Introduzione
Pandemia significa crisi, ma non per tutti. Se alcuni settori languono – come il turismo e i grandi eventi – altri proseguono silenziosi la loro marcia. Primi fra tutti gli investimenti immobiliari. Ciò nonostante, le retoriche dominanti sono sempre le stesse: sostenere questo modello di sviluppo urbano, ripristinare le condizioni precedenti a questo tempo sospeso, cancellare questo anno e mezzo e tornare a come eravamo. Retoriche dall’alto, appunto. Quelle dal basso invece, portate avanti da alcuni settori della società civile e dai movimenti sociali mettono in luce altre idiosincrasie. Proviamo a esplorarle partendo da una città emblematica, Milano, e da due casi specifici: l’Esposizione Universale del 2015 e il piano di riapertura dei Navigli.
Milano, eredità del passato e sviluppi recenti
Plurale, competitiva, internazionale, smart, innovativa, resiliente, motore d’Italia. Sono solo alcuni degli epiteti che nei discorsi pubblici e nelle strategie di marketing territoriale celebrano il modello di sviluppo economico del capoluogo meneghino. A partire dagli anni Novanta, le amministrazioni affrontano la sfida della competizione globale, puntando su settori altamente innovativi e su un tessuto produttivo fortemente diversificato e in via di internazionalizzazione (moda e design, servizi e terziario, biotech, ricerca e innovazione, finanza) in grado di (ri-)adattarsi alle recessioni susseguitesi negli anni.
Si consolida così un’idea di sviluppo orientata ad attrarre investitori e visitatori. Per farlo l’agenda urbana punta, tra le altre cose, su real estate e, negli ultimi anni, su un calendario di iniziative diffuse sul territorio (il sistema delle week), promosse in collaborazione con i privati e le principali associazioni di settore.
Complice una graduale liberalizzazione della pianificazione urbana, a partire dall’inizio degli anni 2000 il mercato immobiliare locale si apre ai grandi capitali finanziari e si afferma come un popular target europeo per gli investimenti (PwC e Urban Land Institute, 2016).
Milano diviene così anche destinazione turistica, con un tasso di crescita annuale di presenze straniere del 5% dal 2012 al 2017, arrivando a contare quasi 7,4 milioni di visitatori nel 2019 (Comune di Milano, 2020). L’offerta della città si diversifica: business e affari, conferenze, offerta culturale, mostre fieristiche, week legate al settore del design e della moda, grandi eventi.
Expo 2015
Nel rapido sviluppo urbano milanese si innesta un grande evento che gioca un ruolo chiave, l’Esposizione Universale, appuntamento ultracentenario che funge da dispositivo cruciale con cui il capitalismo si rifà il lifting, presentandosi come il migliore dei mondi possibili, ridefinendo nuove geografie urbane e asset territoriali competitivi. Expo2015, voluta nel 2006 dall’amministrazione Moratti, dà un'ulteriore spinta all’economia milanese, rinforzando la reputazione della città all’estero e contribuendo al suo lancio turistico. Con la candidatura per il mega evento si consolida la stagione di grandi trasformazioni immobiliari, solo parzialmente e temporaneamente interrotte dalla crisi del 2008. Expo2015 ha riprodotto e rafforzato retoriche edificanti sul potere salvifico della tecnologia in grado di «nutrire il pianeta» in modo equilibrato, sano e sostenibile, anche veicolando un’immagine della città patinata, accattivante, globale, green che, nell’accogliere l’evento, si rinnova e si trasforma. Una vetrina per turisti, investitori e abitanti che se la possono permettere, un luogo dove pubblico e privato perseguono comuni interessi in un’atmosfera da giardino dell’Eden, senza ombra di conflitto, nel nome di un progresso comune, diffuso, inclusivo e omogeneo.
A tali immaginari, generosamente propagandati da tutti i media mainstream prima e durante la kermesse, ha provato a opporsi una coalizione composita, riunita sotto la sigla di Rete No-Expo, che ha proposto un’idea di città e società alternativa al modello dominante. È difficile negare che l’esperienza No-Expo sia andata incontro a un fallimento sostanziale. Tuttavia, sarebbe insensato ascriverne le responsabilità a errori strategici o ideologici. I rapporti di forza (sia economici, sia soprattutto di visibilità mediatica) fra le due campane dei pro e dei no Expo non consentivano un reale confronto. Lo squilibrio è ulteriormente cresciuto con la rappresentazione pubblica dei fatti avvenuti il Primo Maggio 2015, giorno dell’inaugurazione del grande evento e dell’annuale MayDay. Quest’ultima, partecipata, popolare e ricca di istanze politico/culturali, è stata ridotta nel dibattito pubblico agli scontri e ai disordini di piazza. Ciò ha contribuito a marginalizzare ulteriormente le critiche sistemiche poste dalla Rete No-Expo, rafforzando l’idea che l’immaginario promosso da Expo2015 fosse davvero il migliore dei mondi possibili: divertente ma etico, in continuo sviluppo ma green, innovativo ma rispettoso delle tradizioni. In sostanza, una narrazione revisionista del capitalismo avanzato, che nel claim dell’Esposizione, Nutrire il pianeta, energia per la vita, trovava una sintesi perfetta.
Se sul fronte delle macro-narrazioni bisogna registrare la sconfitta delle istanze No-Expo, un po’ diverso è stato il discorso per alcune battaglie locali: un caso su tutti quello dei No-Canal, comitato di cittadini che ha bloccato la costruzione di 20 chilometri di canale in cemento (costo previsto: 90 milioni di euro), ideato esclusivamente a scopi celebrativi, che avrebbe dovuto raggiungere il sito di Expo attraversando (e devastando) tre parchi cittadini: Trenno, Bosco in Città, parco delle Cave.
La riapertura dei Navigli
La storia di Milano, al di là delle vicende di Expo2015, è profondamente legata all’acqua che, nel corso della storia, è stata canalizzata, deviata e interrata a seconda dei bisogni. Tuttavia, la gestione condivisa dell’acqua nella configurazione urbana ha sempre creato conflitti e divisioni, privilegiando la sicurezza e la ricchezza del centro città a discapito delle aree periferiche. Anche nelle attuali politiche territoriali si scontrano interessi divergenti, che si contrappongono tramite discorsi, norme e forme di sapere cangianti.
Il progetto di riapertura dei Navigli alimenta oggi la promessa e la fantasia di riconfigurare le acque in nome della sostenibilità, del turismo e di una vena nostalgica per un tempo passato in cui Milano era la grandiosa capitale delle acque e dei commerci, e quando il complesso sistema di canali artificiali, costruito tra il XII e il XIX secolo, era utilizzato sia come sistema di irrigazione sia come snodo commerciale. Da inizio ‘900, per ragioni igienico-sanitarie e per espandere la rete stradale della città, la maggior parte dei canali venne coperta, ad eccezione dei due principali, il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese.
Da qualche anno politici e ricercatori, media nazionali e internazionali, discutono la possibile riapertura dei Navigli. Il progetto, avallato dal referendum informale tenutosi nel 2011, sembra motivato soprattutto da fini estetici e da retoriche legate alla «vivibilità e sostenibilità» (Comune di Milano), ma dovrebbe avere anche ricadute economiche, ecologiche e culturali come rivendicato dall’Associazione Riaprire i Navigli: «La realizzazione della nuova rete dei Navigli rappresenta una straordinaria occasione per riqualificare la città. Sarà fonte di nuova attrattività internazionale». L’idea dominante è che il progetto non potrà che avere effetti positivi.
Viceversa, secondo l’OffTopic Lab, l’effetto principale della riapertura sarebbe l’aumento dei prezzi del mercato immobiliare nelle aree limitrofe come ad esempio nel quartiere Isola, dove i prezzi sono già proibitivi, e nella nuova area di Porta Garibaldi. Concepito in questo modo, il progetto modifica il design dello spazio urbano, ad uso e consumo del turismo di massa e dei residenti ricchi: l’acqua diventerebbe l’ennesimo orpello estetico anziché un bene comune. Al contrario, questa risorsa potrebbe essere usata per il recupero delle aree periferiche coltivabili, per la riqualificazione fluviale e la depurazione, e per riconnettere i servizi ecosistemici al più ampio sistema locale.
Dalla natura in città all'urbanizzazione della natura
Gli studi urbani hanno a lungo ignorato ciò che permette la vita in città: la natura. Alcuni studiosi, a partire dagli anni ’80, hanno dato vita a un filone disciplinare che va sotto il nome di Urban Political Ecology (Upe), criticando l'assenza della natura all'interno delle teorizzazioni sull'urbano e la carenza di riflessioni sui processi di urbanizzazione nell’analisi delle questioni ambientali.
Secondo l’Upe, l’urbano non è un mero contenitore di oggetti e persone, bensì un processo metabolico continuo, «fabbrica» di beni e servizi (immateriali) di alto valore socio-culturale, a scapito di un’elevata produzione di esternalità socio-ambientali lungo la catena di produzione, trasporto e consumo del prodotto.
L’ecologia mondiale dipende in larga misura dal modo in cui le società vivono (nel)le città e da come decidono di gestire i flussi con il «di fuori». Dalla scala urbana alla scala globale ogni nuova configurazione di produzione-consumo-smaltimento (ri)crea catene-metaboliche che escludono/includono diversi attori e plasmano nuovi assemblaggi socio-ecologici nella produzione globale di beni e servizi. La continua trasformazione di materie prime è parte dell’«urbanizzazione della natura» (Kaika e Swyngeoduw 2009).
Ciò che viene a mancare, quindi, nelle teorizzazioni mainstream dell’urbano è la materialità dei processi produttivi e metabolici che stanno alla base della vita in città. Gli scambi continui non sono mai veramente cambiati alla radice, e si configurano, oggi come ieri, quali continui processi di trasformazione di materia non umana. Allora – come intuì per primo Lefebvre – l’intero pianeta può dirsi urbanizzato, visto che l’intera economia-mondo si basa sull’uso e ri-uso di materie prime trasformate e rese disponibili nei centri urbani.
Le città in questo senso rappresentano il nodo finale della catena metabolica, il punto finale che erode l’ambiente e restituisce beni e servizi a più di metà della popolazione globale, neutralizzando i conflitti e occultando le ingiustizie sociali. Quindi, per prendere seriamente in considerazione la questione ambientale, anziché di «natura in città», bisognerebbe parlare di processi che plasmano l’urbanizzazione della natura. Anziché di acquisti verdi, carbon tax e eco-design, bisognerebbe parlare di limiti fisici e sociali dell’urbanizzato, di riutilizzo del costruito e di accesso ai beni comuni (naturali e non). Si tratta di rimettere al centro la natura negli immaginari socio-ecologici dominati da retoriche di sviluppo sostenibile e transizione green dietro cui si celano spesso i nuovi volti del neoliberismo più sfrenato.
Immagine: Thomas Berra
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