top of page

Lo sguardo delle donne sul lavoro tra gli anni Settanta e i Duemila: una sintesi retrospettiva



Questo testo, estratto dal primo capitolo del libro di Cristina Morini, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore (manifestolibri 2022), si inserisce nel progetto di «Machina» di riflettere sui «decenni scomparsi»: quelli tendenzialmente trascurati dal dibattito di movimento e che tuttavia restano centrali per comprendere e agire il presente.

Il brano presentato cerca di individuare i percorsi che hanno portato una gran massa di donne al lavoro negli anni Novanta, tra sogni di autonomia e contemporanea crescita di nuovi settori produttivi/riproduttivi legati ai servizi e alle professioni della conoscenza. Contesti che hanno convissuto con ruoli, compiti e mansioni tradizionalmente affidati alle donne, godendo dell’evoluzione delle capacità di sfruttamento delle facoltà umane consentita dalle nuove tecnologie e dalla precarizzazione del lavoro.

Negli anni Settanta le donne sono state protagoniste di una ricchissima fase di analisi e lotte contro il disconoscimento del lavoro femminile. Negli anni Novanta ci si confronta, viceversa, con il problema della cattura delle donne e delle differenze, con l’economia dell’interiorità che traduce in valore la disponibilità a darsi del soggetto, si fonda su materia viva, nella singolarizzazione forzata causata della precarietà. Vent’anni dopo l’operaia della casa, il capitalismo scopre che le donne sono utilizzabili come casalinghe del capitale anche al di fuori dalle mura domestiche e ciò ha trasformato, per un periodo, lo spazio del lavoro in spazio di integrazione delle donne nei sistemi del capitalismo patriarcale. Un periodo che coincide con differenti visioni dei femminismi relativamente al fenomeno della femminilizzazione del lavoro e con le lotte agite dai collettivi delle precarie e dei precari.

Il ricorso alla suddivisione in due fasi è utile a sottolineare gli elementi peculiari di ciascuna, pur nella continuità che il capitalismo ha saputo mettere a frutto, alternando esclusione ed inclusione femminile. Il problema di rispondere e rigettare la reiterata tendenza del capitale alla presa, regolata e variata (precaria), del soggetto donna diventa tanto più decisivo quanto più la riproduzione sociale o la produzione sociale o ancora il lavoro involontario diventano elementi cruciali della produzione contemporanea, ribaltando antiche dicotomie e gerarchie consolidate.


* * *



Le figlie degli uomini colti hanno sempre pensato i loro pensieri così alla buona;

non a tavolino, nel proprio studio,

nella solitudine tranquilla di un chiostro all’università.

Hanno pensato mentre rimestavano la minestra,

mentre dondolavano la culla.

Virginia Woolf, Le tre Ghinee[1]





Per spiegare perché mi sono tanto occupata del tema lavoro in rapporto al genere e di trasformazioni della produzione che influenzavano la composizione del lavoro e la sua organizzazione, debbo rispondere banalmente: perché riguardava un sempre più ampio numero di donne, tra loro io, date determinate condizioni. Riguardava la mia esistenza, la mia quotidianità e avevo urgenza di capire che cosa mi trovavo davanti.

Siamo a metà degli anni Novanta e il mio è uno sguardo che si posa su contesti a capitalismo più maturo e avanzato [2]. Mi trovo a Milano, nel cuore del capitalismo biocognitivo e relazionale (che all’inizio viene indicato con il termine «postfordismo») il quale attecchisce maggiormente nelle aree del Nord rispetto a quelle del Sud d’Italia e del mondo. Qui, più esplicitamente che altrove, decolla quel «terziario avanzato» che, insieme al «terziario umile», cioè le donne straniere che accompagnano il processo, tende a inglobare la maggior parte del lavoro femminile, in quel dato momento storico. Da un lato, porta le donne europee, o americane, fuori dalle case, nello spazio pubblico del lavoro produttivo, dall’altro spinge a emigrare le cittadine di altre parti del pianeta come loro sostitute nel lavoro domestico e riproduttivo all’interno di quelle che vennero allora chiamate «catene della cura» [3]. In un doppio senso: catene che ti vincolano al lavoro di cura, tra affetto e potere, e alla sua organizzazione con forme di sradicamento e di commercio dei sentimenti, ma anche catene che legano le donne autoctone e le donne immigrate in un unico processo, tra gerarchie di classe molto evidenti.

Da femministe, in tante, ci siamo occupate di lavoro in quegli anni anche per il fatto che l’Italia è stata un laboratorio straordinario per quanto riguarda le riforme complessive del mercato del lavoro, spalancando la porta alla generalizzazione della precarietà. In questo contesto, i femminismi italiani, danno origine a una sfaccettata produzione di inchieste, auto-inchieste, riflessioni, saggi, mappature, azioni politiche che partono dalla precarietà esistenziale, dalla condizione precaria, la quale rompe la dicotomia della divisione sessuale del lavoro, si impernia sull’inclusione differenziale o precarizzazione differenzialmente distribuita, tenendo presente il ruolo delle donne migranti [4].

Le donne, immerse nelle trasformazioni esistenziali del lavoro intermittente o a partita Iva, sono state spesso anticipatrici nell’osservare gli effetti di ciò che è stata chiamata «soggettivazione del lavoro». Lia Cigarini, avvocata ed esponente della Libreria delle donne di Milano, scrive nel 1997:


«È curioso che siano state proprio le donne a dare così tanta importanza al lavoro. Non tanto, però, se si pensa che sono entrate nel mondo del lavoro in modo massiccio, di colpo, negli ultimi dieci anni. Questo evento è vissuto come una nascita collettiva delle donne nel fare mondo. Le nascite sono eventi felici, nonostante la fatica, la sofferenza. Ma soprattutto la nascita comporta una valorizzazione, un innamoramento [5]».


A partire da questo passaggio cruciale, nel tempo si sono sviluppate esaltazione delle diverse soggettività, fabbricazione individualista e stimolazione dell’integrazione di tutte le composite e multiformi differenze degli esseri viventi.

La precarietà non favorisce la creazione di un’identità collettiva, come è stato invece possibile nella fabbrica. La concretezza dell’esperienza singola scansa ogni «astrattezza generalizzante» e ogni tentazione avanguardistica, ma contemporaneamente esplode in un frammentarsi di vite dove, usando parole di Rossana Rossanda a proposito della fine del movimento operaio, con il passare del tempo, «ciascuno è scagliato in un’insignificanza dalla quale emergono indolenzite soltanto alcune ragioni del privato» [6].

«Come dimentichiamo in fretta e totalmente», dice Cassandra. E aggiunge: «La guerra modella gli uomini di cui si appropria» [7]. Nella costruzione della psicologia del freelance contemporaneo, la dimensione solitaria della competizione (un «retaggio guerresco») si è progressivamente ritagliata un ruolo determinante per il nuovo modello di estrazione complessiva della ri-produzione, nonché per indurre modalità di azione e di comportamento, che si piegheranno in individualismo, narcisismo, forme di «servitù volontaria» da immettere nelle organizzazioni. Si tratta di guardare sempre meglio, oggi, i recessi della generazione di un processo, profondamente alienante, sorta di visione della apoteosi dell’alienazione, dove il lavoro oggettivato (capitale) «diventa corpo» e si contrappone al «lavoro vivo, soggettivo» (essere umano, proletario) [8]. Ma lo analizzeremo meglio nei prossimi capitoli.

Non va omesso, adesso, che sul tema ci furono, negli anni vissuti a cui mi riferisco, letture, parole e misure molto differenti, tra differenti femminismi. Si è trattato, tuttavia, di una dialettica, anche accesa ed aspra, che ha avuto un ruolo decisivo e stimolante nell’imprimere slancio all’analisi femminista relativa a un fenomeno storico, la partecipazione massiccia delle donne italiane al lavoro per il mercato, per la produzione, nel pubblico, all’esterno, connessa ai loro più elevati livelli di istruzione.

È a partire da questo bagaglio di discussioni che ho notato come la costruzione neoliberista della soggettività precaria facesse appello al lato femminile («la donna»), certamente a un femminile stereotipato, disincarnato e costruito astoricamente, plasmato socialmente, il quale tuttavia agisce, in parte in maniera inconsapevole, come su una sorta di palcoscenico, accettando regole di ingaggio precise. Questo «femminile» sollecitato, addirittura riesumato dalle profondità di ataviche costrizioni, non è tanto della «donna» presente, non è una categoria che definisce chi è «donna», ma è proprio del freelance reso obbediente e flessibile a ogni mansione da una ineludibile insicurezza e dall’assenza di possibilità di confronto con un circuito più largo: la solitudine, insieme all’ansia, è un sentimento che ritorna, riaffiora quasi come retaggio di quanto già provato dalla casalinga, tanti anni addietro. Il lavoro precario non esclude affatto la possibilità di essere tradotto di nuovo nella dimensione domestica, elemento che rende difficili i contatti con altre. Un universo costruito sull’imposizione della «dipendenza» dall’intero processo, nonostante l’apparente «indipendenza», e che si spinge fino a generalizzare il paradigma della gratuità del lavoro. Proprio mentre le donne provano a liberarsi in massa da ruoli tradizionali, il fantasma del femminile le insegue e le riacchiappa, attraverso precarietà che vuole dire: ancora dipendenza. Quasi fosse ancora il privato, con tutta una serie di modelli comportamentali e caratteriali (attenzione; disponibilità; socievolezza; gentilezza), a irrompere nello spazio pubblico, a partire da uno stato di «minorità» del precari@ femminilizzato, tipica della fase postwelfare [9].

Insomma (…) ciò che mi interessa [qui] sottolineare (…) è come un importante percorso di analisi e di critiche femministe, specificamente relative al lavoro, si sia riacceso in Italia a trent’anni esatti di distanza da una fase precedente, che si era espressa agli inizi degli anni Settanta. Sono consapevole nel fare ciò di operare una scelta precisa che evita di scavare in ciò che il lavoro è stato, per le donne, in altre momenti del passato. Mi interessa concentrarmi sui raffronti, i rispecchiamenti e le difformità tra due fasi storiche precise di quella parte del femminismo italiano che maggiormente si è occupato di lavoro, la prima situata a partire dal 1970, la seconda dal 1990 circa.

Ecco qualche dato significativo, tratto da un rapporto Cnel del 2009 [10], relativo alla parte «Offerta di lavoro e occupazione femminile» curata da Emilio Reyneri, che aiuta a situare bene, da un punto di vista socio-economico, questi due ben precisi cicli di analisi e di lotte femministe.

In Italia, la presenza femminile nel mercato del lavoro declina dal Dopoguerra sino ai primissimi anni Settanta, quando raggiunge il livello minimo. Abbiamo qui l’apoteosi del fordismo, con al centro del sistema la famiglia mononucleare eterosessuale fondata sul salario del capofamiglia (il breadwinner) mentre la donna si occupa del lavoro famigliare e domestico. Gli uomini in età da lavoro sono presenti nel mercato del lavoro come occupati o disoccupati, mentre quasi tutte le donne adulte ne erano stabilmente fuori. Gli elementi che congiurano nel creare questa situazione particolare sono i buoni e sicuri livelli di reddito raggiunti da un crescente numero di capifamiglia, la debole diffusione dei servizi privati e pubblici e delle nuove tecnologie domestiche, lo scarso livello di istruzione delle donne

Tali circostanze coincidono con una prima, importantissima, serie di documenti, scritti e lotte relative al lavoro domestico e alla riproduzione domestica. Le «operaie della casa» analizzano la propria condizione e portano avanti una serie di lotte per il «salario di lavoro domestico» [11]. Si parte dalla propria condizione di donna che individua le forme specifiche della propria oppressione su fronti molteplici, dalla famiglia al sesso ai rapporti sentimentali fino allo sfruttamento del lavoro casalingo «al carattere di forza lavoro di riserva che è tipico delle masse femminili» [12].

A partire dalla vivezza dell’esperienza materiale che prende la forma, nei testi e nei documenti, del racconto autocoscienziale, si sviscerano i problemi connessi alla salute riproduttiva delle donne (il sesso e l’aborto) ma soprattutto il fatto che essere madri accudire i bambini, crescerli, così come «tenere dietro alla casa, al marito, curare i vecchi e i malati della famiglia, è un lavoro». Un lavoro «molto pesante e monotono» che le donne fanno gratuitamente «facendo risparmiare allo Stato miliardi e miliardi di lire all’anno» [13].

Ebbene, se questa è la situazione delle donne in quel periodo molto particolare della storia italiana, dal 1972 al 1992 la tendenza si inverte e il tasso di occupazione delle donne oltre i 14 anni aumenta di quasi sette punti percentuali. Ma più imponente ancora è la crescita dell’occupazione femminile dal 1995 al 2007: il tasso di occupazione delle donne dai 15 a 64 anni vede un incremento di 9,1 punti, passando dal 37,5% al 46,6%. Abbiamo dunque il raggiungimento di un livello massimo. Su questa scia, in una città come Milano, il tasso di occupazione femminile ha raggiunto nel 2015 il 64,9%, una percentuale vicina agli indici del nord Europa, mentre, complessivamente, in Italia si resta ferme al 47,2 [14].

Non casualmente, in questa seconda fase abbiamo la rinascita di una serie di inchieste, riflessioni, analisi, lotte. Questa volta, la produzione di pensiero e di pratiche si concentrerà sul lavoro precario delle donne e sulla riproduzione sociale.

Le lavoratrici precarie sono parte attiva all’interno del circuito di San Precario, della Mayday, delle EuroMayDay, della intelligence Precaria, si battono per il reddito di base (di autodeterminazione) e per il diritto all’insolvenza. Penso a gruppi come Sconvegno a Milano, Sexyshock a Bologna, A/Matrix a Roma, a reti femministe come quella delle ricercatrici di Prec@s che contribuiscono in modo particolarmente originale a queste battaglie e agli immaginari connessi.

Questa sottolineatura tra i due tempi antistanti (minima e massima presenza delle donne nello spazio pubblico) dell’emersione di una specifica analisi femminista relativa al lavoro in Italia è molto significativa poiché ha portato con sé e ci ha lasciato, in entrambi i momenti, una serie di definizioni, di apparati concettuali e dunque di possibili strumenti di difesa e di attacco.

Rispetto alla situazione precedente, la precarietà è vista, all’inizio, come una rottura, una negazione che fa esplodere, fa deflagrare le contraddizioni delle rigide istituzioni italiane da sempre incentrare sulla famiglia e sulla scarsa mobilità geografica. Certamente, nei primi anni, essa mette in crisi classiche tappe come «il matrimonio, la maternità, il necessario lavoro di cura» e poi ancora, dentro lo stesso lavoro esterno, «la fedeltà all’azienda» e «l’ideale di una vita pianificata intorno alla carriera» [15]. L’analisi si serve di un linguaggio critico e di una comunicazione centrata su decostruzioni e rovesciamenti, su letture provocatorie che ammiccano alla queer theory. Scrive Laura Fantone:


«La precarietà femminile può essere comunque un utile punto di partenza per dialogare attraverso differenze, tenendo conto delle posizioni di potere relativo che i diversi soggetti precari possono avere nella società. A partire dalle differenze è possibile dare voce a una critica di genere alla struttura famigliare italiana, ancora gerontocratica, opprimente sia per le donne che per gli uomini, e ineguale nella divisione del lavoro di cura [16]».


Questo passaggio viene avvertito e sviscerato particolarmente bene dalle donne. Esiste un nesso tra donne e precarietà. Forse proprio perché «più dell’uomo (marxianamente: un-non-essere-ancora), la donna non è» [17]. Ed effettivamente la precarietà è femmina perché anch’essa non è: fuori dal lavoro standard, è come se si vivesse una non esperienza di lavoro. Qui si inseriscono pienamente anche tesi molto enfatiche sulle vite precarie - e irriducibili - in bilico tra fragilità e potenza, tra rifiuto delle identità socialmente assegnate e rivendicazione della diversità del diverso [18]. C’è qui una dimensione - immaginata - di libertà, di sottrazione, di opposizione alla scambiabilità implicita nel lavoro salariato, standard, lavoro morto che trasforma la materia in astrazione. Questa visione non può essere dimenticata. È una carica emotiva che incoraggia le espressioni rituali collettive e di lotta.

Tuttavia, con il passare del tempo, il radicale cambio di paradigma nell’organizzazione della produzione e del lavoro basato sulla assenza di garanzie e di tutele collettive per lavoratrici e anche lavoratori si fa più esplicito e più problematico. Tale condizione consente di saldare più strettamente i piani di produzione e riproduzione, garantendo uno sfruttamento più complessivo, totalizzante, dei corpi-mente. Come? In termini estremamente sintetici (…), il tempo, lo spazio, la retribuzione, l’identità professionale sono elementi che vengono completamente riscritti dalla condizione precaria [19]. Al punto che la precarietà non può essere interpretata solo come espressione di una condizione lavorativa. Essa travalica i confini del lavoro e si pone su un piano più immediatamente sociale ed esistenziale, dunque riproduttivo. Così, ritengo che parlare di «condizione» non rende giustizia ai vari livelli che disegnano la mappa cognitivo-emotiva, pluristratificata, della soggettività precaria e le sue trasformazioni, poiché né evoca né rappresenta le zone di transito, i passaggi, gli attraversamenti che sono impliciti nell’«esperienza» delle vite precarie, le quali mutano con il passare del tempo, in relazione alle diverse collocazioni nel lavoro ma anche nello spazio, nelle fasi della vita, nelle interazioni relazionali. Inoltre, se la condizione è in buona parte sovradeterminata, l’esperienza agisce direttamente e porta a interrogarsi, e a provare a rompere quella stessa condizione [20].

La natura più frequentemente immateriale della produzione (più servizi e meno merci), il coinvolgimento di elementi cognitivo/relazionali delle nuove forme del lavoro flessibile sono più facilmente riconducibili alle qualità socio-culturali del «femminile». Il lavoro-vivo attinge e si radica sulle caratteristiche tipiche del genere, il «femminile» viene messo a profitto nella sua capacità di creare relazione, nel piano della creatività e della rigenerazione (sempre vitale) dei rapporti, nell'attitudine all’ascolto.

La precarietà del lavoro ci parla della femminilizzazione della «natura» del lavoro contemporaneo e delle sue capacità estensive-intensive. Le caratteristiche richieste dal capitalismo biocognitivo sono esattamente quelle del «corpo biopolitico», dell’umano che vive, respira e sta al mondo: capacità di ascolto, attitudine nelle relazioni, curiosità, attenzione verso l'altro. Il capitalismo biocognitivo sfrutta volentieri il corpo/mente delle donne poiché l’integrazione dei piani produttivo/riproduttivo appare più immediata in un intersecarsi e sovrapporsi di sfere, tra il sociale, il biologico, il culturale, compresa sessualità e registri emotivi. Essi si riveleranno, con il passare degli anni, fino oggi, fino a ora e qui, sempre più utili a incrementare i profitti, direttamente estratti da una produzione, favorita dalla digitalizzazione, che si fa sempre più esplicitamente, più manifestamente, sociale.

[1] V. Woolf, Le tre Ghinee, Feltrinelli, Milano 2018, p. 92. [2] C. Morini, Lavoro autonomo e settore editoriale. La parabola di una professione in S. Bologna - A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 269-297. [3] B. Ehrenreich e A. R. Hochschild, Donne globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli, Milano 2004. [4] Tra i tanti testi e iniziative del periodo ne segnalo solo alcuni, relativi agli inizi e ai miei percorsi: AA.VV., La rivoluzione inattesa, Pratiche editrice, Milano 1997; Sara Ongaro, Le donne e la globalizzazione. Domande di genere all’economia globale della riproduzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001; Cristina Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, DeriveApprodi, Roma 2001; il 4 maggio 2002 presso la Libera Università della donne di Milano si terrà un incontro intitolato «Sconvegno: quali soggettività femministe oggi». Il collettivo Sconvegno resterà attivo diversi anni con svariate partecipazioni a iniziative e produzione di inchieste, saggi, materiali; Adriana Nannicini, Le parole per farlo. Donne al lavoro nel postfordismo, DeriveApprodi, Roma 2002; AA.VV., Divenire donna della politica, Posse. Politica. filosofia, moltitudini, aprile 2003; la Feminist Review nel 2007, grazie alla collaborazione con il gruppo Sconvegno, dedicherà una special issue proprio agli Italian Feminisms, (Italian Feminisms, n. 87, Palgrave McMillan, 2007) [5] L. Cigarini, Introduzione in La rivoluzione inattesa, cit., p. 13 [6] R. Rossanda, Anche per me, Feltrinelli, Milano 1987, p.11. [7] C. Woolf, Cassadra, Edizioni e/o, Milano 1990, p. 18. [8] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica della economia politica II, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 575. [9] C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010. [10] E. Reyneri, Offerta di lavoro e occupazione femminile in Carlo Dell’Aringa (a cura di), Il lavoro che cambia. Contributi tematici e raccomandazioni, Rapporto CNEL, Roma, 2009. [11] È Mariarosa Dalla Costa colei che ha aperto, con Selma James, agli inizi degli anni Settanta il dibattito sul lavoro domestico e la sua retribuzione e sulla famiglia come luogo di produzione e riproduzione della forza lavoro. Il suo testo Potere femminile e sovversione sociale, che include lo scritto di Selma James Il posto della donna, fu edito in Italia da Marsilio nel marzo 1972 e, nell’ottobre dello stesso anno, in Gran Bretagna da Falling Wall Press (Bristol). Nel 1972 era uscito per Musolini Editore (Torino) il Quaderno n.1 di Lotta Femminista, L’offensiva, che conteneva l’articolo «Salario per il lavoro domestico». Nel 1972, a Padova, Mariarosa Dalla Costa, Selma James, Brigitte Galtier e Silvia Federici costituirono il Collettivo Internazionale Femminista per promuovere il dibattito sul lavoro di riproduzione tra le mura domestiche. Da lì in seguito prenderà forma, in molti paesi, la rete di Gruppi e Comitati per il Salario al lavoro domestico (Wages for housework Groups and Committees). Si veda anche Lucia Chiste', Alisa Del Re, Edvige Forti, Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione, Feltrinelli, Milano 1979. Va ricordata anche l’importante documentazione contenuta nel recente testo di Antonella Picchio e Giuliana Pincelli, Una lotta femminista globale. L’esperienza dei gruppi per il Salario di Lavoro Domestico di Ferrara e di Modena, Franco Angeli, Milano 2019. [12] Si veda il documento Perché il femminismo. Proposta di discussione sulla condizione delle ragazze rivolto alle studentesse, ciclostilato in proprio da Lotta Femminista di Modena, 1972. Fonte Ddmo, Archivio Circolo Casa delle donne, b.14, fac. 10. Il documento insiste sulla assoluta inesistenza di parità tra i sessi e nota come «in Italia solo il 18% della popolazione femminile è occupata» e come «la famiglia deve garantire la perpetuazione dei ruoli». Si trova nella parte documentale del testo di Antonella Picchio e Giuliana Pincelli, Una lotta femminista globale, cit., p. 109. [13] Altro documento della Ddmo, Archivio Circolo Casa delle donne, Lotta femminista, Modena 29 novembre 1973, Madri , maestre, inservienti, sempre raccolto in A. Picchio - G. Pincelli, Una lotta femminista globale, cit., p. 115. [14] R. Cicciomessere, L. Zanuso, A.M. Ponzellini, A. Marsala (a cura di), A Milano il lavoro è donna. Il mercato del lavoro milanese in un’ottica di genere, Italia Lavoro Spa, Milano 2016. [15] L. Fantone, Una precarietà differente in L. Fantone (a cura di) Genere e precarietà, Scriptaweb, Napoli 2011, p. 25. [16] Ibidem, p. 29 [17] L. Parinetto, Corpo e rivoluzione in Marx. Morte, diavolo, analità, Mimesis, Milano 2015, p.22. [18] Ibidem, p. 49. [19] I. Possenti, Flessibilità. Retoriche e politiche di una condizione contemporanea, ombre corte, Verona 2012 [20] C. Morini, Per amore o per forza, cit.; vedi anche Basic Income Network Italia (a cura di), Generazioni precarie. Una conricerca tra percezioni del rischio, bisogni emergenti e welfare dal basso, Commonfare Book Series 2018, https://pieproject.eu/wp-content/uploads/2018/01/CBS1_GenerazioniPrecarie_FINAL.pdf.Lo sguardo delle donne sul lavoro tra gli anni Settanta e i Duemila: una sintesi retrospettiva



Immagine: H.H.LIM, Sguardi (L'editore resta a disposizione per eventuali aventi diritti)


* * *

Cristina Morini, giornalista, saggista, ricercatrice indipendente. Fa parte della rete di ricerca, analisi e discussione internazionale «Effimera». È autrice di numerosi testi su donne e lavoro tra cui: La serva serve (DeriveApprodi, 2001), Per amore o per forza (ombre corte, 2010), Vite lavorate (manifestolibri, 2022). Per Machina cura «Il diario della crisi».


bottom of page