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Le norme sull'eleggibilità e il «rovescio» del colonialismo sportivo


Colonialismo sportivo
Immagine: Nidhal Chamekh, Le battement des ailes No.V. 2017. Courtesy Nidhal Chamekh e Selma Feriani gallery

Nel consueto appuntamento settimanale con «agon», Pippo Russo parte dal caso di Brahim Abdelkader Dìaz - calciatore con un passato nel Milan, ora nel Real Madrid - che ha accettato la convocazione del Marocco, terra natìa del padre, per riflettere più complessivamente su cittadinanza e appartenenza nel mondo dello sport.

Le riforme delle leggi nazionali sulla cittadinanza, unite al rafforzarsi del rapporto tra paesi di emigrazione e seconde e terze generazioni, impattano in materia sostanziale sulla scelta degli sportivi in merito alla rappresentativa nazionale con cui giocare.

Se da un lato è incentivata la corsa all’accaparramento di capitale umano da parte dei paesi con una potenza economica maggiore, dall'altro si apre alla possibilità che paesi con sistemi sportivi meno competitivi possano reclutare atleti che militano nei campionati nazionali di massimo livello.


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L’ultimo della serie è Brahim Díaz. Il calciatore noto agli appassionati italiani per aver giocato tre stagioni in Serie A con la maglia del Milan sta vivendo la maturazione calcistica con la maglia del Real Madrid. Lo status da quasi titolare nel club più glorioso al mondo gli spianerebbe la strada per la convocazione da parte della nazionale spagnola, che a sua volta è una delle più competitive in circolazione. Ma infine Brahim Díaz ha optato per una rappresentativa nazionale diversa. E ha accettato la convocazione del Marocco, paese di cui è nativo il padre.

Le cronache giornalistiche dalla Spagna raccontano che per il centrocampista delle merengue si è trattato di una scelta sofferta. Lui avrebbe voluto giocare con le Furie Rosse e per realizzare questo sogno aveva già declinato la convocazione da parte della nazionale marocchina in occasione dei due ultimi mondiali (Russia 2018 e Qatar 2022). Sacrificio inutile, poiché la chiamata dalla nazionale spagnola non è mai arrivata. Dunque, il solo esito della sua aspirazione a difendere i colori del Paese in cui è nato è avere sperperato l’opportunità di contare già due partecipazioni mondiali nel curriculum. Perdere il terzo mondiale di fila sarebbe stato un trionfo di autolesionismo. Sicché all’ex milanista non è rimasto che cedere alla corte della federcalcio marocchina. Con un’ultima dichiarazione di amore per la nazionale spagnola, che da qui in avanti non potrà essere la «sua» nazionale: «Spero di non dover mai fare gol contro la Spagna».

La scelta di Brahim Díaz ha provocato malumori nel mondo calcistico spagnolo. Malumori che si sono diretti soprattutto verso il commissario tecnico Luis De La Fuente. Che non si è limitato a snobbare Díaz, ma è andato oltre lasciando trasparire che il calciatore avesse fatto pressione per essere convocato. L’impressione è che la storia, col suo carico di polemiche, non finisca qui. Ma l’aspetto di nostro interesse è un altro. E per cominciare a affrontarlo bisogna spostarsi sull’altro versante nazionale della storia, quello marocchino. Qui trova posto un altro commissario tecnico, che al contrario del collega spagnolo è lieto di accogliere Brahim Díaz. Si tratta di Walid Regragui, l’allenatore che per il Marocco è un eroe nazionale per avere guidato la nazionale alla conquista del quarto posto ai Mondiali di Qatar 2022, il piazzamento migliore di sempre per una nazionale africana. È anche in ragione di tanto carisma acquisito sul campo che Regragui può permettersi di andare oltre il discorso meramente calcistico e assumere una leadership sociale e politica. Ciò che ha dimostrato proprio in occasione della conferenza stampa successiva all’ufficializzazione della convocazione del calciatore madridista. Nella circostanza il commissario tecnico dei Leoni dell’Atlante ha tenuto a precisare un dettaglio da orgoglio patriottico. Ha infatti ripetutamente corretto il giornalista che insisteva a chiamare in modo, a suo giudizio, sbagliato il nuovo calciatore della nazionale marocchina: «Il ragazzo non si chiama Brahim Díaz, ma Brahim Abdelkader». Ciò che in una certa misura colpisce in pieno l’etnocentrismo calcistico europeo, sollecitandolo a avviare i conti con la propria cattiva coscienza. Ma nella frase del commissario tecnico marocchino possono essere rintracciati motivi più profondi. La cui illustrazione richiede un’analisi che spazzi via i luoghi comuni radicati sia nella parte Nord che nella parte Sud del mondo calcistico.

 


Nel nome della madre

Parafrasiamo pure il titolo del romanzo e partiamo dalla storia del cognome. Il calciatore ex Milan e attualmente Real Madrid fa all’anagrafe Brahim Abdelkader Díaz. Una formula che, come da prassi spagnola, mette in fila il cognome del padre e il cognome della madre. Tutti i calciatori spagnoli sono a noi noti attraverso il cognome paterno ma in realtà sono accompagnati da doppio cognome: per esempio, Emilio Butragueño Santos, Andrés Iniesta Luján, Gerard Piqué Bernabeu (e qui si capisce perché mai il cognome materno venga celato), Sergio Ramos García, e avanti così con una lista che potrebbe snodarsi per giorni. Rimane immutato lo schema che porta all’uso quotidiano del cognome paterno per identificare il singolo soggetto, si tratti di calciatore o meno. Una regola che in Spagna vale per tutte e tutti. Ma non per il calciatore ispano-marocchino. Che dovrebbe essere noto col cognome del padre Sufiel Abdelkader Mohand, immigrato marocchino a Melilla (enclave spagnola in territorio marocchino) assieme ai genitori. E che invece è conosciuto per il cognome della madre spagnola, Patricia Díaz, malagueña come il figliolo.

 


La terra degli avi - Il motivo dell’anomalia di denominazione del calciatore spagnolo appena arruolato dalla nazionale marocchina non è noto. Né interessa approfondirne la conoscenza, poiché le questioni in ballo sono altre e riguardano il lento riequilibrio che nel mondo del calcio si registra fra i paesi del Nord e i paesi del Sud del mondo. Questo riequilibrio si gioca su un versante peculiare: quello dell’appartenenza. Che nel linguaggio della sociologia della cittadinanza fa riferimento alla sfera dei doveri, delle fedeltà e delle responsabilità in capo all’individuo-cittadino.

La questione dell’appartenenza ha impatto sul mondo dello sport per ciò che riguarda il tema dell’eleggibilità. Che è la parola chiave nel sistema dello sport globale, poiché inquadra la condizione di selezionabilità dell’atleta da parte di una rappresentativa nazionale. E in tema di eleggibilità il mondo del calcio è un fronte particolarmente caldo e creativo. Il principale motivo di questo eccezionalismo viene dall’altrettanto creativa propensione della Fifa a riconoscere federazioni nazionali che non fanno capo a stati-nazione. Per capire i termini dell’anomalia basta guardare le cifre: l’Onu riconosce 193 stati nazionali, mentre la Fifa riconosce ben 211 federazioni nazionali. E intorno a queste cifre sconcertanti si innesca un balletto di federazioni calcistiche che non sono espressione diretta di uno stato-nazione e di stati-nazione che non esprimono una federazione calcistica nazionale. La lista delle federazioni calcistiche nazionali ma non statali comprende 14 realtà micro, ciascuna con uno stato-nazione di cui sono territori pertinenti: Anguilla (UK), Aruba (Paesi Bassi), Bermuda (UK), Curaçao (Paesi Bassi), Gibilterra (UK), Guam (USA), Hong Kong (Cina), Isole Cayman (UK), Isole Cook (Nuova Zelanda), Isole Far Oer (Danimarca), Isole Turks and Caicos (UK), Isole Vergini Britanniche (UK), Isole Vergini USA (USA), Macao (Cina); Montserrat (UK), Nuova Caledonia (Francia), Portorico (USA), Samoa Americane (USA) e Tahiti (Francia). Una carrellata di micro-nazioni che comprende, fra l’altro, fior di paradisi fiscali. Ma questo è soltanto un dettaglio. Ciò che piuttosto merita rilevare è che, prima di ironizzare sulla propensione lillipiuziana della Fifa nel riconoscere nazioni calcistiche, bisogna leggere i nomi delle quattro residue nazionalità che non sono espressione singola di uno stato nazione, tutte quante ricondotte sotto l’ombrello UK: Galles, Inghilterra, Irlanda del Nord e Scozia.  Cioè, quattro nazionalità e quattro federazioni calcistiche che, oltre a aver fatto in misura diversa la storia del calcio, hanno contribuito in modo determinante a quel processo di sportivizzazione (come insegna la fondamentale lezione di Norbert Elias e Eric Dunning) da cui sono nati il calcio e il rugby; cioè, le due discipline sportive di squadra che hanno fatto da traino allo sviluppo dello sport nello spazio culturale della modernità. Se poi si rovescia la prospettiva e si guarda agli stati nazione che non trovano espressione in una propria federazione calcistica nazionale ci s’imbatte nel paradosso del Regno Unito (UK) che, come si ricava dalla lista appena passata in rassegna, è al vertice di ben undici delle diciotto federazioni calcistiche non espresse direttamente da stati-nazione, ma a sua volta non esprime una federazione calcistica nazionale. Altri stati nazione riconosciuti dall’Onu che non esprimono una federazione calcistica sono realtà come Città del Vaticano, Micronesia, Palau, Principato di Monaco.

Il mosaico così composito permette di inquadrare le condizioni di sfondo per il moltiplicarsi dei cambiamenti di nazionalità sportiva e di appartenenza. E aggiunge un elemento di riflessione: grazie a questo meccanismo si determina un meccanismo del riequilibrio di forze, quantomeno sul piano calcistico, fra paesi del Nord del mondo e paesi del Sud del mondo.

 


Il contrario del neocolonialismo

La sfera calcistica in cui avviene il riequilibrio è quella delle rappresentative nazionali. Chi auspicasse di assistere a un analogo processo nel segmento del calcio dei club, farebbe bene a lasciare andar via ogni illusione: su quel piano il potere del denaro e dei quarti di nobilità consolidati è inscalfibile. A meno di un mutamento culturale vasto, oltreché di un corposo trasferimento dei poteri geoeconomici, non è pensabile che le attuali gerarchie vengano rimesse in discussione. E per il momento quel mutamento culturale non s’intravede all’orizzonte.

Se invece si sposta il focus sul versante del calcio delle rappresentative nazionali, allora il discorso cambia. Perché qui l’impatto culturale della globalizzazione ha agito in profondità, rivoluzionando il panorama e le mentalità. La propensione a passare da una rappresentativa nazionale all’altra è aumentata non soltanto per effetto delle riforme delle leggi nazionali sulla cittadinanza, che in misura vasta hanno aperto al principio della dual citizenship e rimosso l’ostacolo della perdita della cittadinanza originaria. Incidono altri fattori, il principale dei quali è il rafforzarsi del rapporto fra i paesi di emigrazione e le seconde e terze generazioni delle vaste diaspore. In questo mutato quadro della situazione si modificano anche le traiettorie culturali e motivazionali che determinano le scelte di eleggibilità dell’atleta. Le rappresentative nazionali somigliano un po’ più ai club nel senso che possono utilizzare la leva del reclutamento e persino fare scouting nella diaspora trasformata in un asset da sfruttare. E tutto ciò produce un effetto di redistribuzione del talento e delle capacità competitive che nel calcio dei club non è configurabile.

Il processo che ne deriva ha effetti sorprendenti. Certamente inattesi rispetto ai quadri interpretativi che venivano elaborati all’inizio del nuovo secolo, cioè al tempo in cui decollava la prassi dei cambi di nazionalità di atlete e atleti. A questo proposito ritorna alla mente la polemica animata nei primi mesi dell’anno 2000 dal comitato olimpico cubano e dall’allora presidente della federazione nazionale dell’atletica leggera. Quest’ultimo, rispondendo al nome di Alberto Juantorena, poteva spendere nella circostanza un carisma da leggenda dello sport mondiale. E grazie a questo capitale di prestigio personale si era intestato una battaglia politico-sportiva di portata globale, innescata intorno al diniego opposto alla saltatrice in lungo Niurka Montalvo (cubana naturalizzata spagnola, dopo il matrimonio con un cittadino spagnolo) di partecipare alle Olimpiadi di Sidney sotto le insegne del suo nuovo paese. In quella circostanza Juantorena affermò che lo stop a Montalvo era espressione di una battaglia che non riguardava soltanto il comitato olimpico cubano, ma piuttosto si allargava a tutti i paesi del Sud del mondo messi a rischio di subire una forma di neocolonialismo. Nello specifico, la risorsa che viene indicata come possibile oggetto di spoliazione è il talento sportivo (muscle drain). Il quadro interpretativo in cui si inseriva la tesi del neocolonialismo sportivo guardava alla crisi demografica e di vocazioni sportive che, in misura più o meno uniforme, colpisce i paesi economicamente più sviluppati. I cui sistemi sportivi hanno però necessità di mantenere un livello adeguato di competitività internazionale. E poiché ciò è sempre più difficoltoso da garantire attraverso la leva della formazione (cioè, sviluppare il talento sportivo grezzo entro le proprie strutture per portarlo ai livelli di eccellenza), si rende necessario ricorrere alla leva del reclutamento (cioè, acquisire il talento già formato da altri e farlo attraverso il mercato dello scambio). In parole brutali, si tratta di una corsa all’accaparramento di capitale umano, entro una logica della competizione globale che non permette di perdere il passo.

La lettura proposta da Juantorena è certamente affascinante e stimola le passioni terzomondiste che molti continuano a coltivare. Ma se passata alla prova dei fatti, questa tesi viene confutata. I casi di cambiamento di nazionalità sportiva (e di appartenenza) riguardano non soltanto atleti che passano da paesi del Sud a paesi del Nord. C’è una nutrita lista di atlete e atleti che passano da paesi ricchi a altri paesi ricchi. Ma è ancora più vasta la lista degli atleti che passano da paesi più ricchi a paesi più poveri. Il motivo di questa scelta è semplice: l’offerta di opportunità sportive che il paese di nascita non mette a disposizione. In questo senso il caso di Brahim Abdelkader Díaz è esemplare: avendo visto mortificata l’aspirazione di indossare la maglia della nazionale spagnola, e potendo esercitare l’opzione di eleggibilità per la nazionale marocchina, ha scelto una rappresentativa africana chiudendo la porta alla possibilità di giocare per una rappresentativa europea di primo livello. E come il calciatore ispano-marocchino, numerosi altri calciatori di nazionalità europea ma eleggibili per giocare con nazionali africane hanno fatto questa scelta. Le cifre che danno conto di questa tendenza sono impressionanti. Una grafica pubblicata nei giorni in cui si svolgeva il mondiale in Qatar, relativa ai calciatori che hanno giocato la manifestazione per una nazionale diversa da quella del paese di nascita, parlano di oltre 100 nominativi. Alcuni nomi presenti nella lista sono davvero poco indicativi (per esempio l’interista Marcus Thuram, nazionale francese ma nato in Italia negli anni in cui il padre giocava in Serie A), ma per la massima parte dei casi le indicazioni sono significative. Dalla panoramica emerge un dato: per la massima parte si tratta di calciatori che passano da paesi più sviluppati (sia in senso economico che in senso calcistico) a paesi meno sviluppati. In particolare, le nazionali africane fanno incetta di calciatori nativi francesi. E quest’ultimo dato trasmette appieno il senso del «rovesciamento» della prospettiva neocolonialista.

Succede infatti che i paesi del Sud del mondo reclutino calciatori formati all’interno di sistemi sportivi più competitivi, abituati a giocare in campionati nazionali del massimo livello. Ciò che permette loro di sopperire al deficit di formazione qualificata e di tornei nazionali realmente formativi. E non si tratta certo di rapina, bensì di restituzione. In questo senso le norme Fifa sull’eleggibilità aprono un vasto e equo campo delle opportunità per tutti, sia calciatori che rappresentative nazionali. Anche questa è globalizzazione.


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Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.

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