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Lotta contro il lavoro – Autonomia di classe



«Edizioni politiche» è stato un progetto editoriale di Potere operaio che si proponeva di far circolare «quei materiali che di volta in volta l’avanzamento del processo organizzativo richiederà». All’interno di questa iniziativa militante veniva pubblicato l’opuscolo Usa ’70, come supplemento al numero 38 di «Potere operaio», con contributi di Philadelphia Solidarity, Colin Ericson, League of Revolutionary Black Workers, Collettivo esteri di Po. Riproponiamo qui un testo sulle lotte operaie negli Stati Uniti, innanzitutto nella sua città industriale per eccellenza, Detroit. Il contributo mostra, in quella specifica fase storica, come i comportamenti di insubordinazione e le forme di conflitto dentro e contro la fabbrica – dagli scioperi a gatto selvaggio ai sabotaggi e all’assenteismo – siano stati dei processi di massa internazionali; analizza il ruolo del sindacato, al contempo usato e combattuto dagli operai; evidenzia, nel fuoco delle lotte, la dimensione strategica del rifiuto del lavoro e dell’autonomia operaia. Un altro contributo del volume, il «Programma generale della Lega degli operai rivoluzionari neri», è stato pubblicato nel recente volume curato da Anna Curcio Black fire. Storia e teoria del proletariato nero negli Stati Uniti (collana Input di DeriveApprodi).



In settembre James Johnson, un operaio di catena espulso da una fabbrica Chrysler di Detroit va a casa a prendersi il fucile, torna in fabbrica e uccide due capi e un delegato sindacale che tentava di calmarlo... L’allegoria non si ferma qui perché il giorno dopo tutti gli operai delle catene di Detroit hanno incollato sulle sedie dei capi dei ritagli di giornale che raccontavano il fatto. Era il terzo caso recente di uccisione di un capo. È senza dubbio pensando a incidenti «del genere» e altri minori ma infinitamente numerosi che i sociologi di servizio parlano di «crisi di autorità» nella fabbrica. La rivolta proletaria nei luoghi di produzione stessi prende attualmente negli Usa le forme e l’organizzazione più diverse, dal sabotaggio alla violenza fisica contro gli agenti diretti della repressione padronale, fino a passare per questo nuovo fenomeno di massa che è l’assenteismo. I suoi effetti sono tanto più sentiti dal capitale quanto più non sono incanalabili verso forme istituzionali, sindacali o altre. «I costi dell’assenteismo e della mobilità della forza lavoro aumentano straordinariamente ed è sempre più difficile mantenere la disciplina».

La rivista «Fortune», portavoce del grande capitale Usa, ha dedicato ultimamente uno studio alla condizione degli operai di fabbrica. Si trattava di sapere che succede a quella gente, per sapere che fare. Alla Ford e alla GM l’assenteismo è raddoppiato negli ultimi anni, mentre alla Chrysler ha raggiunto il 18.6%. Alla GM il 5% dell’insieme degli operai manca ogni giorno «senza alcuna giustificazione»; il lunedì e venerdì la cifra raggiunge il 10%. Recentemente la direzione GM pubblicava il seguente comunicato: «molti operai che si ammalano durante la settimana non tornano al lavoro che il lunedì successivo. Ora non è affatto normale che tutti guariscano lo stesso giorno!». Un’altra impresa rende pubblico uno dei suoi ultimi studi: «in un ufficio normale, per ogni sette impiegati ce ne vuole uno in più per mantenere costante il lavoro prodotto. La ragione è il tasso di assenteismo».

Questo rifiuto di massa del lavoro, fuori e contro le promesse demagogiche dei sindacati che lottano per le ore straordinarie volontarie, è oggi l’espressione più netta dell’autonomia operaia.

Per quel che riguarda il sabotaggio, i costruttori di vetture hanno fatto recentemente sapere che le crescenti proteste contro la cattiva qualità delle macchine hanno avuto per primo effetto l’aumento del numero dei collaudi e quindi dei costi di produzione. I sabotaggi più frequenti sono: difetti del sistema di frenaggio, stoffe rovinate a colpi di coltello, verniciature e saldature mal eseguite. Aggiungiamo a tutto questo un enorme tasso di mobilità degli operai, circa il 25% l’anno alla Ford, e un ritardo crescente delle ore di arrivo delle équipe, il che comporta il ritardo della messa in marcia delle catene ecc.

Il capitale si trova dunque a fare i conti con un vero e proprio rifiuto di massa, in qualche modo organizzato (perché se l’assenteismo comincia con un gesto individuale, è diventato tra i giovani operai di Detroit e di Chicago una pratica collettiva di massa) dell’insieme dell’organizzazione del lavoro sia all’interno della fabbrica che nello spazio sociale determinato dalla fabbrica. Sono stati fatti dei tentativi per dividere gli operai alla Chrysler di Baltimora, in un giorno di forte assenteismo la direzione ha lasciato fuori tutti quelli che erano venuti a lavorare, dicendo loro che la colpa era degli assenti ma che non si poteva lavorare in quelle condizioni. La reazione è stata talmente vivace che il metodo è subito stato considerato fuori moda. Del resto, i sociologi sono unanimi nel criticare il ricorso alla forza; «soprattutto, niente provocazioni», dicevano i burocrati del sindacato dell’acciaio. Lo studio di «Fortune» offre esempi di piccole imprese che hanno ricostituito il ciclo completo della produzione per ciascun operaio al fine di «combattere» il carattere totalmente astratto del lavoro. Ma se da una parte questi cambiamenti non sono possibili che in piccole unità di produzione (radio, vetri ecc.), d’altra parte gli specialisti sono rapidamente arrivati alla conclusione che se la produttività (frutto così raro e così ricercato) aumentava effettivamente, i salari aumentavano ancora più in fretta, dal momento che gli operai divenivano ancora più esigenti alla vista del prodotto del loro lavoro. Alla fine, la grande idea-forza che salta fuori è quella della «democratizzazione della fabbrica». «Fortune» va tanto lontano quanto la sinistra sindacale in Europa e la sua nuova ideologia, con l’autogestione e il controllo operaio per meglio rilanciare presso gli operai la necessità di restare tali: «dare agli operai più responsabilità, obbliga necessariamente la direzione a delegare la propria autorità e ad accettare le decisioni prese dagli operai. Autorità diffusa non significa applicazione della gestione, ma semplicemente che le decisioni possono essere prese dalle persone direttamente impegnate nella produzione e dunque le più qualificate a prenderle».


In altri termini, davanti alla forza autonoma dell’interesse operaio, davanti alla capacità della classe operaia a riunire attorno alla sua pratica e ai suoi obiettivi l’insieme dei settori della forza lavoro sociale, il capitale esprime la sua ultima ideologia, quella del controllo dello sfruttamento da parte degli stessi sfruttati; il potere di «recupero» del capitalismo è grande: il tentativo di integrare lo stesso controllo operaio nel processo di sfruttamento è chiaro nella dichiarazione del capo del personale della GM a «Fortune»: «Noi siamo davanti a cambiamenti vitali, critici, nella nostra società. Il problema attuale è di sapere come possiamo capitalizzare tutto questo, come possiamo sfruttare le forze di innovazione e ottenerne un profitto». Più deboli dei loro soci americani, i capitalisti francesi non possono offrirsi il lusso di gestire essi stessi questa nuova ideologia; ne incaricano la Cfdt [Confédération française démocratique du travail], i «Cahiers de Mai». Il problema è che nell’attuale rapporto di classe negli Usa, il sindacato è l’unica istituzione che potrebbe assumersi questo compito all’interno della fabbrica. Ora, il sindacato ha oggi dei rapporti con la classe troppo instabili per assumere senza problemi un compito di polizia nei confronti della lotta autonoma contro il lavoro. Ciò significherebbe controllare l’assenteismo, impedire il sabotaggio; oggi ciò equivarrebbe all’instaurazione della lotta aperta tra sindacato e classe all’interno delle fabbriche. Ed è qui che la prospettiva di perdere qualsiasi controllo sui movimenti di classe non può sorridere a nessuno e meno che mai ai padroni.

Non si tratta di vaticinare la crisi catastrofica del sistema americano; questo sciopero in particolare è legato alla crisi specifica dell’auto; d’altra parte, la crisi dell’auto nel capitalismo avanzato si ripercuote dapprima su tutto l’apparato produttivo e poi sui rapporti tra gli Usa e i suoi concorrenti e rinvia in ultima istanza all’insieme dell’organizzazione sociale.

Spinto dall’attacco operaio, il capitalismo americano tenta di trovare una soluzione alla crisi, soluzione che conduce alla ristrutturazione complessiva dell’apparato produttivo e delle basi di accumulazione, dapprima a livello americano e poi a livello mondiale, col seguito di riaggiustamenti dei singoli paesi e con la ridefinizione della divisione internazionale del lavoro, che comprende, non dimentichiamo, l’Urss e i paesi dell’Est (vedi, in particolare, l’attuale virata verso Est di cui il patto tedesco-sovietico rimane l’operazione più spettacolare). Nel breve periodo, ben più che le proteste della sinistra benpensante è la situazione della lotta di classe che sta all’origine dei tentativi fatti per stabilizzare la guerra nel Vietnam (diminuzione delle operazioni militari, rinforzo dei giochi diplomatici attraverso i paesi dell’Est). Al centro di questo progetto di ristrutturazione si trova la società dell’auto, cioè tutto lo spazio della vita sociale prodotto attorno all’automobile: l’urbanesimo, i trasporti, l’inquinamento. Per il momento, si tenterà di rispondere alla pressione operaia con un rafforzamento della composizione organica del capitale, cioè con un «salto tecnologico» destinato ad accrescere la violenza del capitale morto (macchine, organizzazione sul lavoro vivo). Beninteso, un salto del genere pone immediatamente il problema già visibile dell’abbassamento del saggio di profitto e d’altra parte tutti i problemi non meno evidenti della concorrenza intercapitalistica (gli Usa sono oggi direttamente e duramente costretti a subire la concorrenza da parte del Giappone e della Germania in particolare nella stessa America Latina). La fabbrica che la GM ha appena aperto a Lodrstown, nell’Ohio, è il tentativo di rispondere all’innalzamento dei costi di produzione. Per ammortizzare gli enormi investimenti richiesti da questa fabbrica superautomatizzata, la GM vede cadere l’utile globale della metà e addirittura dei 2/3.

Non è inutile sottolineare che il sindacato è in trattative con la GM per stabilire il numero degli operai per catena e cadenze nella nuova fabbrica.


Di fronte alla massificazione dell’attacco di classe, il movimento studentesco da parte sua si decompone soprattutto dopo che il movimento spontaneo era giunto allo sciopero generale dell’anno scorso. I gruppetti si rivelano incapaci di comprendere la situazione del capitale (in particolare la funzione produttiva della scuola in quanto formazione di forza lavoro più o meno qualificata) così come l’attività propria della classe operaia. Gli studenti americani hanno scoperto certamente anch’essi il movimento operaio, ma soltanto nella prospettiva di «educarlo». Nell’attuale fase di lotta e in quelle che la seguiranno, la capacità della classe operaia di imporre i propri obiettivi e di sviluppare il proprio autonomo movimento contro il lavoro di fabbrica non mancheranno di giocare un ruolo essenziale nello sviluppo di un discorso chiaro di classe a livello di massa. Il 12 novembre la General Motors e i sindacati dell’auto annunciano l’accordo che doveva mettere fine allo sciopero. Già da qualche settimana ce n’erano le avvisaglie; l’attesa è stata rafforzata dall’apertura di negoziati «a porte chiuse» (cosa che dà la misura del carattere democratico del grande sindacato del defunto Walter Reuther). Gli operai da parte loro se ne sono rimasti silenziosi nei loro picchetti. Una prima constatazione si impone a proposito di questi ultimi sviluppi: il capitale americano esercitava pressioni crescenti per finirla con lo sciopero. Per la prima volta nella storia dell’automobile, un membro del Ministero del lavoro è stato mandato dal governo a Detroit con il ruolo di esprimere il «malessere» del padronato e del governo stesso, tanto più che quest’ultimo non riusciva a mettere in piedi una politica congiunturale attiva. «Lo sciopero ha scombinato tutti i nostri piani economici e non possiamo aspettare ulteriormente la firma del contratto» [1].

La stessa General Motors aveva confermato qualche giorno prima che lo sciopero stava per toccarla più del previsto. Insomma il ruolo deflazionistico che lo sciopero era stato chiamato a giocare dal capitale, non ha funzionato secondo le previsioni.

È in questo contesto che l’accordo è apparso improvvisamente come una vittoria sindacale. In effetti, il sindacato complessivamente ha ottenuto soddisfazione per la maggior parte delle rivendicazioni. Questo elemento ha, come si vedrà, un’importanza fondamentale per comprendere l’autentico significato dell’accordo. Gli aumenti salariali ottenuti vanno da 48 a 61 centesimi per il primo anno, mentre il sindacato ne domandava 61 dappertutto; viene concessa la scala mobile senza limiti, come era chiesta; finalmente i «30 and out» (trent’anni di lavoro e in pensione) sono praticamente dati, con qualche lieve modifica: 58 anni è l’età limite per il 1971, 56 per il 1972, cambiamenti che non concernono tutti coloro, l’enorme maggioranza, per i quali questa rivendicazione non esprimeva poi un granché («chi vuol fare questo lavoro per trent’anni?»).

Questi vantaggi, che rappresentano nella loro totalità un aumento di salario del 30% circa scaglionato in tre anni e l’allineamento con l’aumento dei prezzi, superano dunque di gran lunga il contratto inflazionisticodella General Electric all’inizio dell’anno.

Il contratto firmato suona dunque come uno smacco per tutti coloro che si erano arroccati nell’idea di una resistenza vittoriosa della General Motors, chiamata per la sua mole e la sua minore sensibilità alla concorrenza, a rovesciare il rapporto di forza nella lotta sul salario, portata avanti con continuità dalla classe operaia americana da un anno.

Non è dunque la General Motors che ha esaurito il voto dell’Us Steel, il colosso dell’acciaio, secondo il quale questo sciopero avrebbe dovuto costituire «il momento di bloccare la ritirata dei datori di lavoro» [2].


In un primo tempo sembra che questo grosso pacchetto sia stato accettato dalla maggioranza degli operai, che l’hanno considerato non troppo malvagio (se si pensa che nel maggio del ’68 gli operai francesi non avevano ottenuto niente di simile...). Si aggiunga il ruolo che gioca la cassa-sciopero del sindacato col suo potere sulla classe. Poiché il fondo era pressoché esaurito, era arrivato il momento di far pressione sugli operai per la ripresa del lavoro.

Il sindacato resta tuttavia cosciente che se quest’arma ha giocato a livello di sciopero nazionale, si tratta ora di far firmare i contratti locali, fabbrica per fabbrica. Come diceva uno dei membri della direzione del sindacato dell’automobile (Uaw – United Automobile Workers), «se la totalità dei contratti locali non viene firmata verso la metà di novembre, rischiamo di perdere il controllo di tutta la baracca» [3].

La General Motors, la più grossa impresa mondiale ha veramente ceduto, che cosa è successo? si domandava il «Wall Street Journal». L’accordo che mette fine allo sciopero non fa altro che tradurre le posizioni del sindacato e del padronato. La questione centrale della situazione di classe negli Usa, e di cui lo sciopero era un momento, è quella dell’insubordinazione operaia. Ora, a questa domanda non è stata data alcuna risposta definitiva. Non si tratta per la General Motors di resistere sulla questione salariale, dovendo questa trovare la sua contropartita nell’aumento della produttività. È dunque a questo livello che bisognava battersi. Produttività vuol dire, beninteso, in termini di economicità, aumento della composizione organica del capitale, cioè aumento del capitale costante (macchine, tecnologia, organizzazione) sul capitale variabile (salari); vuol dire, ancora, accentuazione della famosa caduta del saggio di profitto... ma in termini di classe, questo «salto tecnologico» di cui la fabbrica di Lordstown è la prefigurazione con la sua estrema automatizzazione, vuole dire esattamente una violenza crescente sul lavoro vivo, un incatenamento ancora più stretto alla macchina e all’insieme dell’organizzazione del lavoro. Per la General Motors, tutto il problema sta nell’incapacità di battere l’indisciplina di fabbrica. L’eccessiva mobilità, il sabotaggio, l’assenteismo, ecco i nuovi spettri che impauriscono il capitale negli Usa forse più che dovunque. È qui che il ruolo del sindacato è primario. Si è visto come il controllo che esso è capace di assicurare a questo livello si è progressivamente indebolito in questi ultimi anni. Questo sciopero era, per così dire, l’ultima occasione di rilanciare il sindacato agli occhi della classe operaia al fine di bloccare il numero crescente di scioperi selvaggi e di permettergli di riprendere il controllo sulla base.

I risultati dell’accordo General Motors-sindacato dell’auto devono dunque essere misurati su questo terreno. Il «Wall Street Journal» del 20 novembre scrive che bisognava dare al sindacato in prova con la sua prima grande crisi di autorità dopo vent’anni, «la possibilità di uscire più forte dallo sciopero perché esso possa così essere in grado di rispondere con più fermezza ai suoi membri, che oggi sono più giovani, meno degni di fiducia e sempre più critici di fronte al sindacato e all’azienda» [4]. Forse, ancor più chiaramente essi aggiungono: «i capi dello Uaw non esercitavano più sui loro aderenti e sui delegati di base il controllo di cui la General Motors aveva bisogno. Il risultato, secondo la General Motors, si può vedere nell’assenteismo crescente, nel numero sempre crescente di scioperi locali, nell’abbassamento della produttività e nel deteriorarsi delle vetture» [5]. Il contratto firmato sottolinea dunque il passo fatto dalla General Motors per aiutare il sindacato a riprendere il controllo della situazione mediante un buon risultato. Ma quali garanzie immediate può esso ricevere in cambio? A questo proposito l’incertezza dà tutta la misura della situazione di classe negli Usa e specificamente dei rapporti tra sindacato e classe.

Il padronato ha chiesto allo Uaw di impegnarsi su un certo numero di punti a proposito della disciplina di fabbrica. La principale esigenza era la limitazione del numero delle «richieste» (cioè ogni sorta di rivendicazioni concernenti le condizioni di lavoro ed espresse dai delegati di base). Si sa infatti in quale maniera il numero crescente di rivendicazioni blocchi spesso il funzionamento delle fabbriche. Un’altra esigenza tendeva a far amministrare alla cassa del sindacato una parte delle spese mutualistiche; con questo sistema, la General Motors voleva corresponsabilizzare più strettamente ancora il sindacato nel controllo dell’assenteismo. Ora, in un caso come nell’altro la General Motors domandava troppo al sindacato dell’auto, trovandosi finalmente in contraddizione col proprio riconoscimento della debolezza del sindacato. Il sindacato dell’auto non si è troppo impegnato su questi punti perché non poteva farlo! Ora, bisogna che esso sia sicuro che il contratto ha veramente consolidato la sua posizione: nulla è meno evidente di ciò!


È dunque vero che lo sciopero della General Motors non ha lasciato trasparire lo stesso livello di autonomia che era stato recentemente espresso nei potenti scioperi selvaggi come quelli di Mawah e di Sterling a Detroit. Il sindacato ha nondimeno avuto l’occasione a più riprese di vedere che le cose rischiavano di scappargli di mano [6].

Si sa, d’altra parte, che numerose sono le fabbriche dove il contratto nazionale è stato rifiutato. A Detroit la firma del contratto è stata accolta con grida come: «58 giorni di sciopero per fare che?» e «Noi vogliamo molto di più!». A livello di contratti locali, quando la General Motors e lo Uaw si erano messe d’accordo all’inizio per non firmare l’accordo nazionale prima che tutti (o almeno i due terzi) gli accordi locali fossero stati firmati, la metà delle 155 fabbriche General Motors degli Usa e del Canada non ha ancora accettato le condizioni locali. Infine, durante lo sciopero sono emersi numerosi piccoli gruppi antisindacato, legati a questa nuova milizia operaia alla quale si fa sovente allusione; una nuova organizzazione è apparsa: la United National Caucus (Unione nazionale delle frazioni).

Si può dire che è proprio ora, al livello di lotte intorno ai contratti locali, che una più grande autonomia di obiettivi e anche di organizzazione tende a manifestarsi. Questi scioperi sono, per la General Motors, altrettanto importanti che la firma del contratto nazionale. Ne è prova il fatto che quindici giorni dopo l’accordo nazionale, la General Motors ha ancora 24 fabbriche bloccate: è ciò che i funzionari del capitale chiamano qui «l’anomalia dell’industria dell’automobile». Gli obiettivi operai attraverso i quali l’autonomia fa presa riguardano specificamente le condizioni di lavoro e, d’altra parte, si orientano sempre di più nel senso della richiesta salariale. A Norwood gli operai vogliono l’aria condizionata; a St. Teresa nell’Ontario (Canada), chiedono che tutte le istruzioni di lavoro siano scritte in francese, lingua della maggior parte degli operai (provenienti dal Québec). Nella fabbrica di Willow Run di cui si è già parlato, gli operai vogliono che l’azienda paghi loro i trasporti; in questa stessa fabbrica si domanda anche l’installazione di una linea telefonica diretta con Detroit per poter avvertire la direzione gratuitamente ogni volta che un operaio decide di prendere il suo giorno di vacanza.

Tra il 1955 e il 1967, la General Motors ha perduto 14.9 milioni di ore di lavoro con gli scioperi per il contratto nazionale e 101.4 milioni con gli scioperi locali, nella maggior parte selvaggi. Nel 1958 ci sono state 11.600 rivendicazioni locali (Grievances); nel 1970 39.131 di cui 2200 nella sola officina di Delco-Remy, nell’Indiana [7]. Da questo è evidente che scioperi e contratti nazionali non hanno più altra funzione che quella di mettere un po’ di ordine in questa anarchia selvaggia.

Ultimo elemento di questo quadro, non dimentichiamo che il 20 novembre 1400 operai delle fonderie Chrysler di Detroit sono entrati in sciopero selvaggio minacciando di bloccare tutte le officine Chrysler proprio quando il sindacato dell’auto cerca a ogni costo di risparmiare la Chrysler, già pesantemente colpita dal nuovo contratto nazionale che la costringerà a sganciare un grosso pacchetto, superiore forse alle attuali disponibilità finanziarie.

Questo contratto è una sfida, l’unica che il capitale americano sia in grado di lanciare oggi, la sfida sulla rinascita della forza del sindacato dell’auto. Essenziale in questo sciopero è che la classe operaia abbia mostrato la propria forza senza essere costretta a darle fondo. Il suo ruolo obiettivo autonomo era di ottenere (come minimo) quello che il sindacato chiedeva, senza imposizioni sul piano della disciplina produttiva. «Nel contratto non ci sono nuove penalità contro l’assenteismo né limitazioni del diritto di sciopero» [8].

L’attuale scontro di classe negli Stati Uniti è caratterizzato fondamentalmente dall’autonomia di classe così come si manifesta esclusivamente con l’indisciplina di fabbrica. Durante gli scioperi da classe si presenta come una massa formidabile, il cui potenziale di lotta è sufficiente a far cedere i padroni. Nel momento in cui la resistenza del capitale diventerà più compatta – ed è probabile che a tanto arrivino ben presto le pressioni per imporre il controllo dei salari – allora è possibile che tale autonomia passi dalle fabbriche alla strada. Ma non ci siamo ancora.


Note [1] Dichiarazione di un membro del gabinetto Nixon al «Wall Street Journal», 12 novembre 1970. [2] Dichiarazione dell’Us Steel, la maggiore impresa siderurgica, ai dirigenti dell’industria siderurgica americana, «Wall Street Journal», 9 ottobre 1970. [3] Membro della direzione del sindacato dell’auto, «Wall Street Journal», 2 novembre 1970. [4] The GM Strike – What happened?, «Wall Street Journal», 20 novembre 1970. [5] Ivi. [6] I due momenti più importanti della rivolta contro il sindacato durante questo sciopero sono stati il rifiuto di riprendere il lavoro, così come chiedeva il sindacato dell’auto, da parte degli operai della Warren e della Willow Run, nel Michigan. Nella prima di queste fabbriche la General Motors compie studi sui motori anti-inquinamento; il sindacato aveva puntato su questo fatto per chiamare al lavoro, in nome del fronte anti-inquinamento; i 3000 operai si sono rifiutati all’unanimità. Alla Willow Run, dove si fabbricano pezzi utilizzati dalla «concorrente» American Motors, gli operai hanno rifiutato di obbedire all’ordine di ripresa del lavoro che il sindacato aveva dato a causa dell’arresto della produzione delle jeep per l’American Motors. [7] Cifre dal «Wall Street Journal», 24 novembre 1970. [8] The GM Strike – What happened?, «Wall Street Journal», 20 novembre 1970.

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