Astri e rivoluzione
- Fabio Cuzzola
- 5 giu
- Tempo di lettura: 10 min
Cosenza 2004: dialogo con Franco Piperno

Una bellissima intervista a Franco Piperno, sinora rimasta inedita.
Siamo a Cosenza nel 2004. Passeggiando per il lungo Crati, Cuzzola e Piperno parlano della rivolta di Reggio Calabria, di come è stata all'epoca interpretata dal gruppo dirigente di Potere Operaio e del punto di vista dello stesso Piperno sugli scontri. Si apre così una riflessione più generale sui conflitti che hanno interessato la storia del Sud e sull'importanza che ha avuto in essi il senso di comunità, di appartenenza, di ricerca costante di identità.
«Reggio secondo me, andrebbe oggi rivista come un segnale partito troppo presto, un segnale di anticipazione di ripresa del Sud, una ripresa dal punto di vista della dignità, non dei soldi, dei soliti finanziamenti a pioggia. Un segnale non captato, non interpretato alla giusta maniera».
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L’appuntamento con il prof. Piperno è lungo il corso principale di Cosenza Vecchia; così vago lungo le strade di uno di questi miracoli dell’amministrazione Mancini: il nuovo centro storico del capoluogo bruzio. Ma è un miracolo tutto questo? Oppure solo una bonifica urbanistica, posta in essere grazie ai fondi europei, che ha finito per per cancellare uomini e storie, privandole di quell’aurea romantica che era la vecchia Cosangeles. Un mito lontano per noi giovani, pochi, cresciuti in riva allo Stretto, costretti ad eterni slalom e distinguo fra «Boia chi molla» e saluti romani.
Professore, sono qui, eccomi Fabio Cuzzola, piacere…
Piacere, andiamo facciamo due passi fin laggiù poi possiamo salire nel mio ufficio.
Va bene, se non le da fastidio proverei a registrare, sto raccogliendo le testimonianze utili per il mio saggio sulla Rivolta di Reggio Calabria.
Sì, non ci sono problemi. L’unico problema tra poco sarà il freddo, certo non è come quello del Canada ma punge.
Vero, non lo dica a me che vivo a Reggio. A proposito dove si trovava durante la Rivolta di Reggio?
A Roma, ero a Roma, gli anni di Potere Operaio.
Lei quei fatti per il capoluogo come li classifica?
Secondo me i fatti di Reggio sono simili alle rivolte che nel Sud si sono verificate periodicamente nella storia, in seguito a problemi di varia natura. A distanza di anni, ovviamente non è facile ricordare e di sicuro è diverso l’occhio che avevamo noi al tempo su queste cose rispetto alla lettura che ne possiamo fare oggi, passeggiando tranquillamente qui sul lungo Crati. Io ricordo tutto in modo nitido, perché sentivo Reggio vicina a me, anche se sono di Catanzaro! Ricordo di aver avuto un incontro con Mancini, allora segretario del PSI, per esaminare la situazione e ricordo bene che ci fu prima una riunione e poi svariati incontri promossi da Giacomo (ndr Mancini). Non lo conoscevo personalmente e tra l’altro quella fu tra le prime volte che ebbi l’occasione di approfondire il rapporto.
Prima lo avevo visto solo una volta a Catanzaro ad un processo per calunnia contro di lui, era molto preoccupato soprattutto per l’escalation violenta della piazza.
Posso solo immaginare la reazione nel vedersi tra i manichini impiccati ai fili della corrente elettrica, così addidati come feroci nemici della città, in tv, su tutti i giornali…
Credo che la sua non fosse paura, allora la violenza era una componente della politica, piuttosto credo fosse amareggiato. Abbiamo parlato a lungo in queste riunioni, noi avevamo un servizio d’ordine efficiente e avevamo parlato di come tentare di essere presenti nella rivolta, nel cuore della situazione, per cercare uno sbocco diverso da quello che sembrava.
E che iniziative avete promosso, che idee sono venute fuori?
Per me le idee nascono dalla prassi, dalla condivisione, quindi per capire sono andato lì, a Reggio, con quella che poi è diventata mia moglie! Abbiamo fatto l’errore di andare con la macchina che era targata Catanzaro! Tempo due-tre minuti dopo aver parcheggiato e ho visto che tutto attorno all’automobile si erano avvicinati un sacco di giovani. Ero pure preoccupato perché la macchina era nuova; ci siamo confrontati con questi ragazzi, una discussione anche accesa, e dopo aver parcheggiato in un luogo sicuro siamo entrati in un bar a parlare con la gente. In strada barricate ovunque, eravamo a Sbarre…
Dove sono nato e cresciuto io professore!
Davvero?! Comunque io parlavo cercando quanto più di nascondere il mio accento catanzarese. Parlavamo ma volevamo soprattutto ascoltare, ascoltare per capire. Siamo ripartiti la sera stessa. La mia intenzione era di ritornare con dei compagni di Gela. Già allora avevamo tanti compagni nelle fabbriche e l’atteggiamento degli operai era molto negativo, ostile nei confronti della rivolta reggina.
Le viveva quindi, una sofferenza in quei mesi, ovvero quella di vedere un focolaio di insorgenza che partiva dalla sua terra e non era compreso, viveva la difficoltà di inserirlo in una dialettica del gruppo in cui militava?
Sì, proprio così, ho molto riflettuto al tempo sulle deficienze di analisi della storia che c’erano nel mio gruppo; mi sono sentito chiamato in prima persona perché ero uno dei responsabili al livello nazionale. Pensavo che non ero riuscito – e forse non ci avevo lavorato troppo su – a fare entrare quella rivolta con le sue cause nelle tematiche del mio gruppo, a inserire quei problemi del Sud che erano così diversi e distanti da quelli che accadevano in Val Padana.
Come si forma una coscienza di classe, ove non esiste? Ovvero come mai la sinistra, non dico quella istituzionale, quella extraparlamentare, non è riuscita ad andare oltre la matrice del marxismo legato all’operaio della fabbrica, nel frattempo trasformatosi in operaio-massa? Al Sud c’erano tanti luoghi, anche urbani per capire un proletariato esterno, per dirla con Zitara [1], che in cerca di rappresentanza, penso a Palermo, Napoli, Catania….Reggio Calabria?
Noi avevamo affrontato questa storia del Sud nei termini di progettazioni operaie: per esempio a Napoli c’era un nostro gruppo all’Alfa Romeo, c’era il gruppo di Gela e c’era un gruppo che stava a Crotone, dove ero stato prima di scendere a Reggio. Non era facile intervenire perché c’era una tematica dominante che era quella legata al rinnovo dei contratti, c’era un lavoro preparatorio già fatto da mesi, battaglie che si facevano da anni in materia. Reggio è stata spiazzante per tutti e in particolare per la sinistra. Se pensi che la tematica iniziale di Reggio era nata tutta attorno alla questione con Catanzaro del capoluogo, una storia dai caratteri comici, quasi grotteschi... in realtà, se ci pensiamo bene, c'è qualcosa che è stato sempre presente nelle popolazioni meridionali: un forte senso di comunità, di appartenenza, di ricerca costante di identità che noi abbiamo profondamente sottovalutato. Abbiamo sbagliato a sinistra, anche noi della «sinistra extraparlamentare», salvo Sofri che intuì e scese da solo a Reggio, salvo poi mandare qualche compagno per creare un primo nucleo di Lotta Continua[2].
Sulla tematica operaia non abbiamo fatto molti passi avanti al tempo, la causa operaia era la nostra prima preoccupazione. Il gruppo era profondamente impermeabile ad ogni tipo di altra apertura.
Del resto proprio in quest’ottica, di ampliare, andare oltre la fabbrica mi sembra fosse stata proprio Lotta Continua a proporre lo slogan : «Prendiamoci la città!» un motto forte per un programma più gradualistico e alternativo che rivoluzionario tout cort…
Sì, «Prendiamoci» o «Riprendiamo la città», era un modo per trasferire la tematica, la lotta dalla fabbrica al sociale, in questo senso sì, sarebbe stato più facile capire Reggio e i suoi cittadini. La rivolta era capeggiata da elementi politici di destra, questo almeno nella seconda fase, ma era una rivolta, un sussulto dai contenuti profondamente popolari. La sua direzione, che poi manipolò il tutto, anche con il contributo di una campagna di informazione monotematica di governo, era fascista certo, ed una rivolta fascista faceva anche più notizia nel clima del contesto sociale della Guerra Fredda, con la storia che l’Italia aveva avuto.
Finita l’insurrezione violenta, dopo la repressione del governo Colombo, cosa avete fatto?
Ricordo bene un forte scontro dialettico avuto a Roma in un’assemblea accesa sul «che fare?» per Reggio; eravamo a Roma per un incontro sulle fabbriche, molti dirigenti e operai si erano pronunciati in maniera un po’ ostile verso la proposta di fare un spedizione, una manifestazione a Reggio. Era un momento embrionale, l’anticipo dell’idea di utilizzare gli operai come «guardie rosse».
Professore, sta facendo riferimento alla manifestazione dei sindacati «Il Nord e il Sud uniti nella Lotta»?! Quella del ’72, dei cinquantamila metalmeccanici che arrivarono a Reggio?[3]
Sì! Penso che fu un errore tragico! Secondo me non fu un caso che quella manifestazione fu così consistente numericamente, anche dal punto di vista del segno politico lasciato, una sorta di rottura con le popolazioni meridionali. Come dire: il Sud ha bisogno di essere liberato da qualcuno che viene da fuori! Per la sinistra quella è stata una boccata d’aria!
Ci fu sempre uno scontro tra noi e questa concezione di vedere le cose, come in occasione dei fatti della Sapienza.
Sì, la cacciata di Lama dalla Sapienza nel 1977, solo allora i sindacati e il PCI capirono «Le due società» come le definì Asor Rosa[4]. Al di là delle lacerazioni a sinistra, in quei momenti avete mai pensato che Reggio in mano ai fascisti, poteva diventare l’epicentro di un tentativo reazionario, di un colpo di stato?
C’erano delle analogie che tendevano a creare quel clima di allerta rispetto al quale noi eravamo increduli. Decondo me in Italia non era possibile fare un golpe, perché non c’erano uomini in grado di farlo.
Quindi per lei i tentativi di sovvertimento dell’ordine costituito sono stati solo «golpe da operetta»?!
Si tentava di destabilizzare per stabilizzare. Almeno per noi, ad esempio, le bombe alla banca dell’agricoltura di Milano, del dicembre 1969, hanno rappresentato un passo indietro del movimento; sono rimasto colpito nel vedere cittadini e operai in massa ai funerali, quel gran silenzio, come se la società civile volesse ovattare la democrazia; il movimento operaio accolse l’introduzione della tematica prevalente dell’antifascismo, a noi sembrava un errore perché per noi la storia dell’antifascismo rappresentava un blocco, un tentativo di silenziare le tematiche più avanzate.
Secondo lei è stata una strategia studiata a tavolino?
Probabilmente c’è stata una convergenza, anche se non credo al complotto, piuttosto è più probabile che interessi più reali della DC e degli industriali italiani, si siano concentrati, abbiamo fatto fronte comune, sfruttando la situazione, portando avanti questa tematica degli estremismi. Mentre per noi che stavamo in piazza non c’era alcun confronto tra noi e loro. Poi gli apparati militari italiani non erano in grado di fare un colpo di stato.
Dopo i lunghi anni vissuti all’estero, al suo ritorno che Calabria ha trovato?
Sono rientrato alla fine degli anni Ottanta dal Canada, dopo aver insegnato all’Università del Quebec, avendo vissuto lì ho potuto fare esperienza diretta della loro autonomia, una lunga tradizione di governo urbano, ad esempio la polizia municipale lì si occupa di tutto, non solo di traffico. Già dai tempi del liceo avevo delle perplessità su come si era data l'Unità d'Italia.
Lei ha studiato al Galluppi di Catanzaro giusto?
Sì, una scuola di vita, di studio…
Anch’io provo ad insegnare…
Il mio mentore è stato il prof. Mastroianni, l’ho conosciuto proprio al Galluppi, insegnava storia e filosofia[5]. Le dicevo: al liceo, avevo avuto delle perplessità sull’Unità d’Italia, un processo di cambiamento che opera trasformazioni profonde al Sud su una percentuale bassissima di persone, una élite. L’immersione nella vita canadese mi aveva fatto ripensare un po’ a tutto, anche alla necessità di mettere in campo nuove forme di partecipazione in grado di creare comunità, ma tornando in Italia mi sono scontrato con tutte quelle richieste, anche da parte della sinistra, di volere più Stato. Grazie alla legge sull’elezione diretta dei sindaci ho assistito ad un risveglio nel Sud: almeno sei o sette grosse città del Sud oggi sono governate in maniera eccellente. Reggio secondo me, andrebbe oggi rivista come un segnale partito troppo presto, un segnale di anticipazione di ripresa del Sud, una ripresa dal punto di vista della dignità, non dei soldi, dei soliti finanziamenti a pioggia, un segnale non captato, non interpretato alla giusta maniera.
Più appartenenza quindi e meno leggi speciali.
Proprio così.
Lei concorda con gli studiosi che individuando gli avvenimenti reggini come la fine della questione meridionale?
Secondo me Reggio rappresentava un segno inconsapevole, un elemento di straordinaria novità, le questioni riemergono nella storia e le situazioni di ripropongono.
Ciccio Franco, nella sua famosa intervista rilasciata ad Oriana Fallaci mentre era latitante, afferma che molti reggini si sono uniti alla Rivolta anche se non erano fascisti, perché solo i fascisti hanno saputo rappresentare Reggio, difendendola anche con la violenza [6]. Ecco, fino a che punto identità e rappresentanza si possono saldare, senza sfociare in chiusure etniche e campanilismi?
Non conosco Ciccio Franco e non ho mai letto niente in proposito, forse pensava alla Repubblica Sociale, ma quello stato di sociale non aveva nulla, era solo sodale di Hitler. Io penso che è importante far capire alle persone il concetto di «terra», questa terra è la tua terra, questa terra è la nostra terra…
Visto che siamo qui, un po' quello che affermava Telesio parlando di Cosenza: «La mia diletta città potrebbe benissimo fare a meno di me, ma sono io che non posso fare a meno di Lei che mi scorre nelle vene e amo».
Sì, e vale per ogni città, ogni luogo, ogni terra alla quale ci sentiamo di appartenere, e penso che sia così non solo per il Sud. Il nostro comune fa parte di una rete di municipi, un filone fondamentale anche per contrapporci all’associazione nazionale dei comuni italiani, i comuni cedono la loro sovranità a forme di cooperazione più alta, e non allo Stato, è il contrario quello che vogliamo fare; questo già avviene in tante zone d’Europa, abbiamo reti municipali in Francia, in Germania. Noi pensiamo ad un’Europa delle città, non degli Stati. Quindi da questo punto di vista la Rivolta di Reggio andrebbe letta ed inserita nella storia come un primo barrito.
Note
[1] Nicola Zitara, Il proletariato esterno, Jaca Book, 1972.
[2] Sulla formazione del primo gruppo di Lotta Continua a Reggio durante la Rivolta vedi Fabio Cuzzola, Reggio 1970. Storie e memorie della Rivolta. Donzelli Editore, 2007.
[3] Vincenzo Guerrazzi, Il Nord e il Sud uniti nella lotta, 2003, Fratelli Frilli editore, 2003.
[4] Alberto Asor Rosa, Le due società, Einaudi, 1977.
[5] Sull’esperienza scolastica di Piperno si veda: Enzo Galiano, Vecchio Galluppi – un liceo, una città, Rubbettino, 1991.
[6] Su Fascismo e Rivolta si veda «Da D'Annunzio a Ciccio Franco, ovvero: un paio di frottole neofasciste sulla Calabria» di Lou Palanca 2, pubblicato sul sito Wu Ming Foundation.
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Fabio Cuzzola è insegnante, ha maturato la sua esperienza autoriale partendo dallo studio delle fonti orali. Dalle sue esperienze di ricerca storica sono nati: Reggio 1970(Donzelli, 2007), Cinque anarchici del Sud (Castelvecchi, 2020). Dal 2012 fa parte del collettivo di scrittura Lou Palanca, grazie al quale è approdato al genere del romanzo storico politico firmando: Blocco 52 e Ti ho vista che ridevi (Rubbettino, 2013 e 2015). Per DeriveApprodi ha pubblicato: Uccidete il Dj. Il Settantasette in riva allo Stretto (2024).
Franco Piperno (1943-2025) è stato protagonista presso il comune di Cosenza dell’ideazione e creazione del nuovo planetario, professore di Struttura del materia e Astronomia visiva all’Università della Calabria ed è altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia. Ha curato per Machina la sezione «sestanti».
Per DeriveApprodi ha pubblicato: Lo spettacolo cosmico. Scrivere il cielo: lezioni di astronomia visiva (I edizione 2007) e Il vento del meriggio (2008).
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