A proposito de La guerra capitalista (Mimesis, 2022)
Carmelo Buscema è ricercatore di sociologia dei fenomeni politici presso l’Università della Calabria, dove insegna Geopolitica e Rapporti internazionali e si occupa di neoliberismo e processi di finanziarizzazione. Il testo che segue è la seconda parte della critica al lavoro di Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, La guerra capitalista (Mimesis, 2022), volume che abbiamo discusso in questa sezione (vedi: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-guerra-capitalista) e del quale seguiamo il vivace dibattito che le tesi lì espresse stanno suscitando. E’ possibile consultare la prima parte del testo al seguente indirizzo (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/marx-la-tendenza-tendenziosa-e-l-anti-imperialismo-dei-lupi-agnello-prima-parte).
* * *
A un certo punto del suo sviluppo, l’impianto epistemologico, teorico ed euristico d’insieme che dà forma a La guerra capitalista – descritto criticamente nella prima parte del nostro intervento – si risolve in un tentativo di comprensione più ravvicinata dell’intricatissima attualità che ci muove e scombussola furiosamente. In questa seconda parte concentreremo l’attenzione sulle obiezioni analitiche che muoviamo al risultato di tale tentativo che consideriamo sfociare nella trasformazione dello studio e del riscatto della legge marxiana di movimento tendenziale, in un contributo (certamente non voluto) al rafforzamento delle inclinazioni assunte dall’immaginario collettivo occidentale che si vuole improntato a una lettura tendenziosa, e strumentalmente assai scorretta, delle intenzioni e delle attuazioni degli attori del resto del mondo. Fare emergere, affrontare direttamente e sciogliere questo nodo è assai importante, dato che – a ben vedere – l’accentuazione ogni giorno più impetuosa di questi tratti dell’immaginario collettivo propagato, è già parte della guerra capitalista e sistemica che è nostro compito comune comprendere e disinnescare. Sotto questo aspetto essa è animata dallo sforzo in tal verso orientato dalle élite euroatlantiche. Infatti, la conformazione di questo particolare senso della storia corrisponde, con tutta evidenza, all’allevamento di ciò che Sun Tzu, ne L’arte della guerra, definiva il dao fondamentale nella preparazione e nella conduzione di ogni conflitto militare: ovvero, di quel principio di «instradamento» che serve all’esercizio del governo a «fa[r] sì che il popolo sposi gli intenti dei propri superiori [finanche] di fronte alla morte e alla vita, a sprezzo di ogni pericolo».
I due blocchi imperialistici: movimento di lettura tendenziosa.
Quel tentativo si risolve nella formulazione della tesi di punta che il libro reca come sua lancia avvelenata in resta: dallo sviluppo del regime di competizione mondializzata chiamata globalizzazione, che si è affermato sulle ali «dolci» e violente del neoliberalismo, sono scaturiti e si sono via via sedimentati profondi squilibri tra le macroregioni, di natura produttiva, commerciale e finanziaria; nel corso degli ultimi lustri specialmente, questi si sono incancreniti talmente tanto da essere diventati le decisive linee di frattura attorno a cui hanno preso ad articolarsi – in forme sempre più nette, incalzanti e brusche – coalizioni, istanze e progetti di ristrutturazione del sistema internazionale, assai divergenti e contese, tali da investire e travolgere gli assetti dati non solo sotto l’aspetto economico, bensì anche politico e militare. Secondo Brancaccio, Giammetti e Lucarelli, in questo quadro, a fronteggiarsi sono soprattutto: da una parte, «il vecchio blocco imperialista definibile “dei debitori”, a guida americana», e dall’altra, «un emergente blocco imperialista “dei creditori” a guida cinese». Il primo blocco reagisce all’affermazione economica, politica, tecnologica e demografica dei nuovi soggetti ascendenti – che, di fatto, ha riconfigurato profondamente gli equilibri globali – pretendendo ancora di agire nel solco di un tradizionale atteggiamento di arroganza orientato alla imposizione unilaterale delle regole internazionali unicamente sulla base della considerazione della propria esclusiva convenienza. L’Occidente, infatti, adesso, rinnega e revoca il principio del liberoscambismo propugnato e imposto per decenni, urbi et orbi, in punta di fucili, bombardieri e (think) tanks, e svolta su posizioni nettamente chiusuriste, che si articolano nella strategia politico-economica emblematicamente denominata del friend-shoring – che declina il protezionismo nella forma delle sanzioni applicate contro le altrui pretese di far valere ragioni di scambio più equilibrate. Essa, nella sostanza, mira a rompere il terreno su cui la dinamica della centralizzazione si dispiega – la dimensione di mondialità degli scambi – subordinando il criterio economicistico della «mera» utilità nella convenienza (certamente sempre costruito anche politicamente), all’affermazione di un principio marcatamente esogeno all’interno del mercato: la divisione degli attori tra amici e nemici, che, a ben vedere, è il cardine su cui ruota la sfera del politico. Infatti, è su un tale nomos che le élite occidentali hanno deciso di improntare e orientare la complessiva dinamica in atto di ristrutturazione delle filiere di approvvigionamento e produzione animate dalle proprie imprese (re-shoring), e così il relativo impatto conseguente sulla struttura della divisione internazionale del lavoro. Questa nuova svolta strategica, decisa inopinatamente dal blocco dei grandi debitori, è letta da parte dei nostri autori senz’altro nei termini di una determinazione meramente difensiva, nella misura in cui «impedisce ai creditori orientali di esportare e centralizzare il capitale, e li induce a una sorprendente reazione militare in un mondo che si credeva dominato dalla sola violenza dell’imperialismo occidentale». In particolare, i nostri – ancora più esplicitamente – interpretano la cosiddetta «svolta imperialista dei creditori russi – che non a caso gode delle simpatie dei creditori cinesi –» (p. 154) come il segno dell’apertura di una nuova fase, caratterizzata dall’escalation della violenza guerresca, il cui onere, dunque, verrebbe fatto cadere praticamente per intero su quelle potenze espressione dei popoli «orientali», ree – evidentemente – di non persistere nel ruolo di succubi soggetti passivi dell’altrui sistematica violenza continuata. Con un clamoroso capitombolo, gli autori imputano, sostanzialmente, in capo all’intero blocco dei Paesi da essi ridotti al mero statuto di creditori, e assunti come mossi da foga di mero accaparramento, la responsabilità di una presunta «decisione di rispondere al protezionismo dei debitori con una scompaginante aggressione militare che sfida il feroce monopolio della guerra imperialista lungamente detenuto dagli Stati Uniti e dagli alleati occidentali» (pp. 11-12, corsivo nostro).
In un altro passaggio emblematico del testo, l’eziopatogenesi del nostro male epocale è ribadita ancora in questi termini geograficamente fin troppo ben connotati, eppure euristicamente e politicamente assai controversi: «Proprio da queste difficoltà di esportazione dei capitali nasce la tentazione dei grandi creditori orientali di dare nuovi sbocchi ai loro flussi finanziari attraverso la forza, a mezzo di interventi militari. Sorgono i primi cenni di un imperialismo emergente da parte dei creditori orientali, incoraggiati anche dai limiti di espansione dell’imperialismo militare del grande debitore americano. Giungiamo così al cospetto di due forme, una conseguente all’altra, di quella che possiamo definire una nuova fase di “centralizzazione imperialista” del capitale» (p. 154, corsivo nostro).
Diremo – parafrasando la famosa massima ottocentesca – che questa tesi, per noi, irricevibile, sia peggio di un «errore» scientifico: sia una bella e buona ingiustizia politica!
Innanzitutto, perché questa parte dell’argomentazione è essenzialmente fondata – come i corsivi da noi apposti alle citazioni cercano di enfatizzare – nient’altro che su un processo a delle intenzioni divinate. Anzi, di più, o di meno: un processo a delle mere tentazioni tendenziali di aprire varchi commerciali con la forza, che sarebbero già riconoscibili ai primi cenni della loro manifestazione largamente immaginata. L’evidenza, d’altronde, mostra come la «quota» russa d’impiego della forza nel particolare e assai complesso contesto ucraino, al contrario, venga usato dagli occidentali come pretesto piuttosto per chiuderli i varchi già esistenti – precedentemente aperti innanzitutto nel loro proprio, oltreché altrui, interesse –, nonché per disattivare, soprattutto, quei crediti maturati dagli «orientali» come contropartita di beni e servizi principalmente a «noi» erogati.
In secondo luogo, perché l’applicazione della medesima bollante etichetta dell’imperialismo ai due casi supposti come equipollenti e simmetrici, è storicamente, e anche geopoliticamente, scorretta. Infatti, è possibile ricorrere a essa solo a costo di fare colpevole astrazione di ogni caratterizzante distinzione che il tempo abbia fissato negli schemi gerarchici che strutturano le relazioni lungo gli assi Occidente/Oriente e Nord/Sud del mondo, e all’interno delle dimensioni più spiccatamente imperiali delle stratificazioni dello spazio; tra soggetti dominanti e soggetti subordinati, e territori ancora funzionalmente coloniali e madrepatrie; tra i centri di comando e di accumulazione del valore, e le periferie teatro della sua violenta depredazione; tra le culture politiche elitarie e violente, forgiate da vergognose iniziative di perpetrazione attiva e sistematica del saccheggio, e i progetti strategici fondati, per resistenza, reazione e culturale compulsione, sull’obiettivo della ricostruzione di percorsi collettivi di cooperazione, autonomia e riscatto.
Inoltre, solo a costo di una esagerata e falsante semplificazione è possibile schiacciare la complessa situazione russo-ucraina sulla mera causazione della dinamica finanziaria; per di più ascrivendola senz’altro alla presunzione di una pressoché assoluta coerenza nella logica d’azione condivisa dall’intero blocco dei «creditori orientali»; e infine, disconoscendo del tutto, per giunta, la rilevanza cruciale che in tale vicenda rivestono le questioni di sicurezza nazionale e internazionale, e la spiccata esigenza di contenere la crescente aggressività, con sistematica continuità espressa, dalle organizzazioni occidentali – che per altro, nell’interno gioco, restano gli attori pivotali. Questioni di sicurezza – e relativi strumenti e azioni intraprese per affrontarle – che non bisogna necessariamente condividere per essere in grado di riconoscere come sussistenti, effettive e cogenti. È quindi il caso di sottolineare come la ignobile guerra in Ucraina, prima che colpevolmente rilanciata dalla Russia su un piano di scontro ancor più elevato, in realtà è stata accuratamente preparata, provocata, scatenata e condotta innanzitutto dagli Stati Uniti e dai loro più stretti referenti politico-strategici nella regione – segmento assai cruciale di quella arzigogolata cerniera Est/Ovest che nel corso degli ultimi lustri si sta pericolosamente lacerando. Tale conflitto, a ben vedere, non interrompe affatto la serie di prestazioni del circuito militar-monetario statunitense, attraverso cui, nei decenni, la potenza nordamericana ha implementato e puntellato spericolatamente il proprio modello essenzialmente spettacolar-finanziario di dominio sul mondo. Anzi, esso rappresenta la manifestazione e l’esito, nella decadenza, del suo penultimo atto azzardato e disperato, volto a piegare, con le maniere forti e cattive, ma per il momento piuttosto indirette e sottili, la curvatura di ciò che Qiao Liang chiama L’arco dell’impero. Da questa prospettiva, infatti, la guerra russo-ucraina, della logica funzionale propria di quel circuito militar-monetario comandato da Washington, lungi dall’esserne il punto di crisi, ne è l’apoteosi oltreché la prosecuzione con altri mezzi – proprio nel senso della prosecuzione coi mezzi degli altri: essa è condotta, infatti, sacrificando non solo, in primis, l’interposta «persona» del martoriato popolo ucraino; non solo le classi popolari d’Europa e del mondo, che pesantemente, in tante e svariate forme, qui mezzi li stanno abbondantemente già pagando; ma anche, addirittura, impiegando, per leva e carambola, le risorse dell’esercito e del popolo russo, trascinati dentro la trappola dell’escalation vorticosa di una contesa ormai pluridecennale con la perfidia della sistematica provocazione, e con la profferta minacciosa che (nel quadro delle regole del gioco, da rompere!) non si può proprio rifiutare.
Questo perverso capolavoro realizzato dai malefici strateghi del Pentagono, è l’apice abietto di un percorso d’innovazione dell’arte della guerra a stelle-e-strisce che affonda le sue radici nella visione – tra gli altri – del cinico Robert McNamara, e in quella profonda riforma delle funzioni, delle capacità e del ruolo d’impulso che l’apparato militare doveva prendere a svolgere sistematicamente all’interno della società nordamericana, con cui si è inteso reagire e «curare» il trauma rappresentato dalla «lezione» vietnamita (da cui quelli, con tutta evidenza, hanno imparato praticamente tutto, fuorché certamente l’essenziale). Un percorso che passando attraverso forme sempre più ibride, asimmetriche, fantasmagoriche e performanti di guerra – per la tutela umanitaria, l’esportazione della democrazia, la prevenzione del terrorismo, l’assicurazione del sistema finanziario, la deposizione dei satrapi dittatori (ovviamente solo di quelli insubordinati all’Occidente e quindi invisi) –, oggi arriva alla guerra fatta combattere, in vece propria, dagli altri; laddove gli altri sono in certi casi, addirittura, finanche i propri stessi avversari!
Il fiume del valore, il credito in dollari, il lupo e l’agnello
Infine, la nostra più scottante obiezione alla tesi di punta del libro è forse quella relativa alla considerazione della natura dei crediti e dei debiti che animerebbero i comportamenti degli attori contendenti di questa battaglia campale. Consideriamo, infatti, fallace ogni interpretazione che tenda a leggere queste due entità (i crediti e i debiti internazionali) come meramente astratte, speculari e simmetriche; e che quindi non tenga conto, invece, delle effettive consistenze e circostanze in cui esse, nella realtà globale, si trovano molto praticamente incarnate. In definitiva, contestiamo che nel passare dall’analisi logico-teorica del processo di centralizzazione, all’apprezzamento empirico-politico dei rapporti di debito e credito, gli autori restino ancorati a una determinazione degli elementi soggettivi e oggettivi della disputa, che risulta insufficiente se non del tutto assente, dal punto di vista storico ed epistemologico. Le complesse strutture demografiche, socioeconomiche e di potere che soggiacciono alle diverse posizioni apicali emergenti dalla configurazione articolata e gerarchica dell’attuale sistema mondo, infatti, risultano negate e cancellate dall’operazione intellettuale che riduce astrattamente i termini della questione a una lotta semi-automatica e quasi-deterministica tra soggettività-appendici delle «quote di controllo di [un’unica indistinta forma globale di] capitale», che a un certo punto non può che trascendere, indistintamente, nella forma della contrapposizione tra due fondamentali blocchi imperialistici sostanzialmente equipollenti. Il vizio di questa formula consiste non solo nella declinazione del soggetto principale (il capitale) al singolare (laddove – per esempio – l’ultimo Giovanni Arrighi ci abbia insegnato come questo possa significativamente assumere articolazione industriale o industriosa), ma anche nella conseguente implicazione, consistente nella ingiustificata assunzione secondo la quale alle posizioni definite dalle condizioni di credito o di debito, corrisponda sempre necessariamente una certa, presumibile, invarianza nelle intenzioni, nelle attuazioni e nei modi dei rispettivi attori, e quindi anche dei complessivi esiti.
Uscendo da questo schema, la svolta protezionistica inopinatamente compiuta dalle potenze occidentali – che si manifesta, senza riuscire a esaurirne gli scopi, nella strategia più generale del friend-shoring –, andrebbe letta non semplicemente come istanza di freno e difesa opposta dal corteo degli Stati (paladini dei) grandi debitori alle velleità percepite come economicamente aggressive imputate ai creditori; bensì, anche, nella sua natura di strumento ulteriore per perpetrare la subordinazione, l’oppressione e l’estrazione di valore – in misura differita, o addirittura retroattiva – ai danni della maggioranza più povera dell’umanità. Questo è, infatti, il risultato sostanziale dell’effetto di confinamento che tale forma di protezionismo avversivo determina per le immani quantità di liquidità espresse soprattutto in dollari statunitensi, destinate a stagnare e a diventare putrescenti all’interno di quelle secche o pantani macroregionali risultanti dalle liste nemiche o, semplicemente, non amiche, definite dalle élite occidentali. E ciò avviene per imperiosa decisione di quella stessa potenza – gli Stati Uniti d’America – che, negli ultimi decenni, si è dedicata a scambiare tutto il sudore e il sapere, le risorse e il sangue delle altre popolazioni del mondo, con i propri pagherò puramente fiduciari – sostanza dei famigerati crediti qui in questione –, il cui valore internazionale si è retto e si regge pressoché soltanto sull’inerzia, sul ricatto e sulle mosse più aggressive orientate al controllo, diretto o indiretto, soprattutto dei gangli del mercato energetico, operate, o minacciate, dall’esercito più ingombrante e imponente non solo della Terra, ma anche dell’intera storia.
Ciò che si aggredisce attraverso il confinamento di tale immane quantità di dollari all’interno dei nuovi perimetri improvvisamente tracciati attorno a questa immensa quota di mondo unilateralmente qualificato come non-amico e immondo, sono le fondamenta stesse su cui è cresciuto il sistema internazionale negli ultimi decenni, nonché il suo dispositivo cardinale: la consistenza di quei biglietti verdi, o digitali, in quanto strumenti riserva di valore anche fiduciario; l’onorevole impegno assunto con i possessori dei loro corrispettivi in bit e carta, che questi ultimi avrebbero mantenuto la propria essenziale natura di moneta/monito: cioè di segno del titolo a ricevere di nuovo indietro, nel futuro, un’effettiva contropartita equivalente all’originaria partita già ceduta in cambio temporaneamente di quella stessa valuta. Revocando tale promessa collettiva, dismettendo l’istituzione mondiale su cui essa si era retta, l’effetto risultante è il trasferimento presso i Paesi direttamente o indirettamente colpiti da questo enmity-shoring, delle conseguenze della crisi di performatività del sistema occidentale, sotto forma di esternalità che diventano i colpi severi di inflazione, crisi economiche, politiche e sociali, e distruzione, geopoliticamente tele-pilotate. Tale nuovo unilaterale atto con cui l’Occidente disconosce il valore delle altrui vite e la valenza di ogni patto, corrisponde quindi all’attivazione di una nuova ondata di saccheggio proprio da parte di quelle stesse potenze che sistematicamente, durante l’ultimo millennio hanno via via guadagnato il centro del mondo ai danni di tutto quanto il mondo stesso.
Non andrebbe dimenticato, infatti, che se i dollari rappresentano pressoché l’unica sostanza del monte del credito internazionale che nel corso dei lustri si è concentrato sempre più in Oriente, è perché essi sono stati i secchi con cui gli Stati Uniti hanno imperiosamente preteso che tutti gli altri Paesi attingessero, conservassero, e si scambiassero l’acqua scorrente lungo il fiume del valore dell’intera economia mondo, che si andava così arricchendo di sempre nuovi immissari. Tuttavia, con il passare del tempo, questi secchi sono risultati sempre più sfondati, tanto da determinare la dispersione della gran parte del valore che essi prendevano e trasportavano per conto dei tributari che se ne servivano, lungo il corso di quello stesso fiume che convoglia il valore dalle sue mille sorgenti sparse per la Terra, presso i mari e gli oceani dei centri di potere del sistema più affluenti. Per di più, adesso, con il friend-shoring, alle economie più popolose del mondo, viene imposto di rifornirsi esclusivamente entro i confini di tratti di fiumi che si vorrebbero sempre più rimaneggiati e asciutti, e quindi di tenere sempre più lontani sia dalla sorgente che dalle foci, quei loro cumuli di carcasse sfondate a cui sono ridotti i secchi (i dollari «orientali»).
Chi sono, in definitiva, tra il creditore e il debitore, il lupo e l’agnello, quando è la moneta internazionale comandata da Washington a esprimere il credito e il debito? Gli argomenti che nel corso degli ultimi decenni di finanziarizzazione della società globale, abbiamo ampiamente usato per difendere il sacrosanto diritto dei poveri alla consapevole insolvenza rispetto al loro debito, erano lance di una lotta di classe esercitata dal basso verso l’alto; che assolutamente non si possono, adesso, riciclare – implicitamente, e per riflesso inconsapevole – per dare man forte al progetto di uno scontro di civiltà già in atto, che è esattamente il contrario della lotta di classe; o, anche peggio, che è la lotta di classe al contrario. Il lupo, travestito da agnello, non ha smesso l’abitudine di pretendere di essere il solo a poter bere e sporcare l’acqua alla fonte che attraversa il mondo; ma neppure ha smesso sadicamente di infierire incolpando l’agnello, che beve molto più in basso, di comportarsi come uno sporco lupo gradasso. Per tentare – magari, chissà – di lavarsi la coscienza dall’angoscia con il sangue del capro che si vorrebbe espiatorio.
Scarti epistemologici + In/conclusione
Alla radice della rottura problematica che a un certo punto riscontriamo nello sviluppo del libro, giace – riteniamo – ciò che a noi appare come un vizio epistemologico fondamentale, che si rivela manifestamente, non a caso, quando dall’astrazione logico-numerica atterriamo al livello della qualificazione politica e categoriale dei processi realmente in atto. E cioè, un’implicita idea eccessivamente fantasmagorica e automatica del capitale: tutta incentrata sulla auscultazione della sua fenomenologia meramente finanziaria, e tuttavia scambiata per la consistenza tout court del capitale. (Distorsione frutto, forse, dell’applicazione, operata senza mediazione, dei dati ricavati osservando pressoché soltanto la struttura del mercato azionario, allo sforzo di comprensione delle assai più vaste conformazioni sociali, storiche e geografiche del sistema. O magari, invece, di una concezione che concede alla sfera del politico una rilevanza fortemente dimidiata rispetto a quella effettiva e reale).
Nostra persuasione generale è che schiacciare tanto la riflessione sullo schema di ragionamento numerario (pur cruciale), frustri la capacità di cogliere le determinazioni essenziali del capitale per come esso è veramente incastrato, all’interno del sistema mondo – di cui esso non è tutto, bensì determinante parte. A questo modo, se ne perde infatti: la sua consistenza di effettiva e dinamica attualità, forte però dell’abilità di riuscire a inglobale e metabolizzare continuamente la sempre disponibile inattualità; il suo essere struttura relazionale tendenzialmente onnicomprensiva di produzione e riproduzione del mondo, ma costantemente articolata in fuochi dialettici di polarità; il suo essere rapporto sociale totale mediato da cose, materiali e immateriali, che – sotto la forma prevalente della merce – sono e veicolano anche dispositivi di natura tecnica ed elementi ordinanti (e disfacenti) le specifiche configurazioni culturali e politiche delle società.
Scrivono gli autori: «Piuttosto, sarebbe il caso di focalizzare che nell’economia di guerra prossima ventura la classe lavoratrice di tutti i Paesi coinvolti sarà inevitabilmente sottoposta a più intensi tassi di sfruttamento, tra ulteriori rischi di declino dei salari reali e delle quote salari, accentuata precarietà, nuove militarizzazioni dei luoghi di lavoro. Un destino da carne industriale e da cannone, a meno di non ricostruire un autonomo punto di vista del lavoro nella contesta tra nazioni e classi: un “pacifismo conflittualista”, all’altezza dei durissimi tempi a venire» (p. 155).
Sottoscriviamo punto per punto questo passaggio, ma aggiungiamo un’imprescindibile chiosa: la definizione di una linea di fronte politico orientata all’esercizio di tale auspicato pacifismo conflittualista non può, però, più procedere lungo il cammino intrapreso nel corso degli ultimi due decenni: quel sentiero che, anche quando cerca di liberarsi delle sue odiose tare nazionaliste e razziste, lo fa nel nome di una xenofobiarinnovata, a ben vedere, sul terreno esiziale dell’assioma dello «scontro di civiltà» permanente. Ovvero quel cammino che, ormai sistematicamente, declina il pacifismo nei rapporti coi «nostri» padroni e ceti dirigenti, e invece destina il conflittualismo nei confronti soltanto dei padroni e dei dirigenti delle altre popolazioni. Com’è già avvenuto in Europa circa un secolo fa, oggi di nuovo, soprattutto in seno alle istanze della galassia socialista, l’opzione del conflitto sociale orientato anche a costruire le condizioni e la pratica della pace internazionale, incorre, s’imbatte e cade, concretamente, proprio nei momenti topici, nella sua coniugazione rovesciata, indotta dall’alto: la pacificazione sociale (forzata dall’alto) votata a sfogarsi anche nell’alimentazione dei termini del conflitto internazionale. Perché il conflitto per la pace – che, sia chiaro, è l’opposto del romano para bellum si vis pacem – va esercitato ogni giorno, in coalizione solidale, ciascuno contro i propri despoti e padroni, invece che contro i despoti e padroni degli altri; o anzi, peggio: contro i loro simulacri! D’altronde, non è stato forse Marx ad averci insegnato che prima viene la soggettività forgiata nei concreti rapporti di cui consiste il conflitto sociale; che poi viene la coalizione delle parti subordinate e vessate, che si manifestano nel «partito»; e che solo dopo arriva lo sforzo scientifico volto a orientarne lo sviluppo e il cammino? La conoscenza che si dipana, invece, pur seguendo il rigore del metodo, ma a partire dalle determinazioni di inimicizia fondamentali che ci fornisce il nostro stesso nemico, affogano nel disastro ogni possibilità di vita giusta e piena – ogni possibilità di comunismo.
* * *
Carmelo Buscema è ricercatore di sociologia dei fenomeni politici presso l’Università della Calabria, dove insegna Geopolitica e Rapporti internazionali e si occupa di migrazioni, neoliberismo e processi di finanziarizzazione, temi sui quali ha pubblicato numerosi saggi e articoli. Tra gli altri: Contro il suicidio. Contro il terrore. Saggio sul neoliberalismo letale (Mimesis, 2019); Il governo della povertà ai tempi della microfinanza (con Marco Fama, Ombre Corte, 2017); L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato (Mimesis, 2012)
Comentarios