Valerio Romitelli interviene su un tema di scottante attualità, il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Lo fa non limitandosi alla cronaca spicciola, ma proponendo alcuni temi di riflessione di ampio respiro storico. Questo evento, sostiene l’autore, va letto nel quadro creatosi al termine della guerra fredda tra opposti universalismi, cioè tra blocco capitalista e blocco socialista. L’euforia del trionfo del capitalismo a guida americana ha fatto credere che la democrazia potesse compiere anche quello che il comunismo aveva mancato. Senza capire la differenza fondamentale: quella per la quale il comunismo, anche quando praticato nel modo militaresco e devastante dei sovietici, non è mai potuto esistere se non come movimento («che abolisce lo stato presente delle cose» – diceva Marx), mentre la democrazia non può che essere uno stato, ossia un regime di Stato. È da qui che è nata l’idea dell’esportazione manu militari della democrazia all’americana. Ed è questa l’idea che oggi l’amministrazione Biden pare stia mettendo in soffitta.
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La più grande crisi mai conosciuta del capitalismo innescatasi nel 2007, l’elezione di Trump nel 2015 e il diffondersi globale di leader sovranisti e populisti (Bolsonaro, Duterte, Salvini, Le Pen, Orban, Kurz e così via), l’irreversibile emergere della Cina come potenza economica di prima grandezza, il nuovo protagonismo militare e diplomatico della Russia: simili fatti, assieme a innumerevoli altri, hanno contribuito a rendere più che mai incerti quei destini dell’umanità che dal disfarsi dell’Urss, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, per più di vent’anni erano stati proiettati su una inedita dimensione globalizzata dall’egemonia senza rivali degli Stati Uniti. Dalla fine del 2019, a distrarre da ogni riflessione storica e geopolitica ha poi provveduto l’irruzione della pandemia con tutte le sue specifiche problematiche di salute pubblica. Ma dall’inizio del 2021 la pur turbolenta e lacerante elezione di Biden ha fatto sperare che il corso delle cose potesse ritornare su binari più conosciuti e rassicuranti. Un’America tornata a pieno titolo «patria della democrazia», grazie a un presidente del partito per l’appunto «democratico», ha indotto a credere al ripristino di una maggiore quiete rispetto alle varie e inattese perturbazioni più recentemente imperversanti nel mondo.
1. A guastare le feste del buon senso è però arrivato come un fulmine a ciel sereno l’immane disastro connesso al ritiro dall’Afghanistan dell’US Army e dei «contractors» al suo seguito. Al colmo dell’orrenda commistione di ipocrisie, sprechi, falsità, stragi insensate, devastazioni e connivenze, alla fin fine fragorosamente palesatesi, sono venute le imbarazzanti dichiarazioni di Biden[1]: la democrazia? Sono gli afghani a non volerla! Gli Stati Uniti? Se ne vanno perché devono badare al loro interesse di Stato! Ma occhio a non infierire sul loro ritiro, se no ci vendicheremo! Una vendetta, si sa, poi immediatamente consumata e seguita dal solito occultamento delle vittime civili ovviamente coinvolte.
Niente più «esportazione della democrazia», dunque, ma priorità all’interesse particolare dell’America (o meglio del suo «ceto medio» come sempre Biden ricorda) e anche a costo di ritorsioni nel più puro stile criminale.
Isterie, convulsioni e colpi di coda tipici di una potenza sconfitta e allo sbando? Sarebbe una conclusione troppo affrettata. Così come troppo facile e fuorviante è l’abusato accostamento con la sconfitta in Vietnam nel 1975. A inficiare il paragone è soprattutto il carattere quanto mai equivoco di quella lontana vittoria dei Vietcong. Gloriosa, certo, e perseguita per lunghi, eroici e abominevoli anni, ma con seguiti del tutto contrari a quelli previsti. Se tale vittoria tanto attesa parve infatti coronare il trionfo di un piccolo paese comunista contro la superpotenza imperialista, il suo ottenimento precedette vicende di tutt’altro significato. La miriade di esperienze anticapitaliste e imperialiste pullulanti ovunque tra gli anni Sessanta e Settanta conobbe infatti un irreversibile riflusso complessivo proprio sul finire di questi ultimi anni, mentre d’altra parte prese avvio quell’incontenibile ripresa della superpotenza americana e dei suoi alleati che poi sarebbe esplosa tra gli anni Ottanta e Novanta, travolgendo ogni resistenza.
Conviene allora tenere conto molto di più di quanto non si faccia abitualmente della singolare condizione in cui si sono venuti trovare gli Stati Uniti dal momento in cui, dopo il ristagno e poi la disfatta dell’Urss, non hanno avuto più contendenti nel loro dominio nel mondo. Una condizione di dominio globale assoluto di cui nessun impero, salvo forse quello romano, hai mai potuto godere. Dall’alto di questo strapotere praticamente senza limiti i governi di Washington, specie dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, si sono permessi una strategia geopolitica così arrogante e avventurista, detta non per nulla «guerra infinita», da non distinguere più neanche i successi dalle sconfitte. La prospettiva perseguita non puntava infatti ad altro che a «distruzioni (supposte) creative», creative soprattutto nel creare il caos. Lo dimostra un fenomeno ricorrente nella maggior parte dei paesi (come Somalia, Iraq, Libia, Yemen, Siria e così via) dove lo Us Army si è intromesso durante questi anni di dominio assoluto, più o meno in nome di democrazia e diritti umani. Si tratta del fenomeno per il quale gli scontri armati tra diversi schieramenti, una volta provocati, non hanno mai più avuto fine, mantenendo una irreversibile situazione di instabilità, conflittualità e immani atrocità per le popolazioni inermi. A che pro? A pro, evidentemente, di quella concorrenza selvaggia tra opposti fronti belligeranti che di regola favorisce il gioco dell’attore più (militarmente) potente, cioè degli stessi Usa e dei suoi alleati. Da questo punto di vista, il ritiro dall’Afghanistan delle truppe americane è da vedere non come sconfitta, ma come compimento della missione di far precipitare questo paese in un caos tale da non essere più governabile da nessuno, ma meglio strumentalizzabile dagli stessi Stati Uniti con interventi più puntuali, a distanza o mediati tramite il condizionamento di fazioni locali, comunque a costi ribassati rispetto a quelli comportati dall’occupazione permanente.
2. Ma torniamo su una delle maggiori novità riscontrabili nella retorica di Washington in questa occasione del ritiro dall’Afghanistan: l’appannarsi, se non il dileguarsi, del tema già solitamente enfatizzato da questa retorica, ossia l’«esportazione della democrazia» intesa come missione universale dell’America e dei suoi alleati. Questa novità può anche essere interpretata come definitivo smascherarsi di questa compagine erede di tutta l’infame tradizione colonialista e imperialista. Altro che missioni umanitarie e per i diritti umani! A muovere in Afghanistan gli Stati Uniti e i loro reggicoda non erano altro che interessi di Stato! Questo in effetti hanno più o meno indirettamente ammesso recentemente Biden e il suo staff. E ciò non può non essere una bella soddisfazione per chi lo ha sempre denunciato. Ma anche in questo caso non bisogna affrettarsi nel compiacimento. Si tratta di chiedersi piuttosto perché e in che senso la politica estera americana ha preteso fino ad ora di avere ambizioni universalistiche e perché oggi ritiene di potervi in parte o in toto rinunciare.
Per porsi queste due domande giovano due osservazioni. La prima riguarda un tema cruciale della tradizione religiosa specialmente puritana che sta all’origine del «sacro esperimento» cercato dai padri fondatori di questa nazione. Una tradizione che impone il suo retaggio anche a presidenti cattolici come Biden. Il tema è quello del «popolo eletto» da Dio per essere primo destinatario dei suoi comandamenti: comandamenti valevoli sì per tutta l’umanità, ma non necessariamente accessibili, comprensibili, alla portata e alla coscienza di qualsiasi individuo o altro popolo. Di qui viene, ad esempio un motivo rappresentato in tanta parte della cinematografia hollywoodiana: la figura del giustiziere, il quale, per far valere la vera giustizia da cui è misteriosamente ispirato, si sente autorizzato a ricorrere ai modi più trasgressivi, cruenti e spietati.
La seconda osservazione riguarda la stessa democrazia, che è, come troppo spesso si dimentica, un regime quanto mai tipicamente americano, consustanziale fin dalle origini a tutta la storia americana, così come non è avvenuto in tutte le altre storie nazionali occidentali, inevitabilmente sempre caratterizzate da epoche monarchiche dominate da aristocrazie dichiarate.
Ecco dunque che, se mettiamo insieme questi due tratti fondamentali dell’identità americana dominante, si può comprendere come la sua pretesa superiorità etica e universalistica si sia formata nel regime che, dopo la fine dell’Urss e la definitiva conversione capitalista della Cina, ha avuto buon gioco nel farsi riconoscere come il migliore – o se non altro come «il meno peggiore di tutti gli altri» (secondo la celeberrima battuta di quel fedelissimo suddito della corona inglese che era Churchill). È dall’alto di questa supposta superiorità etica e istituzionale che le amministrazioni di Washington si sono sempre concesse il privilegio di affermare principi e valori universalistici senza sentirsi in obbligo di rispettarli. È da qui che viene il peggio del cosiddetto l’«eccezionalismo» americano. Sarebbe a dire, ad esempio, il promuoversi primi paladini di libertà, democrazia e diritti umani e al tempo stesso compiere qualsiasi nefandezza liberticida e antidemocratica. E ciò di fino al punto di non farsi alcuno scrupolo di collaborare sistematicamente con gruppi terroristici (come quelli di Bin Laden, dell’Isis o degli stessi talebani…), con regimi tirannici (come quelli un tempo di Saddam o di Gheddafi, Erdogan e oggi di Bin Sal-man…), tramando per far cadere governi democraticamente eletti (a partire dal Cile di Allende la lista è notoriamente infinita), torturando allegramente (Abu Ghraib…), rapendo o segregando a piacere (Guantanamo…). Se oggi, ritirandosi dall’Afghanistan, gli Stati Uniti si astengono dal dichiararsi sconfitti o dal fare un bilancio della loro disastrosa politica di democratizzazione di quel paese è perché per l’amministrazione Biden, per l’opinione dominante che la sostiene, per gli alleati succubi della Nato come l’Italia, non è accaduto niente di cui vergognarsi. La convinzione condivisa è sempre la stessa: che nel mondo sotto la guida di Washington si sta compiendo una missione superiore, ma che il mondo a volte, come ora, non è in grado comprenderla veramente.
3. Altro discorso merita il fatto che – indipendentemente dalla coscienza e dalle strategie americane, ma anche a causa del loro ripiegamento – il tema dell’universalismo in quanto tale, ossia della giustizia per l’intera umanità, si stia globalmente rarefacendo o ritornando esclusivo appannaggio delle Chiese. Ciò può anche non dispiacere all’anticolonialismo meno elaborato, quello che considera l’universalismo a senso unico, come strumento del colonialismo e dell’imperialismo occidentale. Ma in realtà tutto il meglio che è politicamente avvenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi è sempre avvenuto in nome dell’universalismo, ossia di un’idea di giustizia e benessere realizzabili in questo mondo e per l’intera umanità.
Primo promotore ne era il comunismo, fino ai primi anni Sessanta a guida sovietica e filosovietica, poi dalla metà di questi anni piuttosto ispirato da altri esempi, dalla Cuba castrista alla Cina maoista al Vietnam di Giap e Ho Chi Minh. Ma anche l’anticomunismo a guida americana in questa epoca ha dato il suo meglio provando a «contenere» il dilagare del comunismo, sia con le attrattive del consumismo, sia promettendo ovunque libertà, democrazia e diritti umani. Si è avuta così una «guerra fredda» tra opposti universalismi. Ed è proprio da questa contrapposizione a livello globale che sono venute tutte le conquiste che oggi rimpiangiamo: dal welfare state ai diritti del lavoro, dalla diffusione dell’educazione alle esperienze anticoloniali e così via.
Esauritasi l’ondata comunista, l’euforia del trionfo del capitalismo a guida americana ha fatto credere che la democrazia potesse compiere anche quello che il comunismo aveva mancato. Senza capire la differenza fondamentale: quella per la quale il comunismo, anche quando praticato nel modo militaresco e devastante dei sovietici, non è mai potuto esistere se non come movimento («che abolisce lo stato presente delle cose» – diceva Marx), mentre la democrazia non può che essere uno stato, ossia un regime di Stato. È da qui che è nata l’idea dell’esportazione manu militari della democrazia all’americana. Ed è questa l’idea che oggi l’amministrazione Biden pare stia mettendo in soffitta.
Niente toglie che essa prima o poi possa essere rilanciata. Ma certo è che la priorità degli Stati Uniti è diventata quella di cui Trump è stato il primo chiassoso promotore: la priorità sovranista di un’America che non fa neanche più lo sforzo ipocrita di proporsi paladina del benessere dell’intera umanità, ma stringe i ranghi tra i suoi alleati (non disdegnando neppure gruppi terroristi o regimi loro fiancheggiatori) pur di opporsi all’emergere del grande rivale cinese. Un rivale che si dice certo ancora comunista, ma che così facendo inquina ancora più di quanto non lo sia già quel che resta della credibilità politica e universalista di questo nome un tempo glorioso. La grande svolta che il ritiro americano dall’Afghanistan attesta sta proprio qui. Nel fatto che la tanto celebrata «democrazia più grande del mondo» sta degenerando al punto di divenire una potenza preoccupata unicamente del declino della propria sovranità sul mondo.
4. Conseguenza maggiore di questo tracollo della credibilità politica americana è la definitiva derubricazione dei principi e valori universali dalle agende dei governi di gran parte del mondo. Questo imporsi degli interessi sovranisti non può non portare alle più estreme conseguenze quella tendenza che Colin Crouch, oramai vent’anni fa, denunciava come «post-democrazia». A forza di spingersi a oltranza in questo «dopo» occorre ammettere che si sta entrando in un’altra epoca, dove la stessa simbologia democratica risulta sempre più rituale e meno politicamente operativa (come attesta più che mai l’esempio di un’Italia dove le lezioni contano sempre meno). Il che significa, tra l’altro, che tanto più risulta evidente che lo «stato d’eccezione» è diventato normalità, tanto meno dovrebbe risultare rilevante denunciarlo (diversamente da quanto dimostrano di pensare i nostri Agamben e Cacciari). Occorre vedere le nuove priorità politiche da affrontare, per non restare nel vaniloquio, critico magari, ma di fatto solo ridondante, e quindi diversivo.
Fenomeno politico massimamente perverso e da combattere è oggi la sistematica persecuzione dei volontari (Mimmo Lucano, Mediterranea, ResQ e altre associazioni di soccorso in mare, Linea d’Ombra e tanti altri) che si occupano della dimensione più essenziale dell’umanità, quella dei migranti. Ciò significa infatti che la speranza in un destino unico per tutti gli abitanti della terra è venuta meno a tal punto che neanche i politici di professione sentono di doversi misurare con essa, mentre per ottenere consensi non trovano di meglio che inseguire le paure di fantomatiche «invasioni straniere» o «ricambi etnici», organizzando gli odi degli autoctoni persino contro i loro stessi concittadini più sobriamente indifferenti a simili paure. Il diffondersi del desiderio segregazionista volto a dividere sempre più l’umanità tra cittadini e stranieri, tra ricchi e poveri, non piove comunque dal cielo. È anzitutto una conseguenza del fallimento dei due universalismi che, come più sopra ricordato, si sono combattuti la scena globale a partire dalla fine della seconda guerra mondiale: il fallimento già da tempo conclusosi del comunismo, il fallimento in corso della democrazia.
Il motto che sempre più spesso risuona per tentare di contrastare la deriva oscura nella quale siamo immersi è l’invocazione «restiamo umani!». Così, però, malgrado tutte le buone intenzioni, si dà adito a un equivoco apolitico se non qualunquista. L’umanità come dimensione unica infatti non è un dato empirico, naturale o filosofico sempre esistente e a cui restare fedeli, ma perché esista effettivamente ci vogliono delle politiche di unificazione degli esseri umani a partire da tutto ciò che li rende eguali. Senza tali politiche, o peggio col dominare di politiche inclini ai particolarismi delle identità nazionali e sovraniste, è inevitabile che prevalgano divisioni, segregazioni, discriminazioni tra chi può e chi no, tra chi teme di perdere quel tanto o quel poco che ha e chi non ha nulla da perdere. L’obbligo di dovere cominciare da chi non ha «nulla da perdere, se non le catene» era in effetti la constatazione da cui a suo tempo prese le mosse ciò che si chiamava l’internazionalismo proletario. Ma è sempre da qui che occorre anche oggi ripartire. Esergo di un nuovo internazionalismo proletario potrebbe essere la frase giustamente celebrata del compianto Gino Strada: «i diritti degli uomini devono essere di tutti, sennò chiamateli privilegi».
Il che dovrebbe valere anche per i corridoi «umanitari» promessi dagli Stati Uniti e dai suoi alleati (Italia in testa!) ai «collaboratori» afghani – evidentemente temendo di demotivare quelli di altri paesi –, mentre col fenomeno generale dei migranti i governi di questi paesi insistono imperterriti col metodo delle stragi e delle sevizie di ogni genere, ma preferibilmente per procura.
Note [1] Qui riassunte a mio modo.
Immagine di Christopher Wood.
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