Un intervento di Paolo Virno che prende spunto dalle esternazione del presidente della Repubblica in occasione della commemorazione di Aldo Moro lo scorso maggio.
Una rivendicazione degli anni in cui «si sviluppò uno scortesissimo potere operaio ed ebbe luogo il primo e unico tentativo di rivoluzione comunista in seno al capitalismo maturo».
Immagine: Andrea Salvino
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Si stanca qualsiasi parola, di più non puoi farle dire. Non è sempre vero, però. Ero sicuro che le parole mie, e di Gianni Riotta e degli altri ragazzi del coro, in lode del presidente Mattarella fossero ormai esauste, simili a moscerini tramortiti dal falò. Poi ho ascoltato le meditazioni presidenziali sugli anni Settanta, pronunciate il 9 maggio, anniversario della morte di Aldo Moro. E ho letto l’intervista pensierosa sullo stesso argomento, rilasciata poco dopo a «la Repubblica» dal custode della Costituzione. Mi devo ricredere: nomi e aggettivi, d’un tratto rinvigoriti, scalpitano per migliorare e correggere e ampliare gli elogi già archiviati.
Ho esitato a lungo a scrivere, convinto che i fatti su cui ha indugiato Mattarella siano noti a coloro che hanno più di sessant’anni, ma non ai giovani lavoratori precari che, soli, potrebbero seminare disordine e panico nel capitalismo contemporaneo. Se mi sono deciso, è perché non riesco a mettere la sordina al monito di un filosofo ebreo morto suicida, secondo il quale la redenzione del passato oppresso (gli anni Settanta, nel nostro caso) è affidata per intero ai conflitti più attuali, ingaggiati da uomini e donne che con quel passato non hanno dimestichezza alcuna. Uno sciopero riuscito dei dipendenti di Amazon riscatterà certi episodi tumultuosi di mezzo secolo fa, restituendo loro verità e buonumore. Per questo, però, non sembra inutile dare qualche notizia, scarna quanto un segnale stradale, sul passato oppresso che attende redenzione dai dipendenti di Amazon. Pongo dunque rimedio, con un ritardo imbarazzante, al peccato di omissione di cui mi sono macchiato nei confronti del suggestivo album di ricordi che il garante della democrazia, in balia di mutevoli stati d’animo, ha sfogliato nello scorso maggio.
Mai mi sarei aspettato che Mattarella rammentasse a tutti noi, con un tono così pudico e dolente, la morte violenta di Giuseppe Sibilia e Angelo Sigona, il 2 dicembre del 1968, data inaugurale della lotta armata nel nostro paese. Due braccianti, Giuseppe e Angelo, annientati a fucilate nei pressi di Avola da servitori dello Stato in divisa, nel corso di una manifestazione indetta per ottenere un modico aumento delle paghe. Nessuno fu giudicato e condannato per quel delitto, si è rammaricato il Presidente. E chi quei due uomini amava, che cosa avrà pensato? Non di rado, ha osservato Mattarella, il dolore deve rassegnarsi alla clandestinità. I colpevoli sono stati protetti dal nostro Ministero degli Interni, senza bisogno di rifugiarsi nella ammiccante Spagna fascista. Dopo questo esordio sorprendente, Mattarella ha riconosciuto che gli spari di Avola non furono un episodio isolato, bensì un prototipo tecnicamente riproducibile. Quattro mesi dopo, il 9 aprile 1969, la guerra asimmetrica dello Stato contro le rivolte dei salariati annoverò altre due vittime e un centinaio di feriti. Morirono a Battipaglia, colpiti da pallottole repubblicane, Teresa Ricciardi e Carmine Citro, durante una sommossa di nullatenenti. Anche in quel caso, nessun processo, ma un austero compiacimento da parte della libera stampa.
Sulle gesta indimenticabili della stampa libera ha mormorato parole perplesse, il nostro Presidente. Quando il ferroviere Giuseppe Pinelli precipitò giù in strada dal quarto piano di un ufficio della questura di Milano, dove gli si chiedeva di ammettere la responsabilità sua e di altri anarchici nell’attentato alla Banca dell’Agricoltura di Milano, avvenuto il 12 dicembre 1969, molti giornali supposero con innegabile perspicacia che quel suicidio equivalesse a una confessione. Mattarella osserva, oggi, che per estorcere una confessione, da che Stato è Stato, si ricorre talvolta a maniere brusche, e far pendere un corpo nel vuoto è una di queste maniere, neanche la più cruenta. Perché mai, riflette ad alta voce il Presidente, quasi nessuno si domandò se il volo di Pinelli non fosse stato l’esito di un interrogatorio troppo risoluto? Chiediamo perdono, continua compunto Mattarella, al nostro fratello ferroviere, morto innocente. Ma anche al ballerino Pietro Valpreda, che le gazzette, dedite a originali indagini fisiognomiche (simile al muso di una rana parve loro il volto di quel ballerino), spacciarono con foga per il mostro bombarolo. Grazie, mio Presidente, per avere trovato tanto coraggio, sia pure due generazioni troppo tardi.
Toccante e meticolosa è stata la rievocazione, da parte di Mattarella, dell’uccisione di militanti della sinistra rivoluzionaria per mano delle forze dell’ordine, a metà del decennio fatale. Nomi umili e ormai desueti sono stati sillabati con il rispetto riservato di solito a personaggi prestigiosi: Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Francesco Lorusso e altri ancora. Poi, ricordando con un nodo alla gola Aldo Moro, Mattarella ha anticipato notizie diffuse di lì a poco dallo storico Miguel Gotor, nemico implacabile dell’estremismo, sulle pagine de «L’Espresso». Alla fine del 1969, Moro si recò da Giovanni Leone, il democristiano in procinto di insediarsi durevolmente al Quirinale, esigendo la fine di quella sequenza di attentati, orchestrata da poliziotti e fascisti su ispirazione dello stesso Leone (tutta gente sicura di non precipitare da un quarto piano), il cui scopo era lo scioglimento del parlamento e la proclamazione di leggi speciali. In cambio di questa desistenza, Moro consentì a imputare agli anarchici le bombe degli ultimi mesi. Il corpo esanime ritrovato a via Caetani, il 9 maggio 1978, avallò quindi, da vivo, la barbarie istituzionale: in nome dell’interesse nazionale, non lo si dimentichi. Anche di questo, dichiara Mattarella, dovremmo tenere conto nel commemorare l’artefice del compromesso storico. Chi ripete come un mantra esorcistico quanto mite e inerme fosse il nostro maestro, si sforza di vincere la paura del buio che lo attanaglia. Un uomo di Stato abbonda di carichi pendenti nei confronti di operai e rivoluzionari. E a Moro si addice, senza dubbio alcuno, l’appellativo di uomo statale. Piangiamolo per quel che effettivamente fu e fece: lo merita, non meno di chiunque altro.
Tanto basti per rendere onore all’accorata equanimità di cui ha dato prova il Presidente di tutti gli italiani. Il suo discorso, certamente inatteso e benefico, spinge ad aggiungere poche parole, esse pure emancipate dalla stanchezza che le affliggeva in precedenza, a proposito della rivoluzione sconfitta molti anni or sono. Poche parole volte a fugare l’atmosfera luttuosa che può aver suscitato, suo malgrado, il compianto di Mattarella per le vittime della guerra asimmetrica intentata dallo Stato a sovversivi occasionali, cominciando da Angelo Sigona e Giuseppe Sibilia, fucilati ad Avola il 2 dicembre 1968.
Sarebbe una sciocchezza, per giunta assai meschina, raffigurare gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso come una collezione di violenze subite, un cocktail di soprusi e persecuzioni, una disperata resistenza all’offensiva di padroni arrembanti. È vero il contrario. Furono gli anni in cui ebbe luogo il primo e unico tentativo di rivoluzione comunista in seno al capitalismo maturo. Nessuna traccia di lotta all’arretratezza; nessuna «questione contadina» da dirimere contrastando la fame e la pellagra; rapido abbandono dell’amore stucchevole per gli ultimi e gli emarginati, così caro ai primi e ai ben inseriti. Il catalogo fu questo: rallentare i ritmi di produzione, ridurre al deliquio chi si arrogava il diritto di stabilirli, falciare gli straordinari, strappare aumenti uguali per tutti sulla paga base, intimorire le direzioni aziendali, discernere in tutte le articolazioni della vita associata (scuola, apparati comunicativi, organizzazione dei luoghi di residenza ecc.) due interessi contrapposti, tra i quali un compromesso è probabile quanto la conversione dei passeri alla castità. Negli anni rovistati dal presidente Mattarella, si sviluppò uno scortesissimo potere operaio all’interno delle officine e poi anche nella sfera pubblica metropolitana. Mentre Pasolini esecrava i «bisogni indotti» dalla società dei consumi in popolani fin lì votati a una ammirevole sobrietà, gli operai di fabbrica, desiderosi di consumare in fretta i beni di questo mondo, fecero il possibile (un possibile reso tale, cioè possibile, soltanto dal fatto di essere illegale) per scrollarsi di dosso quell’orrido bisogno indotto che è il lavoro salariato.
Rivoluzione contro il capitalismo al suo apogeo. Rivoluzione priva delle attenuanti concesse benevolmente a chi resiste al fascismo o sabota l’autocrazia. Rivoluzione violenta, guarda che strano. Rivoluzione sconfitta in uno scontro senza quartiere, tutto grida e niente sussurri, nella seconda metà degli anni Settanta. Ma ecco che si fa largo una domanda salace, inevitabile quanto il sonno o lo starnuto: non furono forse commessi errori di ogni genere da parte dei rivoluzionari? Primo tra tutti, non stupitevi troppo, l’errore di credere che fosse in gioco una rivoluzione? Non si scontò l’inadeguatezza, anzi la sfrontata miseria, dei modelli culturali e politici di cui ci si avvaleva? Non risultò a un tempo patetico e grottesco adombrare la Comune nell’epoca del Fondo monetario internazionale? Insomma, non fu colpa vostra? Rispondo così: ogni autentica sconfitta, nella guerra civile più o meno latente tra le moderne classi sociali, si traveste in gran fretta da errore, anzi da colpa, dei vinti. Uno degli effetti più vistosi della disfatta di una rivoluzione è il suo sottrarsi alla vista, ovvero l’espulsione dal resoconto del passato prossimo cui essa è condannata. Vincitori e vinti? Una coppia grossolana, indegna della teoria dei sistemi elaborata da Niklas Luhmann, obiettano con un sorriso di commiserazione coloro che ritengono di conoscere a menadito il corso del mondo. Della sconfitta bisogna tacere.
Esorbitante è il prezzo di questa interdizione, dapprima subita, poi condivisa. Finché non si descriverà con puntiglio il modo in cui è prevalso in campo aperto quel capitalismo che, pure, era sembrato a lungo un pugile suonato, non sarà possibile scorgere nitidamente la nostra reale inettitudine, censire i plateali colpi a vuoto di cui fummo autori e cantori, diagnosticare qualche malanno teorico che ci debilitò. Gli operai delle linee di montaggio sono stati piegati da un rapporto di forza che, a un certo punto e non prima, è diventato sfavorevole. Il resto conta, come no, ma è un resto. Per stringere una buona volta la presa sui propri errori, occorre innanzitutto riconoscere la propria sconfitta, concedendole il posto altolocato e appariscente che non ha mai smesso di pretendere. Sbagli e colpe sono voraci come piraňa: tendono a occupare l’intera scena, relegando ogni menzione del rapporto di forza nello scantinato riservato alle superstizioni. Bisogna rovesciare il tavolo da gioco: a chi va dicendo che fu tutto un errore, conviene rispondere, per il momento, che nulla lo fu, trattandosi piuttosto di una sconfitta politica di chiara fama in cui il più forte ha soverchiato il meno forte. A mo’ di morale provvisoria, cioè in attesa della redenzione degli anni Settanta da parte dell’insubordinazione dei dipendenti di Amazon, valga un verso scevro di malinconia: se non del tutto giusto, quasi niente do sbagliato. Questo soltanto oggi possiamo dirle, presidente Mattarella, riguardo a una antica e però lungimirante rivoluzione operaia.
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