Oltre il Muro
- Gigi Roggero
- 23 lug
- Tempo di lettura: 8 min

Kairos di Jenny Erpenbeck (Sellerio, 2024) è un romanzo complesso, in cui la storia di amore e ossessione tra Katharina e Hans si intreccia in modo inestricabile con il clima e lo zeitgeist di Berlino Est nella seconda metà degli anni Ottanta e subito dopo il crollo del Muro. Gigi Roggero non si limita a una recensione, ma propone un’analisi su nodi storici e politici che interrogano il nostro presente.
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Kairos, il dio dell’attimo fortunato, ha – dicono – un ricciolo che gli ricade sulla fronte, e da quello soltanto lo si può trattenere. Ma non appena il dio passa oltre con i suoi piedi alati, ci offre solo la parte posteriore del capo, che è calva e liscia, senza alcun appiglio da cui poterla afferrare.
Kairos di Jenny Erpenbeck è una straordinaria fotografia in movimento di Berlino Est nello snodo cruciale tra gli anni Ottanta e Novanta. È straordinaria da tanti punti di vista, come sanno spesso fare i libri, e soprattutto i romanzi. E noi, tra questi punti di vista, scegliamo il nostro. Della fotografia lasciamo ciò che è in primo piano all’analisi di chi è più competente. Sintetizzando brutalmente, è la storia di una giovane studentessa, Katharina, e di uno scrittore sposato di mezza età, Hans: una storia d’amore e di ossessione, una storia sulla sofferenza del restare e sul trauma dell’abbandono, una storia sul desiderio di lasciarsi trasportare dalla corrente e sulla sicurezza del raggiungere la riva. Ecco allora che, dalle microstorie individuali, emerge con forza la metafora della macrostoria collettiva. E questa macrostoria collettiva si chiama Berlino Est, ovvero un pezzo di quel grande esperimento, il più grande della storia moderna, di rompere con il capitalismo e costruire una nuova società. È questo lo sfondo del romanzo su cui ci vogliamo concentrare. Uno sfondo che, nelle pagine di Erpenbeck, parrebbe lontano, soffuso, quasi impercettibile. Eppure, a ben guardare, è immancabilmente presente, pesante, talora soffocante. Uno sfondo senza cui le piccole storie come questa perderebbero la loro tragica intensità.
I consumatori della merce culturale sono oggi terrorizzati dagli spoiler. Come se contasse solo come va a finire. Ebbene, se come è andata a finire la grande storia sullo sfondo è risaputo, come va a finire la piccola storia in primo piano lo si può forse intuire. Ma non è questo il punto. L’autrice ci costringe ad andare oltre le facili conclusioni, a scavare nelle contraddizioni, ad addentrarci nei labirintici laboratori di produzione della storia, grande e piccola. E qui ciò che era sullo sfondo balza improvvisamente in primo piano. E ci rendiamo conto che, anche se non lo vedevamo, era in realtà sempre stato lì.
Arriviamo agli ultimi capitoli. Mentre la microstoria va in pezzi, collassa, si smembra, la grande storia la segue, o meglio la anticipa e la illumina. Nel giro di pochi mesi, ora che il Muro non c’è più e hanno cessato di essere i coccolati «profughi dell’est», masse di berlinesi provenienti da oriente perdono la casa e il lavoro, mentre la loro moneta diventa carta straccia. Inizio 1990, Hans legge: «Mercoledì la libreria popolare “Karl Marx” ha svuotato i suoi magazzini. Bisogna far spazio alle novità, spiega il direttore della libreria. Nemmeno certi libri di qualità si sono potuti salvare. Per molte tonnellate di libri l’unica soluzione è stato il servizio di nettezza urbana». È l’Unione monetaria, bellezza. E così, «la stella rossa adesso la si può comprare al mercato delle pulci; poco prima dell’avvenuto distacco dal paese che i loro nonni avevano sconfitto, i nipoti sovietici capitolano ora davanti al denaro dei tedeschi».
Hans ricorda lo spiazzante stupore provato osservando, attraverso il microscopio della moglie Ingrid, molecole riscaldate che si mettono in movimento in una configurazione casuale. La domanda è solo questa, disse lei: «quale forma assumerà il tutto, quando tornerà a trasformarsi in materia solida?». Immagine bellissima, per guardare il crollo del Muro attraverso il microscopio della storia. Per i berlinesi dell’est, aggiunge però Erpenbeck, la domanda è rimasta questa solo fino al 18 marzo, data delle elezioni parlamentari anticipate, e «il primo parlamento eletto democraticamente decide di abrogarsi – proprio come aveva previsto Hans». Se fino ad allora si parla ancora di cooperazione tra i due Stati, da quel momento in poi resta più solo la parola «unificazione». Per tradurre: chi ha vinto non fa prigionieri. E nel frattempo Ingrid, come un altro migliaio di colleghi, ha perso il suo posto all’Accademia delle Scienze. Istituzione da consegnare alla nettezza urbana, come le tonnellate di volumi della libreria «Karl Marx».
Quelle molecole che si sono messe in movimento per far esplodere una configurazione divenuta insopportabile, adesso – senza rendersene conto – sono obbligate e ricomporsi in una nuova forma, a loro completamente estranea. Ascoltiamo il racconto di Erpenbeck, perché è difficile spiegarlo meglio.
Individui che durante l’inverno e all’inizio della primavera hanno conosciuto l’ebbrezza dell’autodeterminazione, adesso invece di forgiare concetti nuovi di zecca dovrebbero mettersi a studiare le leggi della Repubblica federale.
Invece di discutere chi, d’ora in poi, dovrebbe dirigere questo o quel reparto, questa o quella brigata, dovrebbero imparare che cosa significa società a responsabilità limitata o come si configura il diritto federale attinente alle fondazioni.
E invece di potersi finalmente rallegrare per le consultazioni con cui il corpo elettorale è chiamato a esprimersi su questo o quel tema e che stanno alla base della democrazia, dovrebbero imparare come funziona uno Stato, in cui ogni Land controlla le proprie finanze.
E tutto questo nel giro di sei mesi.
Ma non sanno che proprio questo dovrebbero fare.
Hanno imparato a scuola che cosa significa proprietà privata dei mezzi di produzione, che cosa significa quando una società funziona secondo i principi dell’economia di mercato, ma non lo hanno mai riferito a se stessi. Se le loro istituzioni e quindi i loro posti di lavoro dovranno sopravvivere all’autunno, loro – gli individui che sino retti da quelle istituzioni e svolgono quei lavori – dovrebbero avere un passato diverso da quello che hanno, dovrebbero essere diversi da quelli che sono, dovrebbero diventare quello che non sono.
Tutto quello che dovrebbero essere o fare, non lo sanno, non lo vogliono e non è in loro potere.
Trasformarli in quello che non sono: ecco il nodo. Di fronte alla macchina di sussunzione capitalistica, su questo terreno è radicalmente fallito l’esperimento comunista: la produzione di soggettività. E non ce la caviamo con le battute, raccontando che i giovani dall’Est volevano scappare per andare nei sexy-shop e nei centri commerciali. O forse, il fatto che ciò fosse almeno in parte vero, ci rivela la più grande sconfitta. Il desiderio della forma-merce non poteva essere negato o represso, perché inevitabilmente sarebbe riemerso ed esploso nelle sue forme più brutali. Quel desiderio andava trasformato in un campo di battaglia: lì, dentro la produzione di soggettività, doveva passare lo scontro di civiltà tra mondi radicalmente opposti. Quella non era una semplice battaglia. Lì si è persa la guerra.
Eppure, resta un tremendo nodo da sciogliere. Erpenbeck, a distanza di sicurezza dalle celebrazioni a destra e a sinistra sul trionfo della libertà, ce lo sbatte in faccia. Sarebbe potuta andare in modo differente? È una questione, pesante come un macigno, da affidare a storici seri, coraggiosi e non piegati alla propaganda dei vincitori. E dentro questo nodo storico, c’è un nodo politico che interroga tutti coloro che, senza alcuna indulgenza per i vinti, conservano intatto l’odio per i vincitori: davvero, per citare il famigerato motto thatcheriano, non c’era alternativa a quell’epilogo?
Potremmo sostenere, come già abbiamo fatto, che il problema sta altrove: è nella sconfitta delle insorgenze del lungo ’68, ben prima che tra le macerie del Muro, che si afferma la controrivoluzione capitalistica. Oppure che le ultime possibilità di autoriforma del socialismo realizzato sono state schiacciate dai carri armati sovietici, tra Budapest e Praga. Tutto o quasi tutto vero, forse, ma il terribile nodo ci pare più aggirato che sciolto. Un nodo che abbiamo paura e imbarazzo a porre, perché immediatamente sibila nelle nostre orecchie l’aspra domanda stigmatizzante, demagogica e retorica: vuoi allora dire che hanno sbagliato i giovani a ribellarsi e prendere a picconate quel maledetto Muro? Le moltitudini che si ribellano non sbagliano. È mancata in quella ribellione, questo sì, potere e immaginazione costituente. Soprattutto è mancata, dall’«alto», la capacità di trasformare quella ribellione in una risorsa. È cioè mancato quello che il capitalismo ha sempre fatto e continua a fare: la capacità di trasformare continuamente il conflitto, anche radicale, in motore del proprio sviluppo.
Insomma, non serve a nulla preoccuparsi di mantenere l’anima linda se le mani sono ogni giorno insozzate dal mondo in cui viviamo. La nostalgia per quello che era è come l’apologia di quello che è, una cosa orribile. E in una storia, nella propria storia, bisogna fare i conti con tutto: non si può scegliere quello che piace e rimuovere quello che non piace. Questa è la differenza tra giocare una partita e tifare dalla poltrona, tra l’essere militanti e consumatori, tra le contraddizioni del reale e le fantasie palingenetiche dei social network. All’altezza di questo chiarimento, Erpenbeck sembra suggerirci una feconda pista di ricerca: in quello snodo storico, tanto accelerato da sfuggire alla capacità di controllo di chi l’ha voluto, «d’un tratto il tempo è diventato un corsetto di ferro». Ebbene sì, poteva andare diversamente. Non si trattava di tornare indietro con i vinti. Si trattava, piuttosto, di non andare avanti nella direzione obbligata dei vincitori. Tra l’avversione per quello che è stato e il rifiuto di quello che è, avrebbe potuto germogliare qualcosa di differente. Lì era il kairos da afferrare.
Mancata quell’occasione, la storia ha ripreso a correre sui suoi binari, senza freni di emergenza e con tutto ciò che ne è seguito: tanto per dirne una, col Muro sono definitivamente crollati welfare e salari. E questo è un dato di fatto, non una valutazione. Più complessivamente, finito lo scontro di classe, è iniziato lo «scontro di civiltà». Huntington, correggendo radicalmente la propaganda di Fukuyama, lo ha capito subito. Non più due civiltà contrapposte, ma un’unica civiltà globale – quella capitalistica – attraversata al suo interno dalla frattura tra the west e the rest. Razza e nazioni, travestite da etnie e fedi religiose, sono perciò diventate le radici di lotte e guerre.
Consigliamo, dopo aver letto il libro, di andare a fare una passeggiata a Berlino. Consigliamo di farla non come turisti-massa, ma tentando di assomigliare all’angelus novus di Benjamin, con lo sguardo che scruta il presente e gli occhi della mente rivolti al passato. Partiamo dalla Karl Marx-Allee, con la sua solenne gravità. Un pensiero balza agli occhi della mente: si è erroneamente immaginato lo sviluppo del comunismo come questo meraviglioso viale, nel suo progredire di simmetrica uguaglianza e lineare progressività, la lunga marcia della storia oggettivamente volta a un telos in cui, ben prima che lo affermasse nel campo opposto il mediocre Fukuyama, la storia stessa sarebbe finita. Di questa catastrofe storicista anche Marx è, pur con alcuni ripensamenti, certamente responsabile; non è riuscito a presentire l’ammonimento trontiano, non si può essere più moderni del capitalismo. Proseguiamo poi costeggiando quella che era la zona di faglia, quei resti dell’ex Muro dove, dopo l’89, i murales inneggiano al suo crollo. East Side Gallery, l’hanno chiamata i finanziatori, esposizione universale e universalistica che ci dice quanto la libertà sia finalmente un’esperienza escursionistica da consumare. Arriviamo a Kreuzberg, che a quel tempo si è guadagnata il titolo di roccaforte della controcultura, isola marginale di ribellione, oggi proprio per questo tappa obbligata di tripadvisor. Già, perché in un mondo senza alternative di sistema, le alternative vivono nei margini della tentacolare forma-merce, e anche i ghetti diventano profittevoli mete turistiche. È la gentrificazione del degrado. In questo salto tra la tragica maestosità della Karl Marx-Allee e l’addomesticato caos di Kreuzberg, salto non solo geografico ma innanzitutto temporale, ci troviamo anche noi irrimediabilmente spinti nel futuro – ovvero, nel «corsetto di ferro» della storia. E ci pare di aver smarrito non solo le risposte, ma prima ancora il coraggio di porci le domande centrali. Tuttavia, anche nella tempesta del progresso, il kairos è sempre una possibilità per quell’angelo che non ha rinunciato a volare.
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Gigi Roggero è il direttore editoriale di DeriveApprodi. Pubblicista militante e curatore, per Machina, della sezione freccia tenda cammello. Ha pubblicato con DeriveApprodi: Elogio della militanza (2016), Il treno contro la Storia (2017), L’operaismo politico italiano. Genealogia, storia e metodo (2019), Per una critica della libertà. Frammenti di pensiero forte (2023); è inoltre co-autore di: Futuro anteriore e Gli operaisti.
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