top of page

Ma come si curano le malattie mentali? (prima parte)






Affrontando la complessità del tema della salute mentale, Luca Negrogno e Benedetto Saraceno prendono le mosse nella loro riflessione dal confronto con la vasta letteratura che si riconosce nell’opera e nel pensiero di Franco Basaglia. I due autori sostengono che, nella psichiatria antistituzionale e critica, il discorso sulla salute mentale è centrale ed estremamente articolato, mentre sono meno presenti le considerazioni e le analisi sui singoli disturbi, alle loro cause e ai loro trattamenti. A partire da qui, il testo ripercorre genealogicamente il rapporto tra sapere e potere lungo i decenni successivi agli anni Settanta. Pubblichiamo oggi la prima parte del saggio.


* * *


Salute mentale e servizi pubblici innovativi

Sarebbe interessante e utile analizzare meticolosamente la vasta letteratura prodotta negli ultimi cinquanta anni in Italia dagli autori che si riconoscono nel pensiero e l’opera di Franco Basaglia e nelle diverse forme che ha assunto nel corso degli anni il movimento della psichiatria antistituzionale o più in generale della psichiatria critica. Tale analisi dovrebbe individuare la visione generale teorica e le strategie proposte in ordine alle singole malattie mentali (per intenderci, ci riferiamo ai Disturbi Mentali così come definiti e classificati dalla International Classification of Diseases ICD11 della OMS). Se infatti il discorso sulla malattia mentale attraversa tutta questa letteratura in modo continuativo, intenso e articolatissimo, è tuttavia meno frequente incontrare riferimenti ai singoli disturbi (schizofrenia, depressione eccetera). Sarebbe invece interessante enucleare da quella letteratura vasta e complessa specifiche considerazioni in ordine a specifiche condizioni, alle loro cause e ai loro trattamenti.

In generale si potrebbe dire che la psichiatria critica antistituzionale nel momento in cui assume l’idea stessa di malattia mentale come etichetta artificiale imposta dalla psichiatria sui singoli individui non è interessata alle sottospecie di tale malattia ossia non è interessata a confrontarsi con singole entità nosografiche come se esse avessero consistenza reale. Tale disinteresse, termine in verità assai generico, può sia ascriversi al rifiuto della esistenza stessa di tali entità nosografiche (come è il caso delle posizioni più radicalmente antipsichiatriche) o invece ascriversi non tanto al rifiuto della entità nosografica quanto più alla negazione della utilità di tale identificazione che servirebbe solo ad aumentare stigma, discriminazione e isolamento Quali che siano le ragioni di tale disinteresse, ne risulta un sostanziale disinteresse a definire specifici trattamenti per specifiche condizioni patologiche.

Questa assenza di specificità è compensata dalla idea di intervento non tanto specifico alla malattia ma specifico all’individuo che di tale malattia è portatore. Un intervento caratterizzato da disponibilità, accoglienza, solidarietà, sostegno, individuazione dei bisogni immediati concreti ed emozionali. Ecco, dunque, che la preoccupazione non è tanto quella di descrivere trattamenti terapeutici ma piuttosto gli interventi di cura e di accompagnamento.

Emerge come naturale conseguenza di questa enfasi sulla cura e sull’accompagnamento l’importanza di servizi forti, strutturati, multipotenti.

A questo proposito è indubitabile che l’affermazione culturale e organizzativa dei servizi «territoriali» ha attraversato due fasi storiche:

- una fase pioneristica, che vedeva impegnati gli stessi professionisti che avevano compiuto la lotta antistituzionale. Questa fase può essere inquadrata attraverso alcune riflessioni già presenti ne «Il giardino dei gelsi» (Venturini, 1979): di fronte alla fine del periodo in cui l’identità professionale si era dissolta in quella politica, agli operatori dei nuovi servizi territoriali si presentava un doppio rischio, quello di perdere identità e quello di ri-tecnicizzare la propria identità in un nuovo assetto istituzionale. Possiamo dire che entrambe le cose sono avvenute.

- una seconda fase, che, a partire dagli anni Duemila e a seguito del piano obiettivo nazionale, realizza la formalizzazione del lavoro sui determinanti sociali attraverso dispositivi come il budget di salute. Oggi stiamo vedendo tutte le criticità di tale formalizzazione.


Nel corso di queste fasi si è venuta perdendo non solo la continuità con le radici della critica antistituzionale ma anche la molteplicità dei tentativi di elaborazione e di riflessione che non fossero rigorosamente connotati come prodotti del pensiero basagliano e della pratica triestina. Si pensi, ad esempio, alla complessa elaborazione teorica di Sergio Piro, alla ricerca di Gian Franco Minguzzi sulla possibilità del servizio territoriale come dispositivo complessivamente psicoterapeutico e, infine alla esperienza di Perugia, e pensiamo anche alle considerazioni epidemiologiche svolte da Giuseppe Micheli intervistando Carlo Manuali nell’importante testo «I nuovi Catari» (Micheli, 1982) ove si mostra come il cambiamento del dispositivo di cura già nelle sue fasi iniziali abbia aperto il trattamento a una fascia «borghese» di utenza portatrice di diverse domande e diversi bisogni rispetto a quelli della popolazione di cronici manicomiali cui trovare soluzioni extraistituzionali. Ci si trovava così di fronte a una popolazione non strutturalmente esclusa dalla produzione e dal consumo ma al nuovo «disagio dell’inclusione». A partire da questa considerazione Carlo Manuali già dall’inizio degli anni Ottanta formulava ipotesi di lavoro che sarebbe stato opportuno approfondire più ampiamente.

Mentre queste importanti «deviazioni» dal mainstream triestino si perdevano in vicende sempre più locali, si sviluppavano anche tentativi di dialogo intellettuale con alcune correnti decisamente più «tecniche» come fu il caso della psicoterapia familiare sistemica e della scuola di Milano, secondo cui la tecnica sistemica, con l’orientamento dei suoi interventi ai sistemi familiari di cui il paziente psichiatrico fa parte, sarebbe stata l’unica in grado di sostenere la deistituzionalizzazione. Oppure, l’affermarsi di prassi alternative in contesti apparentemente lontani dai centri della deistituzionalizzazione triestina, che intercettavano categorie di utenza diverse da quelle che andavano «liberate» dal manicomio e che quindi ponevano altri problemi (un esempio su tutti: Giuseppe Lombardo Radice con gli adolescenti negli anni Ottanta o il trattamento delle tossicodipendenze in contesti comunitari). Questa divaricazione di percorsi assistenziali – permessa dalla destrutturazione del dispositivo manicomiale – corrisponde all’emergere di «nuovi profili» epidemiologici – i «giovani», i «tossicodipendenti» su cui si applicano riflessioni diverse, anch’esse polarizzate, (pensiamo alla polarizzazione del dibattito italiano tra Vincenzo Muccioli e Luigi Cancrini).

O, ancora, il richiudersi di alcune elaborazioni critiche in nuovi saperi disciplinari, nel rifiuto/incomprensione dell’importanza della pratica politica (e certamente l’esempio più evidente è quello di Giovanni Jervis che si illude di costruire una psichiatria clinica critica e progressivamente si lascia alle spalle la centralità del superamento del manicomio e la radicalità della critica basagliana all’impianto epistemologico e morale della psichiatria).


I disturbi psichiatrici nella letteratura antistituzionale

Nella presente riflessione, esploriamo la ipotesi secondo cui la deistituzionalizzazione non ha saputo creare una cultura capace di interagire pienamente con il presente. La «monumentalizzazione» di alcune figure di spicco, che erano state punti di riferimento negli anni Settanta, non ha favorito la continuità di quel nucleo fondativo di elaborazione e di radicale messa in discussione delle dei fondamenti epistemologici della ideologia psichiatrica, che riuscisse a sopravvivere ai vari e parziali processi di istituzionalizzazione dei principi portati da quelle fasi innovative. Probabilmente l’unico pensiero che ha mantenuto intatta e fino alla fine la propria radicalità è quello di Franco Rotelli.

A oggi troviamo che molte acquisizioni di quei processi storici sono implicite, ambiguamente espresse, semplificate o del tutto assenti. Non è un caso che assistiamo da più parti a tentativi di gruppi scientifici (principalmente correnti di psicoterapia) di accreditarsi come «orientamento tecnico compatibile con servizi basagliani», ma nel complesso di un dibattito confuso, frammentato ecc. Per dirla sinteticamente, non esiste una epistemologia clinica lasciata in eredità dalla trasformazione dei servizi in senso post manicomiale e antistituzionale. Nel vago dibattito che si può provare a ricostruire su questi temi emergono vari accenni di posizione ma non si trova neanche un vero e proprio ambito in cui esplicitare questo confronto, una base di analisi condivisa delle prassi da cui partire, ecc. In questo contesto, le figure che si sentono legate a quella cultura hanno anche vissuto una serie di «sconfitte storiche», una delle quali è la proliferazione di modelli cognitivi comportamentali e neurobiologici nei servizi territoriali pubblici post manicomiali, all’ombra dei quali si è iper-semplificata la riflessione sul malessere e il benessere, riducendo la salute mentale a una pratica di correzione dei disturbi individuali all’interno di una cornice teorica ingenuamente naturalista, incapace di riflettere sulla complessità epistemologica delle nozioni di comportamento, deficit, salute; complessivamente subalterna ai mandati di controllo sociale diffuso o alle domande di potenziamento della prestazione individuale che il nuovo complesso della salute mentale andava esprimendo.

Ma chi ha parlato dei disturbi psichiatrici e dei loro trattamenti?

Sono alcuni esponenti storici del movimento antistituzionale e della psichiatria critica a discutere di disturbi psichiatrici e della loro cura: innanzitutto Basaglia con il suo contributo di fenomenologo (Basaglia, 1953;1954;1955; 1956; 1957 (a); 1957 (b); 1964), insieme a lui, Sergio Piro con il suo monumentale «Il linguaggio schizofrenico» (Piro,1967) e infine Giovanni Jervis nel suo manuale (Jervis, 1975).

In Umbria, nel 1993 Carlo Manuali propose a Francesco Scotti di assumere la redazione della sezione Psichiatria degli Annali di Neurologia e Psichiatria con l’obiettivo di approfondire e di articolare anche sul piano teorico e della riflessione quella rete dei Servizi di salute mentale di Perugia che era divenuta una realtà concreta e operativa importante.

Per rispondere al bisogno di unificare la molteplicità delle pratiche e dei saperi gli Annali pubblicavano quindi una serie di Seminari, promossi a partire dal 1994 dal Dipartimento Salute Mentale di Perugia sul tema del «Curare e prendersi cura in Psichiatria»(Autori Vari, 1996).

Tuttavia, a parte questi autorevoli precedenti, c’è da chiedersi quanti operatori critici e antistituzionali abbiano letto i testi che abbiamo poc’anzi citato.

C’è da chiedersi quale sia la psichiatria clinica che viene realmente praticata dagli psichiatri e dai servizi psichiatrici di orientamento critico e antistituzionale.

In altre parole, c’è da chiedersi quale sia lo scenario più prossimo alla realtà fra due possibili.


- La psichiatria antistituzionale per trattare i pazienti utilizza il modello tradizionale della clinica psichiatrica biomedica e lo mette in opera, seppure in un quadro di libertà e rispetto dei pazienti: ossia, si pratica una clinica tradizionale nel contesto di servizi radicalmente innovativi.

- La psichiatria antistituzionale ha «inventato» trattamenti innovativi che non sa descrivere né formalizzare.

Dunque, la domanda centrale è se sia sufficiente una radicale trasformazione dei servizi per «inventare» forme innovative di trattamenti. Oppure, se la psichiatria antistituzionale abbia «inventato» la deistituzionalizzazione (sia la sua teoria sia la sua pratica) ma si sia limitata a pratiche terapeutiche empiriche senza costruire alcuna teoria della clinica antistituzionale.

Se, come è ragionevole pensare, si è venuta costruendo una pratica terapeutica innovativa, coerente con la teoria e la pratica della deistituzionalizzazione, quello che non si è creato è un corpus teorico che fondi tale pratica innovativa o, se si vuole, un corpus teorico che sia fondato a partire dalla pratica innovativa. L’assenza di un corpus teorico descrivibile oltre che «narrabile» determina una difficoltà di trasmissione ad altri (ai giovani, ad esempio).

Se certamente vengono trasmesse una teoria e una pratica della deistituzionalizzazione non altrettanto avviene per la terapia, o sarebbe meglio dire «la cura», che sappiamo fondarsi solidamente su due cardini fondamentali: una «presa in cura»[1] e un insieme di «pratiche riparative».

È molto probabile che la sommatoria della «cura» e della «pratica riparativa» costituiscano l’essenza di una clinica terapeutica antistituzionale. Tuttavia, nessuno ne parla, nessuno teorizza e tutto è lasciato in una nebbia vaga.


Saperi accademici, reazione negli anni Ottanta, scienza e potere

La vivacità del dibattito pubblico sulla salute e la sanità che aveva interessato l’Italia fino alla fine degli anni Settanta, garantendo l’elaborazione di innovazioni universalistiche nei sistemi di salute pubblica, era stata determinata da una forte «pressione dal basso», da spinte di democratizzazione e cambiamento istituzionale (Giorgi & Taroni 2020) che avevano decentrato la produzione di sapere dall’ambito accademico per aprire il confronto sulla salute a questioni sociali, economiche e politiche; questo processo aveva solo marginalmente toccato le strutture di produzione del sapere accademico in tutto il mondo sanitario occidentale.

Le elaborazioni progressiste in campo internazionale, culminate con le dichiarazioni egualitarie e sociali di Alma Ata (1978) sottoscritte da OMS e Unicef, furono infatti immediatamente negate da una reazione che investì il mondo istituzionale e trovò immediata alleanza in gran parte dell’università, la quale era rimasta in tutto il mondo un ambito di resistenza al cambiamento, pronto a farsi centro della reazione (Maciocco, 2009). L’intellectual blueprint compatibile con l’investimento finanziario sulla salute e con la contrazione dei sistemi di welfare, promossi dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, si tradusse in nuove linee di ricerca nel campo dei sistemi sanitari orientate alla individualizzazione dei rischi, alla determinazione economica di efficacia degli interventi tecnici mirati per raggruppamenti amministrativi (processo che si è accoppiato strutturalmente con la proliferazione di categorie diagnostiche ipostatizzanti – legate alla proliferazione di molecole da immettere sul mercato), allo sviluppo specialistico negli interventi sempre più raffinato sui sintomi.

La scienza che era stata per un ventennio (anni Sessanta e Settanta) campo di dibattito anche aspro fra teorie psicodinamiche, fenomenologiche, sociologiche e antropologiche portatrici di un ventaglio vario di dimensioni critiche, viene così riorganizzata dai centri di potere universitari attraverso una complessiva immissione di determinismo neopositivista in tutte le discipline; l’ambito psy si trova al centro da una parte di una riorganizzazione a-teoretica della nosografia (American Psychiatric Association, 1980), dall’altro a una crescita dell’investimento sulla ricerca organicista. Negli anni Novanta emerge che il modello biomedico delle neuroscienze ha influenzato la clinica psichiatrica in senso fortemente semplificatorio «riducendo la spiegazione del comportamento deviante a una serie di disfunzioni neurologiche» (Landeweer e coll., 2009).

L’impatto sulla pratica clinica, come hanno sostenuto i movimenti degli utenti, nonostante la crescente enfasi sulla cura comunitaria e l’inclusione sociale, ha favorito lo sviluppo di una cultura orientata alla legittimità del trattamento senza consenso; le complesse discussioni precedenti sull’interazione tra elementi politici, relazionali e istituzionali e sul rapporto tra questi ambiti e la struttura interna delle discipline sono state riduzionisticamente abbandonate a vantaggio di un modello che, sotto la ecumenica quanto superficiale definizione di bio-psico-sociale trascura la discussione sui limiti epistemologici e logici interni ad ogni disciplina a vantaggio di una preponderante propensione amministrativa e classificatoria. La ricerca in psichiatria elabora così il «progetto scientifico» (Andreasen & Black, 1995) della sua realizzazione, in cui si compie la fallace correlazione tra aspetto fenomenologico, eziologico e nosografico in un corpo duro di nosografia in cui ad ogni condizione esistenziale corrisponde una opportuna molecola «terapeutica».

È fondamentale la relazione tra questo cambiamento dell’approccio scientifico e la trasformazione dei sistemi di protezione sociale: nel numero di Aut Aut dedicato a «La diagnosi in psichiatria», Luciana Degano Kieser e Giovanna Gallio hanno messo in luce la relazione tra gli usi sempre più pervasivi di sistemi psicodiagnostici meramente descrittivi e la destrutturazione dei sistemi di protezione sociale universalistici nella «postdemocrazia» tedesca. Secondo le autrici, infatti, l’apparato psicodiagnostico dominate ha la funzione di naturalizzare le tendenze residualistiche di sistemi di protezione sociale che vanno perdendo ogni funzione redistributiva ed emancipatoria, in quanto grazie all’ampia disponibilità di diagnosi essi ricollocano ciascuna particolare condizione dell’utenza entro una catena gerarchica fatta di specifiche forme di trattamento, della quale i gradini più in basso sono occupati dai dispositivi più segreganti e riguardano fasce di popolazione che non possono permettersi forme di protezione sociale private ad alto investimento terapeutico-riabilitativo: un evidente corto circuito tra naturalizzazione della povertà e psico-biologizzazione dell’esclusione (Degano & Gallio, 2013; Saraceno & Gallio, 2013).

Nonostante l’importanza di questi aspetti sono state poche in questi anni le ricerche sulla relazione tra le trasformazioni dei sistemi di welfare mix italiani e l’impoverimento della teoria e della prassi psichiatrica sotto la spinta del riduzionismo classificatorio. Le proposte di ricerca di Ota De Leonardis formulate a fine anni Novanta sul rischio che le vecchie esperienze di impresa sociale che avevano rinnovato la pratica riabilitativa in Italia cedessero al crescente privatismo e alla subalternizzazione a un welfare dimentico della questione della giustizia sociale (De Leonardis, 1998) non hanno mai abbastanza incontrato la riflessione sulle pratiche e i saperi del complesso servizi-terzo settore-comunità, ricchissimo di contraddizioni, che invece nel campo della salute mentale «progressista» si è piuttosto teso a sublimare in una acritica accettazione, forse nella speranza che da qualche parte nella società ci fosse ancora una qualche roccaforte dei «nostri».

D’altra parte i rapporti tra pratica anti-istituzionale e sapere psichiatrico trasmesso nei contesti universitari sono stati da sempre critici; per Franco Basaglia l’università era stata un luogo di sofferenza e conflitto, da cui «è stato respinto oppure accettato malvolentieri in ruoli privi di reale potere accademico" (Colucci & Di Vittorio, 2001): in essa si sviluppa quella stessa «sindrome istituzionale» riconosciuta nell'ospedale psichiatrico per cui, dietro il paravento della produzione di nozioni astrattamente classificatorie, si dissimula il privilegio economico e politico di un corpo docente interessato soprattutto a riprodurre il proprio potere nell’opacità delle sue epistemologie e nella interessata indifferenza rispetto alla pratica reale dei servizi. Proprio l’immersione nelle pratiche manicomiali all’inizio degli anni Sessanta era stata la reazione a un mondo accademico arretrato e incapace di mettersi in discussione. Poco cambia con la riforma se già negli anni Ottanta risulta tra i grandi problemi segnalati dal movimento di Psichiatria Democratica la scissione tra ricerca, sperimentazione nei servizi e produzione di nuova teoria in campo psichiatrico. Si vedano tra gli altri gli interventi di Sergio Piro, Cristiano Castelfranchi e Giovanni De Plato nel volume Dalla psichiatria alla salute mentale (Atti del Convegno Nazionale del Pci, 1987) che raccoglie gli atti del convegno omonimo tenutosi a Roma nel 1987.

Nei dieci anni successivi alla legge 180 era evidente che la riflessione sulla formula organizzativa dei servizi territoriali, e su questo si veda. Tra regole e utopia (Autori Vari, 1982) non sarebbe bastata a sostanziare la ricerca scientifica sulla sofferenza umana che nella pratica dei servizi quotidianamente si incontrava. Si affermavano quindi tentativi di confronto con «le tecniche» per collocarle nei servizi – nell’ottica però di una pratica psicoterapeutica allargata, che fosse profondamente riconfigurata dal punto di vista teorico, epistemologico ed etico, adeguata alle finalità di un servizio pubblico territoriale, come prassi diffusa tra i suoi professionisti, nelle procedure e nelle strutture (in modi diversi questa formulazione accomuna gli sforzi di Agostino Pirella, Paolo Tranchina, Gian Franco Minguzzi, Francesco Scotti, Sergio Piro e molti altri – all’epoca – «giovani» studiosi e professionisti che lavoravano nei nuovi servizi cercando di accompagnare le pratiche sperimentali con la costruzione di una nuova teoria.

Un altro filone di riflessione di quegli anni insiste sui rapporti tra servizi di salute mentale e società, vale a dire su come porsi di fronte alle sfide della nuova «devianza» che accompagna le società in cui si andavano riformulando i rapporti tra esclusione e inclusione (si veda di Paolo Tranchina, «Norma e antinorma» (Tranchina, 1979), i nuovi modi di esprimersi dei bisogni sociali, la ricollocazione dei rapporti tra psichiatria e medicina all’interno di un approfondimento della «scienza cognitiva», capace anche di superare le semplificazioni sociologiche meccanicistiche che avevano portato in alcuni momenti a risolvere il disagio psichico nell’esclusione sociale, di superare i pregiudizi della «sinistra-psico» per cimentarsi invece con una nuova ricerca scientifica all’altezza dei problemi della complessità, capace di tematizzare esplicitamente le tensioni implicate nel «rapporto tutorio» (Castelfranchi e Parisi, 1980; Castelfranchi e coll.,1999) e contribuire alla «ristrutturazione del concetto di psicoterapia» (Minguzzi, vedi Atti del Convegno Nazionale del Pci, 1987) sfidando i vari «nemici», interni ed esterni, dell’accademia – incapace di accettare il ruolo attivo dei servizi territoriali nella ricerca e nella formazione – dell’ideologismo, del praticismo, del tecnicismo (Castelfranchi & Parisi, 1980).

La riflessione, per quanto interessata a «produrre scienza» e misurarsi con le contraddizioni, si accompagnava alla consapevolezza delle dimensioni «strutturali» della ricerca scientifica, intesa come forza produttiva (De Plato, vedi Atti del Convegno Nazionale del Pci, 1987), di fronte a cui si pone il tema democratico del rapporto tra sviluppo tecnologico e condizione umana, del ruolo dei poteri professionali psi nell’induzione di domanda specialistica di salute mentale (Crepet, vedi Atti del Convegno Nazionale del Pci,1987), prima di diventare un modesto influencer televisivo). Studiare i legami tra produzione, economia e ricerca scientifica non era un modo per rifiutare la teoria ma per legarne la produzione alla capacità di controllo della popolazione, alla socializzazione delle conoscenze come strumento per riconoscere ed esprimere i propri bisogni, in una visione democratica del rapporto tra scienza ed emancipazione.

Sono evidenti anche i limiti su questo piano: la «politicizzazione della medicina» perseguita dai movimenti negli anni Settanta, che volevano legare la ricerca scientifica alla riflessione sulle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne, subisce in quegli anni un’evidente battuta di arresto. Così si esprime a proposito Marcello Cini: «gli sforzi di trasferire all’esterno le conoscenze, le situazioni, le esperienze dei gruppi operai più avanzati sono falliti non soltanto per gli sfavorevoli rapporti di forza sul terreno dello scontro sociale e politico, ma anche per gravi difetti di comprensione di quali siano i concreti canali di mediazione fra le spinte attive nel tessuto sociale le sedi che assicurano la produzione e la socializzazione del sapere tecnico-scientifico. Detto in altre parole, non è che fosse sbagliata l’intuizione che la scienza e la tecnologia sono attività le cui regole, finalità e modalità sono contrattate nel terreno sociale. Era invece sbagliata l’identificazione degli interlocutori, la scelta delle procedure, l’oggetto della contrattazione. Insomma, non avevamo una teoria affidabile della non-neutralità della scienza» (Cini, 1988).

Laddove la strutturazione di sistemi universalistici era stata una sintesi momentaneamente raggiunta sulla spinta di conflitti sociali altrimenti incomponibili, la contraddizione viene presto resa innocua e risolta (Giannichedda & Ongaro Basaglia, 1987) nella misura in cui la nuova formulazione del sistema sanitario emerso dalla 833 riconfigura sotto forma sanitaria quei bisogni sociali e politici che non potevano esprimersi altrimenti – nei fatti sottofinanziando e depotenziando l’attività genuinamente preventiva, e non meramente rivolta alle diagnosi precoci, impedendo lo sviluppo parallelo di un sistema nazionale di servizi sociali, risolvendo il promettente tema della partecipazione in una forma burocratica e talvolta clientelare di gestione partitica delle unità sanitarie. La contraddizione brevemente apparsa si risolse nella riproposizione di una "domanda infinita di fronte a un sistema finito» (Foucault, 2021): laddove il sistema di welfare traduce i bisogni sociali e relazionali solo in senso sanitario, finiscono a essere appiattite su prestazioni sanitarie domande impossibili da esprimere; ne conseguono inappropriatezza (le cui conseguenze negative e mortifere sono distribuite nel corpo sociale a svantaggio delle popolazioni più povere e marginali), prestazionismo profittevole e costanti campagne di «razionalizzazione».

In contesti in cui la cultura della sanità pubblica ha una più profonda tradizione, nonostante la feroce virata neoliberale partita fin dalla fine degli anni Settanta, autori non particolarmente politicizzati come Sir Michael Marmot hanno la capacità di riconoscere che le disuguaglianze sociali emerse negli ultimi decenni a livello internazionale e all’interno dei singoli paesi occidentali hanno prodotto diseguaglianze di salute inaccettabili da un punto di vista di sanità pubblica, che le politiche di aggiustamento strutturale hanno contribuito a loro volta ad approfondire perché le «politiche internazionali non erano finalizzate a incontrare i bisogni primari delle persone» (Marmot, 2005).

Finita la spinta politica, incapaci di riconoscerne limiti ed errori, si prende atto che la produzione scientifica e lo sviluppo tecnico tornano «a sancire l'inevitabilità della scomposizione rigida dei fenomeni economici e sociali, a rivalutarne l’aspetto settoriale» (De Plato, vedi Atti del Convegno Nazionale del P.C.I., 1987), ma per un certo periodo si resta consapevoli che tale sfida non si può abbandonare perché «l'evoluzione scientifica (informatica, genetica, controllo del comportamento) pone problemi bioetici e di importante riflessione per l’organizzazione sociale» dentro cui bisognerebbe continuare ad avere un ruolo. Tale presa d’atto resta però senza conseguenze negli anni successivi[2].

Su questi temi Furio di Paola nel 2000 aveva opportunamente esortato il mondo erede della tradizione antistituzionale a riconoscere che le nozioni di base basagliane fossero state «obliate»: «Basaglia si potrà pure celebrare, purché storicizzato, perché applicarne i concetti all’oggi sarebbe sconveniente» (Di Paola, 2000). Di Paola aveva denunciato nello specifico che la precarietà epistemologica del progetto di una riformulazione della psichiatria su basi bio-neurologiche, definita una «cortina fumogena», esaltava la percezione della debolezza politica della nostra parte – incapace di riattivare lo scontro scientifico sul terreno dell’attualità. Negli ultimi decenni si è compiuta quella saldatura tra discorso scientifico e emersione politica del «soggetto cerebrale» (Vidal & Ortega, 2017) in cui la regione farmaceutica ha non solo sovradeterminato la maggior parte della pratica clinica (Lakoff, 2006) ma anche amplificato le tendenze individualistiche e asociali dell’autonomia e della prestazione, configurando nuovi modi dell’essere sociale (Ehremberg, 2007 e 2018; Rose, 2006)

Furio Di Paola aveva notato come, di fronte ai prodromi di questo fenomeno, si corresse il rischio di sventolare la bandiera di un Basaglia solo in quanto «storicizzato», vale a dire senza riportare le sue critiche all’attualità e considerando compiuta nella salute mentale dei giorni nostri, limitatamente alle sue «buone pratiche», la sua proposta. Di conseguenza, proponeva al movimento «basagliano» di scendere sul campo del dibattito scientifico psichiatrico, entrando nel merito dei limiti epistemologici, dei conflitti di interessi, delle fallacie logiche, delle contraddizioni teoriche e pratiche insite nel mainstream psichiatrico. Secondo Di Paola, senza un confronto scientifico nel merito delle teorie psichiatriche, l’incapacità di esprimere una posizione teorica avrebbe indebolito la nostra posizione culturale, ci avrebbe reso incapaci di vedere autocriticamente le contraddizioni della nostra pratica all’interno del mainstream della salute mentale e avrebbe reso la nostra posizione solo una moralistica petizione di principio, incapace di fronteggiare le sfide presenti.



Note [1] «La cura non è né femminile né maschile perché essa è semplicemente umana. La cura si occupa di bisogni corporei, di bisogni psicologici ma anche di bisogni organizzativi e amministrativi. La cura cioè si occupa anche di quello che l’antropologo americano Arthur Kleinman ha definito «social suffering». Nella cura si coniugano atti intimi e privati e atti sociali: la cura è anche una pratica sociale che richiede «politiche», finanziamenti e sostegni… Non vi è dubbio che la cura sia al tempo stesso un’azione gratuita e una pratica professionale. Allora, diciamo che la cura è un insieme di azioni tangibili, concrete e misurabili ma essa si invera soltanto se prestata insieme ad attitudini intangibili quali gentilezza, delicatezza, discrezione, rispetto. Dunque, la cura è azione pratica e affettiva al tempo stesso. Questa doppia natura richiede competenze pratiche e competenze affettive. Spesso i famigliari mancano delle prime e gli operatori sanitari delle seconde. Questa doppia natura della Cura costituisce in sostanza la sua complessità e la sua trasversalità nella vita di ognuno: una attività alta e profondamente umana poiché coniuga l’intimità segreta e privata dei corpi, la gentilezza e il rispetto per i viventi, le pratiche umili e quotidiane dell’accudimento ma anche la consapevolezza di non essere solamente solitari produttori di oblatività ma parti di una comunità umana e sociale fatta di solidarietà e di concreti sostegni istituzionali. La cura è dunque un complesso atto bio-psico-sociopolitico» (B. Saraceno, Prendersi cura e costruire la pace. SOS Sanità, settembre 2022).

[2] Tant’è che il sociologo Alessandro Dal Lago può scrivere nel 1992 «è interessante notare come questa dialettica della definizione patologica e deterministica della realtà sia stata accettata dai movimenti politici e sociali che rivendicavano una funzione autonoma o rivoluzionaria. Non penso solo al successo che la criminologia positiva ha ottenuto nel movimento socialista alla fine del XIX secolo; penso soprattutto all’accettazione, da parte dei movimenti antistituzionali contemporanei, di un ruolo deviante, marginale, in ultima analisi speculare alla definizione patologica prodotta dalle istituzioni» (A. Dal Lago, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo, prima edizione 1992, ombre corte. Verona 2000).


* * *


Luca Negrogno fa parte dell'Istituzione Gian Franco Minguzzi della città metropolitana di Bologna.


Benedetto Saraceno è psichiatra ed esperto di sanità pubblica. Ha lavorato a Trieste con Franco Basaglia e Franco Rotelli. Dal 1999 al 2010 è stato il direttore del Dipartimento di salute mentale e abuso di sostanze della Organizzazione mondiale della salute (Oms) e dal 2008 ha diretto il Dipartimento di malattie non trasmissibili. Attualmente è professore ordinario di Global Health alla Università di Lisbona. Durante la sua permanenza alla Oms, ha pubblicato lo storico Rapporto mondiale sulla salute mentale e ha sviluppato politiche di salute mentale e promozione dei diritti umani in paesi dell’Africa, delle Americhe, del Medio Oriente, del Sud Est Asiatico e dell’Estremo Oriente. Saraceno ha pubblicato più di duecento articoli su riviste scientifiche internazionali e alcuni libri fra cui, per DeriveApprodi, Sulla povertà della psichiatria (2017), Psicopolitica (2018) e Salute globale e diritti (2022).

コメント


bottom of page