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Intervista ad Adelino Zanini

La scommessa di Impero
Immagine:Oliver Ressler & Zanny Begg, What Would it Mean to Win, digital print (Zanny Begg), 2008

Quale il contesto entro cui nasce Impero di Toni Negri e Micheal Hardt? Quale la scommessa teorico-politica che sorreggeva il lavoro? Quali le richezze del testo e quali i limiti? Quanto utile ancora oggi? Adelino Zanini, rispondendo a queste domande, ci guida alla compresione di uno dei testi più importanti per capire le trasformazioni che si sono imposte negli anni Novanta. Il tentativo del libro è quello di rilanciare nuove ipotesi politiche e nuovi linguaggi all'altezza della globalizzazione e della «eticizzazione della politica», riformulando le categorie di impero e imperialismo.

Un lavoro che ha sicuramente contribuito a ridefinire il linguaggio e i concetti politici della contemporaneità.

Adelino Zanini sarà, insieme ad Alberto Burgio, Carlo Galli e Veronica Marchio, uno dei relatori del dibattito «L'età del berlusconismo e della crisi della politica» che si terrà giovedì 16 maggio a Bologna alle ore 17.30 presso il centro polifunzionale Il Pallone, in via del Pallone 8.


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Redazione:Tenendo in considerazione il quadro macro e geopolitico ‒ dall'affermazione della globalizzazione alla dissoluzione dell'Urss, dalla fine della suddivisione del mondo a blocchi al «trionfo» della liberaldemocrazia e via dicendo ‒  puoi spiegarci il milieu politico e le discussioni che porta­rono alle elaborazioni di Impero?


AZ: L’autoreferenzialità è di norma antipatica. Quando richiami un’esperienza collettiva lo è forse di meno. Dico questo, perché, di fatto, le vostre domande mi riportano alla mente il contesto in cui presero forma anche quelli che furono i temi e il lavoro collettivo che a ri­dosso della fine del secolo scorso portarono alla redazione di Lessico postfordista (2001) (nessun improponibile paragone, va da sé…). Impero era uscito da poco negli Stati Uniti; ma se ne parlava da tempo, in modo infor­male e meno (ricordo un bellis­simo se­minario sulla sovranità, con Luciano Ferrari Bravo, a Padova). Lo ave­vamo atteso, poi finalmente letto… e allor­ché fu pub­blicato, un po’ inaspettatamente, quanto rapidamente, conobbe una diffu­sione mon­diale e coniò una serie di concetti rivelatisi im­prescin­dibili e coi quali fu impossibile non mi­su­rarsi. Penso alla voce sulla globalizzazione scritta per il Lessico da Christian Marazzi, alla voce «Costituzione e sfera pubblica» redatta da Sandro Mezza­dra, o a quella stilata da Alessandro Dal Lago sulla guerra – oltre ovviamente alla voce «Impero» dello stesso Michael Hardt. Questo solo per ricordare come, in quel contesto, l’uscita del libro di Hardt e Negri scompaginasse, per così dire, le «agende» di tutti e di tutte.

La caduta del Muro era ormai lontana nell’immaginario, non certo negli effetti; la sconfitta operaia in parte metabolizzata, in parte «su­blimata», nel senso di trasposta-ricondotta (non so se si possa dire così…) in un passato che in realtà era molto meno lontano di quanto sembrasse. Per molti aspetti, quello che Negri aveva scritto sull’operaio sociale un po’ di anni prima – non penso certamente tanto o solo in rapporto alla specifica situazione italiana, ovviamente – era divenuto «pra­ticamente vero», salvo che in modo pressoché rovesciato, poiché, politicamente, era tutto sov­vertito (ne ha parlato Elia Zaru in un precedente intervento, in cui ha ricordato il quadro ideolo­gico tracciato dai vari Fu­kuyama, Huntington ecc.). In breve, l’operaio sociale sanciva esso stesso, nel modo più feroce, la sconfitta epocale: ne era una figura tipica. Dopo Seattle e sulla scia di ciò che rappresenteranno le giornate di Genova, le trascorse esperienze (sebbene prossime) e i loro linguaggi erano divenuti referenti solo esemplari, in qualche modo riproposti e riaggiornati an­che con grande intelli­genza, ma in ogni caso minoritari.

Impero parlava un altro linguaggio? Nuovo rispetto a quelli passati e a quelli prevalenti, tra fine della storia e conflitti di civiltà? Avrebbe voluto farlo. Il fatto stesso di riformulare l’idea di impero/imperialismo poteva sembrare di per sé frutto di un argomentare iperbolico. In realtà, la scommessa era in un certo senso imposta…

 


Red: Perché imposta? Qual era la scommessa teorico-politica che sosteneva il lavoro di Hardt e Ne­gri?

 

AZ: Potremmo cavarcela elegantemente dicendo… imposta dalla globalizzazione stessa, dai nuovi soggetti agenti e rispetto a un ordine che di fatto intendeva sospendere la storia e fissare per l’eternità lo stato delle cose presenti. Nelle intenzioni degli autori era certo così – è stato detto e scritto moltissime volte, inutile insistervi. Tuttavia, se mi permettete, vorrei sottolineare anche un altro possibile legame, imposto non solo dalla globalizzazione in quanto tale, ma anche dalla «eticizzazione» della politica che essa induceva e che era di fatto prevalsa già nell’ambito dei movimenti per la pace e in quello antinucleare degli anni Ottanta, via via, sino alla guerra nella ex Jugoslavia (e in quest’ultimo caso persino a rovescio: «la guerra giusta»…). Risultando peraltro efficace, ma imponendo di riconsiderare i rapporti di forza esistenti all’interno di quei mo­vimenti e di quelli più recenti.

Ovviamente, non era questione di slogan più o meno ra­dicali, o di pratiche più o meno «decise», bensì di quella che potremmo forse definire «egemonia culturale», senza la quale lo scontro sul «fare» politico non poteva che essere costante. Non era difficile essere d’ac­cordo quando si di­ceva ad esempio: «L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio», bi­sognava però consi­derare quale fosse divenuta la composizione del movimento, in cui operavano ormai «attivisti» e solo in parte «militanti». Impero teneva conto anche di ciò. Da questo punto di vista, Genova fu un’esperienza politica con tratti innovativi e ra­dicali (si pensi alla presenza del grande corteo di migranti), ma soprattutto molteplice, plu­rale, trasversale: la sua natura moltitudinaria, quella che i Social forum faticheranno un bel po’ a rap­presentare prima di implodere, rappresentò la sua «natura» e i suoi limiti. «Un altro mondo è possibile!» era infatti uno slogan «etico», che non dispose mai di «gambe» robuste, necessarie per procedere e per durare politicamente.

Certo, dire questo dovrebbe comportare l’obbligo di dire quali avrebbero dovuto essere queste «gambe». Questione a cui non saprei rispondere, per cui… Al che non segue però che io intenda negare l’esistere e il perdurare di conflittualità, il loro riprodursi, dislocarsi, sino ai nostri giorni di guerra, di sterminio, di rivolta… Ma se, con Impero, si assume un paradigma moltitudinario (passi l’espres­sione), sembrerebbe saltare, quasi per definizione, la possibilità di un’organizza­zione. La quale sarà pure un concetto novecentesco (al quale Negri mai rinunciò del tutto, peral­tro), senza del quale la politica parrebbe vivere comunque, certo, ma in forma evenemenziale, spesso per mezzo di grandi rappresentazioni, sempre represse duramente con gli strumenti della vecchia politica no­vecentesca. È un po’ quello che osservano anche Hardt e Negri in Empire, Twenty Years On («New Left Review», Novembre-Decembre, 2019, 120), quando riflettono sul ciclo in­ternazio­nale delle alterglobalization struggles e sui loro numerosi difetti, oltre che sulle loro straordina­rie virtù in quanto theoretical practice.

Solo che – e qui si apre il discorso, del tutto conseguenziale, inerente ai lavori che seguirono Im­pero, a partire da Moltitudine – gli stessi autori, nel medesimo articolo del ventennale, richia­mandosi ad Achille Mbembe e a Christine Delphy, ritengono possibile ovviare al problema dell’organizza­zione (reputato essere di per sé di scarsa utilità), sostenendo l’idea di una «multi­tudinous class» o di una «intersectional class» (working class, racial class, sex class). Certo, nes­sun problema organizzativo è di per sé significativo, ma il problema avrebbe dovuto essere rovesciato, indicando non solo come l’intersezionalità avrebbe potuto esistere, ma anche quanto avrebbe potuto residuare in termini politici non evenemenziali. In ogni caso, com’è chiaro, il lavoro di Hardt e Negri è stato un lavoro in progress anche dopo l’uscita dei quattro volumi scritti a quat­tro mani.

 


Red: Rileggendo il libro a più di vent'anni di distanza, quali sono le ricchezze e le anticipazioni? Quali i limiti che si possono riscontrare?


AZ: Impero è tutto tranne che il frutto di un pensiero contingente. È un’opera molto complessa, sebbene il suo linguaggio possa apparire semplice; al suo interno vi sono delle piccole monografie di rara finezza; e poi è opera di due autori di generazioni molto lontane, i quali hanno saputo fondere in un lavoro comune differenti formazioni, esperienze, lingue, storie personali… Ricchezze e anticipazioni: basti pensare ai temi della sovranità in rapporto alla crisi dello Stato-na­zione, al tema delle fron­tiere e dei confini (su cui molto lavoreranno Sandro Mezzadra e Brett Neilson), al tema con­nesso all’assenza di esteriorità nell’ambito del marxiano mercato capitalistico mondiale; e an­cora, alla natura temporalmente infinita dell’Impero, alla ripresa di una poli­biana costituzione mista. Certamente, su altri temi quali pace/guerra – l’idea, cioè, che sebbene la pratica imperiale grondasse costantemente sangue, l’idea di Impero fosse sempre consacrata alla pace, in quanto la guerra avrebbe costituito un limite sociale e una negazione implicita dell’assolu­tezza della sovranità imperiale; o sulla questione inerente alla figura dello straniero (si poteva davvero sostenere che l’Im­pero fosse un definitivo «melting pot»?); su questi temi, di­cevo, ogni riflessione non può che rive­lare anche il proprio tempo di maturazione. Oggi siamo a fronte di una crisi senza precedenti dell’egemonia globale statunitense e occidentale, a fronte di un rinnovato scon­tro con la Cina, con la sua temibile capacità militare e, ancor prima, innova­tiva… Anche da questo punto di vista la lettura dell’articolo di Hardt e Negri prima menzionato è molto utile, perché su questi temi riflette, sulla scorta, tra l’altro, dei lavori di Giovanni Arrighi…



Red: Quanto Impero può essere utile oggi per orientarci nel caos del presente e per quale motivo?


AZ: Mah, potrei dirti: «che cosa vogliamo chiedere ancora a un lavoro che ha contribuito a ridefinire il linguaggio e i concetti politici della contemporaneità?». L’attualità o meno passa in secondo piano. Un’opera importante è sempre attuale. Va poi nuovamente ribadito che non può essere trascurato il legame con gli altrettanto corposi volumi che sono seguiti. Per cui, qualunque giu­dizio dovrebbe tener conto del loro in­sieme, dei loro rapporti. In ogni caso, ragionare in termini di utilità non mi parrebbe adeguato. Il tutto va costantemente problematizzato. L’hanno fatto gli autori stessi, del resto, nell’articolo prima menzionato…



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Adelino Zanini insegna Filosofia politica e Storia del pensiero economico all'Università politecnica delle Marche. Autore di numerose opere, tra cui Filosofia economica (Bollati Boringhieri, 2005) Principi e forme delle scienze sociali e Ordoliberalismo (Il Mulino, 2013 e 2022)


Giuseppe Casale collabora con la rivista Machina e con Punto Input.


Giuseppe Molinari si occupa del coordinamento redazionale di Machina. Per DeriveApprodi ha curato, insieme a Loris Narda, Frammenti sulle macchine. Per una critica dell'innovazione capitalistica (2020).

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