top of page

Atleti digitali

L'ultima frontiera di controllo biopolitico sull'atleta


Atleti digitali
Immagine: VALIE EXPORT, Body Configurations, 1972-76

Nell'appuntamento settimanale con «agon», Pippo Russo s'interroga su un tema importante: la datificazione del corpo degli sportivi, processo non più avveniristico o distopico, ma estremamente attuale.

La National Football League (NFL) e Amazon, infatti, hanno dato il via ad un programma denominato Digital Athlete approntato per tracciare la propensione all’infortunio dei singoli atleti attraverso il monitoraggio continuo delle loro prestazioni, permesso dalle nuove tecnologie digitali. Tale piano nasce con una finalità positiva, ovvero preservare la salute, ma nasconde un lato oscuro: la profilazione con gli algoritmi potrebbe sfavorire il potere contrattuale degli sportivi perché verrebbe registrata la sua intera storia clinica e il suo declino fisico col passare degli anni.

Dunque: sfruttamento capitalista del corpo dell’atleta, che diventa come una macchina prossima all’esaurimento del ciclo d’ammortamento e di utilità; modello di gestione del rischio-carriera che comincia a somigliare all’uso degli strumenti più arditi di finanza speculativa, una sorta di futures dell’efficienza agonistica individuale; utilizzo della tecnologia per il controllo biopolitico del corpo. L'industria dello sport come laboratorio per processi che travalicheranno all'intero mondo del lavoro, all'intera società?


***


Il progetto nasce per una finalità positiva. Lo hanno battezzato Digital Athlete e a implementarlo sono stati due colossi globali nell’industria di sport e intrattenimento: da una parte la National Football League (NFL), la lega del football americano che ogni anno produce col Super Bowl uno spettacolo sportivo fra i più magnetici al mondo; dall’altra parte c’è Amazon, che sulla propensione del pubblico globale verso il consumo immediato ha costruito la sua fortuna ma anche sistemi raffinatissimi di intelligenza artificiale per processare dati in tempi rapidissimi. Questi sistemi sono organizzati sotto la sigla Amazon Web Services (AWS). Dall’alleanza fra NFL e AWS nasce il programma che prova a risolvere un problema sanitario sentito nel football americano più che altrove: l’incidenza degli infortuni gravi. In particolare, l’ossessione da tenere per quanto possibile a distanza è racchiusa nel termine concussion, commozione cerebrale. Ciò che per il mondo della NFL è non soltanto un problema sanitario. C’è in ballo qualcosa di molto più cinico: denaro. Una montagna di denaro, da spendere in risarcimenti a ex atleti che riportano danni cerebrali causa traumi stratificati durante la carriera. A subirli è un esercito di giocatori che nel corso dei decenni si è ingrossato, ma che soprattutto ha preso coscienza di sé. Una coscienza di classe cementata dai disagi fisici del post-carriera.

La controversia si trascina da oltre un decennio senza che sia stato raggiunto un accordo davvero risolutivo. A fine agosto 2013 NFL aveva negoziato un risarcimento con le rappresentanze di oltre 4.500 ex atleti. La cifra concordata era 765 milioni di dollari. Ma pochi mesi dopo, gennaio 2014, la giudice federale Anita B. Brody aveva bocciato quell’accordo. Motivo: la cifra le era sembrata troppo bassa. Dunque, è stato necessario far ripartire da capo il negoziato, ciò che ha portato al raggiungimento di un nuovo accordo a aprile 2015 sulla base di 1,2 miliardi di dollari. In questa occasione la giudice Brody ha detto sì, ma una volta ricevuto l’ok il patto fra le parti è andato incontro a problemi di effettiva esecuzione. La sua applicazione ha generato ulteriori polemiche, soprattutto per la venatura discriminatoria denunciata da atleti afroamericani. Che rappresentano anche la maggior parte dei soggetti colpiti da cronic traumatic encephalopaty (CTE), conseguenza dei casi di concussion. Inoltre, la liquidazione delle cifre di risarcimento è stata meno efficiente di quanto auspicato, come è stato denunciato da un’inchiesta del Washington Post pubblicata alla fine dello scorso mese di gennaio. Accordo o non accordo, una definitiva pacificazione fra le parti rimane distante.

Al di là di polemiche ed esiti delle diverse tornate di negoziazione, rimane il dato dell’incommensurabile montagna di denaro che servirà per tacitare le istanze già maturate e quelle che dovessero sopraggiungere. Per questo la lega del football professionistico, oltre a fissare standard di protezione sanitaria sempre più elevati, ha deciso di fare bottega con Amazon e di attingere ai suoi programmi di intelligenza artificiale per mettere su un progetto ambizioso. Quello dell’Atleta Digitale, appunto. Che altro non è se non un programma approntato per tracciare la propensione all’infortunio dei singoli atleti. Un ambizioso investimento in prevenzione, che mira a prendersi cura in egual misura della salute degli atleti e delle finanze delle franchigie. E in questo incrocio fra tutela dell’incolumità dei giocatori e salvaguardia delle proprietà dal dissesto non vi sarebbe nulla di disdicevole, se ciò davvero mettesse al sicuro i giocatori. Ma in tutto ciò c’è un lato oscuro che non è stato abbastanza valutato. E che rischia di essere per gli atleti un elemento di ulteriore fragilizzazione, anziché di tutela.

 

 

La parte oscura del record

Le perplessità nascono quando si soppesa la finalità ultima del progetto Digital Athlete: monitorare il rischio di infortunio dell’atleta. Programma sofisticato, certamente suggestivo nonché animato da ottimi propositi. Basato sull’elaborazione di una quantità sterminata di informazioni, trasmesse a un centro dati dal singolo atleta, che a sua volta viene scrupolosamente tracciato perché si trasformi in dato ogni suo gesto compiuto sui campi da gioco e di allenamento. I materiali informativi reperibili anche via YouTube descrivono quattro direttrici nello sviluppo del progetto di Atleta Digitale: analisi del rischio, analisi specializzata (relativa alla performance), miglioramento dell’equipaggiamento da gioco e adattamento delle regole del gioco.

L’analisi dei dati raccolti permetterà di intervenire in queste direttrici e proverà a ridurre il rischio di infortuni. Tutto ciò passa comunque dalla scrupolosa profilazione di ogni atleta, i cui dati verranno elaborati tramite uso di algoritmi della performance e dello stress indotto. Come la cosa verrà messa in pratica e quanto funzionerà sono cose da constatare, poiché il progetto si trova nelle prime fasi di applicazione. Bisognerà concedergli il giusto tempo di rodaggio. E se poi davvero servirà a contenere il rischio di infortuni, non si potrà che accoglierlo in termini positivi. E tuttavia, detto degli aspetti positivi che Digital Athlete potrebbe generare, bisogna anche tenere in considerazione una grave criticità: chiedersi cosa mai significhi monitorare il rischio di infortunio di un atleta e quali implicazioni ciò possa avere per l’atleta stesso.

Per capire il rischio in ballo è necessario prenderla un po’ alla larga, ripescando una vecchia citazione cinematografica che è stata anche una grande occasione mancata. Il film cui si fa riferimento è L’ultimo boyscout – Missione sopravvivere (1991). Diretto da Tony Scott e interpretato da Bruce Willis come attore principale, il film aveva tra i suoi personaggi un ex giocatore di football, Jimmy Dix, radiato dalla lega perché coinvolto in un giro di scommesse illegali. In un passaggio particolarmente drammatico, Dix si sofferma sul fatto che il football è (o era all’epoca) l’unico sport in cui vengono pubblicate le statistiche individuali sugli infortuni dei giocatori. Ciò che nel suo racconto avrebbe avuto come conseguenza, per i giocatori fragilizzati dall’usura fisica, finire nell’orbita del racket delle scommesse. A un’analisi critica quella sequenza è equiparabile a un clamoroso «liscio» nel calcio. Magari di quelli a porta vuota: devi solo buttarla dentro e invece manchi clamorosamente il pallone. In questo caso l’occasione mancata riguarda il fatto che ben altro tipo di pressione e sfruttamento sugli atleti si sarebbe potuto individuare, valutando le conseguenze della raccolta di statistiche sui loro infortuni. La vera insidia verrebbe infatti dai proprietari di franchigia, coloro che nel linguaggio dello sport europeo chiameremmo (impropriamente) presidenti dei club, che grazie a quelle statistiche si trovano uno strumento di straordinaria forza contrattuale.

Basta immaginare la scena: proprietario di franchigia e atleta siedono al tavolo della trattativa per il rinnovo di un contratto, e il primo tiene accanto a sé una cartella in cui è scrupolosamente annotata la storia sanitaria della controparte. Dati impossibili da contestare dall’atleta, che da quella sequenza di incidenti si vede associare una sorta di svantaggio attuariale calcolato sulla probabilità di efficienza sportiva residua. Di fatto, ciò che viene valutato è uno dei record dell’atleta. Laddove l’accezione di record rimanda all’accumulo di dati e cifre fatto segnare in carriera. Ma con l’avvertenza che ci sono cifre e cifre. Da una parte troviamo quelle che finiscono negli almanacchi e segnano le glorie e le fortune agonistiche personali; dall’altra parte ci sono quelle che tracciano il declino dell’atleta e ne segnano l’indebolimento della forza contrattuale. Di questo stiamo parlando. E verso tale direzione porta l’idea di misurare la propensione all’infortunio di un atleta.

 

 

Un altro modo di essere dentro Minority Report

L’idea che dell’atleta possa essere tracciata la propensione all’infortunio fa tornare in mente questa suggestione. E richiama l’ennesima variante sul tema del controllo biopolitico esercitato sul corpo atletico. Con un distinguo, tuttavia: che il raggio del controllo e dello sfruttamento oltrepassa il limite della prestazione – e dunque, della produzione di «utilità tramite efficienza» – per andare a massimizzare anche l’anti-prestazione. Ciò significa che si prova a ricavare un utile anche dall’affievolimento dell’efficienza. Ma mentre la piena efficienza dell’atleta può ancora essere vista come una condizione win win (utilità per l’atleta che massimizza le prestazioni agonistiche e utilità per l’ente che lo paga e si giova di quelle prestazioni), non altrettanto si può dire si può dire quando l’efficienza si affievolisce. In quest’ultimo caso la perdita di competitività individuale si trasforma in uno strumento negoziale per il datore di lavoro. Tale accrescersi dell’asimmetria fra le due posizioni fa largo all’ennesimo sfruttamento capitalista del corpo dell’atleta, che a quel punto diventa come una macchina – macchina da prestazione, appunto – prossima all’esaurimento del ciclo d’ammortamento e di utilità.

Entro questo schema di asimmetria crescente nei rapporti di forza, la prospettiva che di un giocatore si possa misurare la propensione all’infortunio diventa devastante, per almeno due motivi. Perché si introduce un modello di gestione del rischio-carriera che molto comincia a somigliare all’uso degli strumenti più arditi di finanza speculativa, una sorta di futures dell’efficienza agonistica individuale. E perché i margini del controllo sulla corporeità dell’atleta si estendono su un livello vicino all’ossessione distopica da Minority Report. Come se arrivassero i Pre Cog nella valutazione dell’efficienza fisico-agonistica individuale e delle sue prospettive. Quanto tutto ciò sarà davvero di giovamento per l’atleta?

Ci si ritrova così con la necessità di modificare la lettura di un progetto che nasce con un intento indiscutibilmente positivo sul piano sociale (tutelare la salute di atleti d’alta competizione, cioè, in ultima analisi, di persone), che rimanda immediatamente a un’ulteriore finalità cinica ma cionondimeno legittima (evitare che la lega professionistica e i suoi soci-proprietari rischino il dissesto a causa del diluvio di risarcimenti), ma che infine apre a una dimensione oscura. E questa dimensione oscura prende il nome di Governo dell’Algoritmo. Sarà l’algoritmo a determinare chi è fit, adeguato a prendere parte alla gara. E sarà ancora l’algoritmo a escludere, a decidere chi dovrà farsi da parte, temporaneamente o anche definitivamente. Ogni scelta verrà determinata non già da variabili fattuali, ma da proiezioni matematiche effettuate su dati estratti da corpi in performance e elaborati attraverso parametri che a loro volta sono frutto di un’astrazione. Ti fermi, o smetti, perché qualcuno ha calcolato su di te un rischio di usura fisica grave a partire dai dati che tu stesso hai prodotto tramite sforzo fisico. Che l’algoritmo ti metta davvero al riparo dall’infortunio, è cosa impossibile da dimostrare perché non si potrà ottenere controprova. Che invece l’algoritmo ti metta fuori gioco diventerà cosa oggettiva.

 

Il trionfo del potere estrattivo

Poi si scopre che il progetto Digital Athlete, qualora si dimostrasse un successo, potrebbe avere applicazioni sorprendenti. E altrettanto inquietanti. Il più inquietante è stato espresso da Jennifer Langton, responsabile per la NFL dei protocolli su sanità e innovazione, nel corso di un’intervista rilasciata a Fox Tv, Langton ha affermato che questa tecnologia potrebbe essere trasferita «nell’industria militare o in altre industrie». Ciò che ci introdurrebbe nel tempo della «guerra preparata con altri mezzi».

Ma al di là delle speculazioni e delle applicazioni futuribili cui il progetto di Atleta Digitale potrebbe andare incontro, rimane l’elemento costante che fa del corpo dell’atleta, oggi, un oggetto sottoposto a nuova e più raffinata pratica dello sfruttamento. Il salto di qualità avviene proprio grazie alla digitalizzazione, con annessa possibilità di produrre e accumulare dati. Una quantità di dati assurda, folle nella sua incommensurabilità eppur mai sufficiente a saziare la bulimia di altri dati. Dati che divorano dati e inesauribilmente continuano a richiederne. E al centro di questa immane valanga datistica si ritrova l’immensamente piccolo del corpo dell’atleta. Sfruttato in movimento durante la prestazione, ma sfruttato anche in fase immota come entità dalla quale estrarre cifre.

Fra le tante novità su questo versante è arrivato il monitoraggio del sonno. Dell’atleta va studiata e ottimizzata anche la fase del riposo, ci spiega chi studia la scienza della performance. Un riposo ben calibrato e efficientemente prestato diventa così ulteriore complemento alla prestazione. E poiché ci si spinge fin lì è lecito chiedersi cos’altro si penserà di monitorare attraverso nel corpo dell’atleta. La prossima tappa sarà forse il monitoraggio della sua attività sessuale? E fino a che punto sarà reso lecito drenare segmenti della sua privacy?

Si tratta di una china inarrestabile. La dimensione corporea dell’atleta viene declinata in chiave estrattiva. Una miniera di informazioni da digitalizzare e trattare. E i dati estratti vengono usati soltanto in parte a beneficio dell’atleta stesso. Sarebbe già tanto che non gli venissero usati contro, invero. Di sicuro c’è che vengono smistati (e rivenduti) altrove. Alle industrie della performance, dell’alimentazione, dell’equipaggiamento, dei materiali sperimentali, del farmaceutico. Se ciascun atleta intascasse un centesimo su ogni utilizzo di ciascun dato prodotto attraverso la sua dimensione corporea, avremmo un esercito sterminato di miliardari. Invece è soltanto un esercito di corpi sfruttati. Spremuti. Magari malati, ma decretati come tali soltanto dalle convenienze attuariali che regolano gli algoritmi. L’importante è far credere che tutto ciò sia fatto per il loro bene.


***


Pippo Russo (Agrigento, 1965) è ricercatore di Sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Giornalista e saggista, ha dedicato diversi studi all’analisi sociologica dello sport. Ha pubblicato quattro romanzi, fra i quali la duologia dedicata a Nedo Ludi.

bottom of page