ma di conflitto. Un’intuizione che avrà un andamento carsico e mai compiutamente messo a tema politico. Un’altra dimenticanza con cui ho dovuto fare i conti nel ripercorrere quegli anni è quella dello zapatismo. Il 1994 è l’anno in cui irrompe nella sfera mediatica e nella rete e nell’immaginario dei movimenti l’Ezln. Sono divenute note le espressioni: «camminare domandando», «conflitto e consenso». È questo uno stile di militanza con cui fare i conti seriamente. Perché si discosta dall’attivista, ma anche dalle forme di militanza dei centri sociali e di alcuni movimenti che occupano la scena soprattutto in Europa. Il riferimento è ai disoccupati francesi. Se lì c’è saldatura tra rivolta esistenziale e condizione sociale, il punto di vista degli zapatisti sottolinea la necessità di autorganizzare la vita collettiva. Le municipalità sono sì zone temporaneamente autonome, ma aspirano ad essere permanentemente autonome. Il militante zapatista esprime conflitto, punta a superare la dimensione intermittente dell’agire politico, ma individua nella costruzione del consenso il modo per consolidare le forme organizzative, diremmo le istituzioni che vengono costruite. Istituzione fiondate su una democrazia radicale, di base, che punta ad andare oltre il dato della rappresentanza. È quello uno stile della militanza che avrà molto seguito. È infatti dalla lettura di quell’esperienza che la formula del cambiare il mondo senza prendere il potere comincia a circolare.
Fin qui la lettura degli avvenimenti può seguire anche una linearità. L’imprevisto è l’irruzione del movimento no-global. Come in un frullatore, tutte le componenti sono sminuzzate, amalgamate, ibridate, potremmo dire. Possiamo, retrospettivamente, dire che è il conflitto che mette in discussione tutto quanto. Ma vorrei soffermarmi, come ultima cosa, sulla militanza come prassi conoscitiva. Se dobbiamo parlare di militanza dobbiamo allora conoscere, esplorare nuovamente la realtà. Dobbiamo dotarci di un bagaglio leggero, ma abbiamo qualcosa da usare per capire meglio come agiscono i processo di soggettivazione, il principio di individuazione; il perché le scelte di vita sono sì un processo in divenire, ma vanno pensate anche nella loro valenza politica, non solo nella loro alterità rispetto al pensiero dominante: la posta in gioco è trovare quella mirabile convergenza tra forma di vita e politica.
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