Miseria e nobiltà del lavoro da remoto
Da pochi giorni è stata inaugurata una singolare rivista on line a periodicità trimestrale: «Rivista di lavorovivo. Appunti di diritto applicato». La progettazione e realizzazione è merito di un collettivo di avvocati del lavoro: Alessandro Brunetti, Gabriele Cingolo, Chiara Colasurdo, Salvatore Corizzo, Emiliano Fasan, Carlo Guglielmi, Andrea Matronola. La direzione è di Giovanna Pasi. A sostegno e diffusione di questa importante iniziativa editoriale pubblichiamo un testo di Alessandro Brunetti incentrato sull’impatto dei sistemi digitali sul mercato e sul diritto del lavoro.
* * *
Le nuove tecnologie emergenti
Il definitivo tramonto di ciò che rimaneva del fordismo, per una parte assolutamente preponderante del mondo del lavoro in particolar modo occidentale, è avvenuto ormai da molti anni ed è stato foriero di importanti trasformazioni nell’ibridarsi con le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie emergenti. Nello specifico, l’avvento e lo sviluppo delle tecnologie digitali hanno imposto un evidente cambio di paradigma nei sistemi di organizzazione produttiva. Inizialmente questi cambiamenti sono emersi principalmente nel terziario avanzato per poi progressivamente esondare verso un orizzonte generale. Non casualmente si parla di quarta rivoluzione industriale a fronte dell’utilizzo massivo di alcune tecnologie definite «abilitanti», che hanno ampiamente varcato la soglia tra ricerca applicata e sistemi di produzione. Oggi, grazie all’interconnessione e alla collaborazione tra sistemi, il panorama del mercato globale sta cambiando, portando alla personalizzazione di massa e giungendo a innovare anche l’intero settore manifatturiero attraverso:
– l’advanced manufacturing solution: sistemi avanzati di produzione, ovvero sistemi interconnessi e modulari che permettono flessibilità e performance. In queste tecnologie rientrano i sistemi di movimentazione dei materiali automatici e la robotica avanzata, che oggi entra sul mercato con i robot collaborativi o cobot;
– l’additive manufacturing: sistemi di produzione additiva che aumentano l’efficienza nell’uso dei materiali; – la realtà aumentata: sistemi di visione con realtà aumentata per guidare meglio gli operatori nello svolgimento delle attività quotidiane;
– le simulazioni: simulazione tra macchine interconnesse per ottimizzare i processi;
– l’integrazione orizzontale e verticale: integrazione e scambio di informazioni in orizzontale e in verticale, tra tutti gli attori del processo produttivo;
– l’industrial internet: comunicazione tra elementi della produzione, non solo all’interno dell’azienda, ma anche all’esterno, grazie all’utilizzo di internet;
– il cloud: implementazione di tutte le tecnologie cloud, come l’archiviazione online delle informazioni, l’uso del cloud computing, di servizi esterni di analisi dati, ecc. Nel cloud sono contemplate anche le tecniche di gestione di grandissime quantità di dati attraverso sistemi aperti;
– la sicurezza informatica: l’aumento delle interconnessioni interne ed esterne aprono la porta a tutta la tematica della sicurezza delle informazioni e dei sistemi che non devono essere alterati dall’esterno; – i Big Data Analytics: tecniche di gestione di grandissime quantità di dati attraverso sistemi aperti che permettono previsioni o predizioni. Dunque le nuove tecnologie digitali non sono solo in grado di svolgere da sé attività routinarie, ma anche di interagire con la realtà circostante per memorizzare dati ai fini dell’autoapprendimento. Ad assumere rilevanza è la gestione dei flussi di informazioni da parte dei lavoratori umani. Altra caratteristica derivante dall’impiego di tali nuove tecnologie digitali è la potenziale delocalizzazione del posto di lavoro, ovvero la progressiva irrilevanza della presenza fisica del lavoratore in azienda. Vengono così ad ampliarsi enormemente i lavori e le mansioni eseguibili «da remoto», grazie all’esperienza coinvolgente che garantiscono la «realtà aumentata»1 e la «realtà virtuale». Inoltre le tecnologie digitali – come si approfondirà nel prosieguo – hanno imposto un cambio di paradigma nel mercato del lavoro, che ha avuto una forte ripercussione sulla definizione delle categorie tradizionali del lavoro subordinato e del lavoro autonomo.
Il lavoro da remoto e la fase dell’emergenza Tutto ciò ha avuto un ruolo determinante nell’impiego di un sempre più massiccio ricorso al lavoro da remoto, con una particolare accelerazione negli ultimi tre anni. La remotizzazione dell’attività lavorativa è stata normata nel nostro ordinamento con l’istituto del telelavoro (lo strumento più arcaico) e con l’introduzione del lavoro agile a opera della L.n. 81/2017. Lo spettrogramma delle attività lavorative «remotizzabili» è cresciuto a dismisura nell’ultimo decennio e ne è stata data ampia e convincente prova durante il periodo più recrudescente dell’epidemia da Covid 19. La pandemia ha accelerato violentemente un cambiamento che era in atto, ma che aveva caratteri di lentezza e sporadicità. In buona sostanza l’emergenza sanitaria ha costituito un volano forzoso che ha disvelato l’ampia praticabilità del lavoro da remoto all’interno delle organizzazioni produttive che mostravano maggiore resistenza a calarsi verso il «non noto», preferendo attestarsi dentro i comodi confini del conosciuto. E questo ignoto, sperimentato coattivamente per motivi sanitari, è giunto a valicare i confini del lavoro manuale. Ad esempio in Cina gli operai delle miniere di molibdeno della provincia dello Henan hanno operato su macchinari destinati allo scavo e al trasporto dei materiali con un sistema di guida da remoto, inoltrando i comandi provenienti da postazioni lontane anche decine di chilometri. I numeri sono stati davvero importanti: per la prima volta nella storia i lavoratori da remoto hanno raggiunto quota 42 milioni. Ciò detto, per entrare nel merito del discorso, appare utile distinguere il lavoro agile emergenziale che si è praticato coattivamente durante il picco pandemico da quello ordinario disciplinato dalla L.n. 81/2017. L’ingente e stratificata produzione normativa accumulatasi nel corso dell’emergenza sanitaria ha realizzato un vero e proprio regime speciale del lavoro agile, che ha alterato profondamente, benché in via transitoria, le modalità costitutive e la disciplina di funzionamento ordinaria dell’istituto. Gli aspetti principali disposti in deroga con la normativa regolante l’istituto afferiscono al fatto che il lavoro da remoto emergenziale è stato svolto unicamente da casa e la decisione di attivarlo è stata presa unilateralmente dal potere direttivo datoriale. L’emergenza epidemiologica ha mutato radicalmente la funzione e la disciplina del lavoro agile, portandolo sostanzialmente a coincidere con il Telelavoro. La disciplina del Telelavoro nel settore privato è contenuta nell’accordo interconfederale del 9 giugno 2004, dove all’art. 1 lo si definisce come una forma di organizzazione e/o svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta fuori dei locali della stessa. Dunque quello che è stato definito smart working ed è stato imposto unilateralmente a migliaia di persone al fine di contrastare l’epidemia, altro non era che la traslazione dell’identica prestazione che si svolgeva dentro l’ufficio venendo espletata però entro le mura domestiche. Orario di lavoro, attività lavorativa, organizzazione produttiva, ritmi, riposi e mansionario sono rimasti completamente immutati rispetto a quanto avveniva prima del Covid. Così mutato, il lavoro agile ha cambiato la propria funzione: concepito originariamente per garantire la conciliazione tra vita e lavoro, ha assunto nella fase emergenziale la funzione di salvaguardare la salute e la vita del lavoratore, garantendo la continuazione dell’attività di impresa e il lavoro, ed assumendo dunque contestualmente i caratteri di una disciplina di «ordine pubblico sanitario». A tal fine il lavoro agile emergenziale muove da un atto di impulso unilaterale del datore di lavoro e può aver corso anche in assenza di un accordo individuale tra il lavoratore e il datore di lavoro, come invece previsto dalla legge del 2017. Nel quadro emergenziale, il lavoro agile viene di fatto a svolgersi nel domicilio del lavoratore e perde il tratto flessibile del luogo di lavoro che connota la disciplina ordinaria. Il lavoro da remoto, la norma e la tutela dell’integrità psicofisica Questo quadro eccezionale è stato oggetto di una rettifica generale non appena i ritmi del contagio hanno cominciato a rallentare, grazie alle vaccinazioni di massa. E difatti, con un’insopportabile retorica squalificante che alludeva a uno scarso rendimento del dipendente in home working (i cui livelli di produttività sono invero decuplicati), nel pubblico impiego si è scelto di imporre un rientro in presenza come forma prevalente di svolgimento della prestazione lavorativa. Il DPCM 23 settembre 2021, adottato dal Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della Pubblica Amministrazione, ha decretato che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe stata «prevalentemente» in presenza. Il testo specifica altresì che questa misura è assolutamente temporanea e viene applicata nelle more della definizione degli istituti del rapporto di lavoro connessi al lavoro agile da parte della contrattazione collettiva e della definizione delle modalità e degli obiettivi del lavoro agile. Molti osservatori, anche grazie all’evidenziata indecente retorica propagandistica, vi hanno intravisto un generale contrasto al lavoro da remoto. In realtà, visti anche gli enormi vantaggi in tema di produttività e riduzione dei costi, la posta in gioco sottesa al provvedimento non è tanto contrastare il lavoro da remoto tout court, ma indurre i singoli lavora-tori a una riconnessione forzata «agli obiettivi del lavoro agile», attraverso l’accordo individuale previsto dalla Ln 81/2017. L’obiettivo primario dunque è una normalizzazione e una piena attuazione di tutta la disciplina complessiva del lavoro agile prevista dalla L.n 81/2017, attuando un’organizzazione del lavoro dove sfumano i vincoli di orario, incentrandosi questa sulla realizzazione dei carichi di lavoro imposti. Questa «restaurazione» è stata tendenzialmente applicata, senza alcun formalismo particolare, anche nel privato. Vediamo rapidamente cosa prevede la legge del 2017 che ha introdotto il lavoro agile. La legge dichiara che lo scopo della disciplina è quello di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e definisce il lavoro agile come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno, senza una posta-zione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva (art. 18, l. n. 81/2017). Aspetti essenziali del lavoro agile sono dunque: a) l’accordo individuale tra le parti che può essere a termine o a tempo indeterminato, b) nella prestazione resa in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, c) nell’assenza di vincoli di luogo o di orario di lavoro d) nel possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Elemento centrale del lavoro agile è la frantumazione delle coordinate cartesiane di spazio e di tempo: si può lavorare dove si crede, senza dover rispettare un preciso orario di lavoro (pur nel rispetto dei «limiti legali e contrattuali»). Il lavoro agile è senza dubbio un lavoro subordinato, flessibile e che può essere sottoposto a un’organizzazione strutturata per «fasi, cicli e obiettivi». Organizzare per fasi e obiettivi la prestazione implica la determinazione unilaterale da parte del datore di lavoro del carico di lavoro. Il tempo per evadere detto carico rimane integralmente a carico del prestatore di lavoro. Nel dosaggio del carico di lavoro c’è la contraddizione tra un istituto che vuole conciliare i tempi di vita con quelli di lavoro e un istituto che cannibalizza la vita miscelandola con l’attività produttiva e che ne fagocita ogni interstizio pur di raggiungere gli obiettivi prefissati. Nel lavoro agile viene attribuito un ruolo centrale all’autonomia individuale delle parti, come si desume dalla previsione dell’art. 18, c. Il legislatore, infatti, si è limitato a prevedere un quadro regolativo snello, affidando all’autonomia contrattuale delle parti la determinazione di larga parte delle condizioni di svolgimento della prestazione. In particolare, il patto di lavoro agile deve regolare: a) l’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, anche con riferimento agli strumenti utilizzati dal lavoratore per espletarla (art. 19, c. 1); b) le forme di esercizio del potere direttivo (art. 19, c. 1) e del potere di controllo (art. 21, c. 1) sulla prestazione esterna resa dal lavoratore, nonché l’individuazione delle condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari (art. 21, c. 2); c) i tempi di riposo del lavoratore, unitamente alle misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la di-sconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro (art. 19, c. 1). A fronte della evidente sproporzione dei rapporti di forza in campo, e quindi della strutturale debolezza contrattuale del lavoratore, affidare all’autonomia individuale delle parti la regolamentazione di aspetti rilevanti dello svolgimento della prestazione esterna al perimetro aziendale può essere causa di abusi o di disparità di trattamento, relativamente ad alcuni aspetti non economici del rapporto. Da questo punto di vista, sebbene il legislatore l’abbia completamente ignorata, pare opportuno l’intervento della contrattazione collettiva al fine di uniformare le garanzie minime generali, volte a tutelare eventuali contrattazioni individuali mortificanti. Il fatto che l’accordo individuale preveda la regolazione delle «forme di esercizio del potere direttivo» è un elemento innovativo che merita una riflessione specifica. Il datore di lavoro, in quanto soggetto attivo del rapporto, non ha alcun bisogno di stabilire nell’accordo individuale le «forme» di esercizio del potere direttivo, in quanto, essendo egli il titolare di una prerogativa unilaterale, ha facoltà di decidere autonomamente sia il contenuto del potere direttivo (inteso come potere di conformazione della prestazione), sia, a maggior ragione, le modalità di esercizio dello stesso, semplicemente comunicando al prestatore gli strumenti di cui intenda avvalersi per esercitare il proprio potere qualora il lavoratore svolga la prestazione all’esterno dei locali aziendali. Dunque il legislatore, con il disposto in esame, ha inteso sottrarre il potere direttivo alla sua consueta dimensione gerarchica-unilaterale, a fronte di un lavoratore non più costretto tra precisi vincoli di orario e di luogo ma libero, entro i limiti stabiliti dal patto, di organizzare la prestazione anche in funzione dei propri tempi di vita come se si trattasse di un prestatore autonomo. Il potere direttivo quindi si ritrae e ciò viene concordato proprio perché solo così è possibile bilanciare la flessibilità concessa dalla legge in termini di limiti temporali e di luogo, con il rispetto della sfera privata del dipendente. Il potere direttivo si ritrae in concomitanza con la disintermediazione del lavoro dall’ambiente lavorativo. Questo «sbiadire» fa venir meno nella sostanza il potere direttivo, che appunto è assoluto o non è. Ne consegue che viene così meno un pilastro qualificante del lavoro subordinato ex 2094 c.c. e che – come vedremo in seguito – non potrà più essere posto al centro dell’indagine finalizzata a rilevare la natura del rapporto. Analogamente l’accordo individuale deve stabilire le forme entro cui si esercita il «potere di controllo», posto in relazione funzionale a quello «direttivo». Lo «scolorirsi» del potere direttivo comporta – per il legame logico tra i due – una medesima speculare sfocatura del controllo. Con un’organizzazione per obiettivi, risultati o fasi, non vi è dubbio che il controllo non potrà essere esercitato sullo svolgimento parcellizzato delle mansioni nell’unità di tempo e di luogo. Quindi nel lavoro agile l’esatto adempimento non si misurerebbe tanto dall’osservanza delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dal datore, quanto dal suo adempimento diligente in termini di risultato atteso dal creditore in ragione di quanto convenuto nell’accordo. Più ampia è la discrezionalità di cui gode il lavoratore con riferimento all’esecuzione della sua attività, maggiore è la responsabilità che assume rispetto al raggiungimento del risultato atteso, che si riflette, dunque, sulla valutazione dell’esatto adempimento e della conseguente responsabilità contrattuale. Le pericolose conseguenze che ne derivano sono connesse al fatto che il mancato raggiungimento di uno o più obiettivi potrà essere posto a sostegno di uno «scarso rendimento» e potrà – in via ipotetica – condurre alla risoluzione contrattuale. D’altro canto, il lavoro agile è pacificamente un rapporto di lavoro subordinato, situato a pieno titolo dentro il perimetro della locatio operarum. Quindi per qualificare la risoluzione per scarso rendimento occorrerebbe comunque accertare la sussistenza di un comportamento negligentemente inadempiente, in violazione degli obblighi contrattuali. La pervasività delle tecnologie, inoltre, espone il lavoratore a nuove forme di controllo da parte del datore di lavoro, che richiedono l’individuazione di adeguate modalità di bilanciamento tra la tutela dei legittimi interessi di quest’ultimo al corretto adempimento della prestazione lavorativa e alla difesa del patrimonio aziendale, e la tutela della libertà, della dignità e della riservatezza del lavoratore. Per disciplinare l’esercizio del potere di controllo datoriale sulle prestazioni esterne del lavoratore agile, l’art. 21, l. n. 81/2017 dispone un duplice rinvio, all’accordo individuale e all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori. I rischi – in tema di diritto alla privacy e di controlli in materia giuslavoristica connessi all’uso delle nuove tecnologie – non possono che aumentare e caratterizzarsi di nuovi e specifici connotati, se riferiti al contesto dello smart working. Per tale ragione, il datore di lavoro titolare del trattamento deve correttamente in- quadrare le problematiche in materia di privacy poste da questa nuova modalità di esecuzione del rapporto subordinato: le eventuali attività di controllo del lavoratore sono da realizzarsi nel rispetto dei principi di necessità e proporzionalità e nel rispetto dei limiti posti da libertà, dignità e diritto alla privacy del lavoratore, dunque non devono concretizzarsi in controlli continui e indiscriminati dell’attività del lavoratore. Il datore di lavoro, infatti, deve essere in grado di dimostrare che l’utilizzo delle tecnologie informatiche non rientri in un programma volto esclusivamente al controllo dell’attività del lavoratore e, nel rispetto del principio di «accoun-tability», deve garantire l’osservanza dei principi di «privacy by design» e «privacy by default».
Nell’art. 18 della l. n. 81/2017 è contenuta la definizione di Lavoro Agile, la quale contiene il passaggio più controverso dell’intero impianto normativo:
1. Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva. Il legislatore se da una parte ribadisce formalmente che la prestazione lavorativa da remoto deve rispettare la durata massima dell’orario di la-voro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, dall’altra prevede una deroga davvero pericolosa. Tali limiti temporali, infatti, possono essere trascurati se si adottano forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. In questo passaggio si racchiude l’intero sbilanciamento della ratio sottesa al provvedimento normativo. La simbolica conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro in favore del prestatore rischia di tramutarsi in una misura effettivamente finalizzata alla più brutale estrapolazione di competitività, per il tramite dell’estrazione dei massimi livelli di produttività possibile. Da un «work life balance» a un «work life blended», dove i confini tra produzione e riproduzione svaniscono dentro una continua sussunzione dell’intera vita da parte del processo produttivo, cosa che se fino a oggi era tale nella sostanza ora si formalizza in termini contrattuali divenendo «esigibile» coattivamente, pena l’esercizio del potere disciplinare e quindi con il rischio, sullo sfondo, di poter essere licenziati. Vi sono due aspetti che al riguardo vanno presi in considerazione. Da una parte la Direttiva 2003/88 stabilisce che il datore di lavoro, in nessun caso, può sottrarsi all’obbligo di misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero, ai fini dell’applicazione dei limiti di fonte europea in materia di salute e sicurezza. Dall’altra sarebbe auspicabile una commissione paritetica espressamente demandata a valutare la proporzionalità e la gravosità dei carichi di lavoro, nel caso di organizzazione per obiettivi. Deve essere sempre possibile valutare e mettere in discussione il ritmo, l’entità e la gravosità dell’assegnazione datoriale del carico lavoro da svolgere, facendolo uscire dall’alveo della mera disponibilità materiale. Ciò proprio a tutela della salute e della sicurezza del prestatore, ma anche al fine di scongiurare condotte vessatorie finalizzate a discriminare e a esaurire le energie dei lavoratori scomodi (magari perché sindacalizzati) inducendone coattivamente le dimissioni (pratica tutt’altro che marginale nel nostro panorama imprenditoriale). E infine il tema del diritto alla disconnessione. Mentre questa misura posta a tutela della salute del lavoratore può avere un senso e una sua concreta applicazione nei casi in cui il lavoro agile mantenga le perimetrazioni orarie osservate sul luogo di lavoro, nel caso di organizza-zione per obiettivi o fasi di lavorazione diventa difficile solo immaginare come assicurarne l’operatività. Difatti il tema che si pone innanzi al rischio di carichi di lavoro esorbitanti non si tra-duce in una continua intromissione del datore di lavoro nella sfera privata dei lavoratori, né in un assillo di richieste di attivazione. Nel lavoro per obiettivi questa intromissione parcellizzata sfuma piuttosto nella responsabilizzazione che viene addossata ipertroficamente sulle spalle del lavoratore. Il rischio, dunque, è che lo stesso prestatore, per rincorrere forsennatamente i tempi di realizzazione degli obiettivi prefissati, scelga egli stesso di non disconnettersi in una spirale di crescente autosfruttamento. Dunque, il diritto alla disconnessione è uno strumento idoneo a tutelare il prestatore dalla pressione esogena, ma non da quella indotta ed endogena. Anche per questo motivo è essenziale statuire un presidio aziendale misto, volto a sovraordinare l’assegnazione dei carichi di lavoro per verificarne la compatibilità con la tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore. Insomma lo Smart Working presenta numerosi vantaggi per il lavoratore e per la società. La riduzione dei tempi (la percorrenza gravata dal traffico è diventata nelle grandi città una variabile davvero onerosa) e dei costi per recarsi sul posto di lavoro (benzina, parcheggi, pranzi), il miglioramento del work life balance, l’aumento della motivazione e della soddisfazione e la riduzione dello stress, perché finalmente si riesce ad uscire dalla dimensione carceraria dell’ufficio. Ci si libera dunque dalla costrittività di ritmi produttivi rigidi ed eteroimposti. Oggi frequentemente i luoghi di lavoro sono attraversati da dinamiche di potere, sopraffazione, aggressività e competizione spinta. La persona viene oggettivata a mero dispositivo produttivo e le relazioni umane sono sempre più patogene. A ciò si aggiunga che il lavoro da remoto comporta un impatto positivo per l’ambiente con la riduzione delle emissioni di CO2, la riduzione del traffico e un migliore utilizzo del trasporto pubblico. Ciò nondimeno lo Smart Working presenta numerosi rischi e problematicità latenti o manifesti, che allo stato sono del tutto irrisolti e che non è possibile affrontare demandando lo scioglimento di questi nodi all’autonomia privata insita nell’accordo individuale sotteso al rap-porto di lavoro da remoto. Il lavoro eseguito con uso delle nuove tecnologie, in luoghi fisici variabili o comunque lontani dal centro operativo materiale e umano dell’azienda, nonché secondo regimi temporali individualizzati e non uniformi, produce molti rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori. I rischi derivano da un ambiente lavorativo alleggerito dalla fisicità delle dinamiche oppressive, ma permeato dall’insorgenza di intrusioni psichiche ed emotive. Già solo il fatto di lavorare fuori dal luogo di lavoro è foriero di rischi: possibile isolamento fisico del prestatore, difficile autogestione dei ritmi, pause, riposi e malattie. L’ambiente digitale è un luogo virtuale senza spazio né tempo, illimitatamente accessibile, potenzialmente aperto ad un numero indefinito di persone, nonché ad una mole enorme di dati, cui possono associarsi rischi vari e plurimi: iper-connessione, alterazione dei ritmi fisiologici circadiani, sovraccarico informativo e gestionale, aggressività comunicativa ed evidenti ricadute negative sull’integrità, la riservatezza, la libertà e la dignità dei lavoratori. Ed infine il lavoro rischia di confondersi con gli spazi pubblici e privati del prestatore, con i problemi di gestione dei confini. Sullo sfondo, poi, tutti questi aspetti sono inclusi in un movimento generale, secondo cui si assiste alla tendenza a trasferire le relative responsabilità proprie del datore di lavoro sul lavoratore. È dunque compito del legislatore, del sindacato e delle organizzazioni sociali imporre una definizione delle misure idonee a tutelare il lavoratore da remoto da questi rischi e in ogni caso addossarli al soggetto forte del paradigma sinallagmatico, il datore di lavoro. Certo la legge del 2017 non aiuta, posto che non dice nulla al riguardo e demanda ogni forma di regolamentazione all’autonomia negoziale delle parti e alla fragilità del lavoratore, ma almeno tiene su un nodo fondamentale «il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore». Peccato che poi quest’assunzione non si traduca in dispositivi attuativi e cogenti, volti a dare concretezza ad una statuizione di principio. Invece il legislatore avrebbe dovuto delineare un pacchetto di misure finalizzate a tutelare l’integrità psicofisica del prestatore che subisce il rischio di lesioni, anche gravissime, derivanti dalla commistione tra tempi di vita e di lavoro, nonché dalla commistione tra bios e macchina anche nella sua dimensione de-privata da relazioni interpersonali fisiche. I fattori di rischio sono rinvenibili nel rapporto tra il prestatore di lavoro con gli strumenti e le attrezzature, con il luogo fisico di lavoro, con la conciliazione tra il tempo di vita e quello produttivo, con la spersonalizzazione dello spazio virtuale di lavoro. Tra tutti i rischi a cui è esposto il lavoratore agile vi è innanzi tutto quello derivante da stress lavo-ro-correlato. Al riguardo occorrerebbe normare tutte le variabili che possono attivarsi, trasmutando l’esperienza lavorativa in un gorgo che cannibalizza il tempo di vita fuori dal tempo lavorativo perimetrato formalmente: l’orario, il carico di lavoro, i ritmi produttivi, l’interfaccia famiglia/lavoro (tenendo conto delle differenze di genere), la gestione dei rapporti sociali con colleghi e superiori. Gli strumenti di lavoro devono essere forniti dal datore an-che se l’art. 18 della ln 81/2017 non esclude che il lavoratore possa concorrere integralmente o parzialmente a metterli a disposizione. Quello che sicuramente non può essere messo in discussione è che in ogni caso sul datore di lavo-ro grava la responsabilità di predisporre tutte le misure di prevenzione connesse all’impiego degli stessi e a fornire al lavoratore adeguata formazione. Per quanto attiene il luogo fisico ove svolgere la prestazione di lavoro, il problema attiene al rispetto dei requisiti di sicurezza anche quando il luogo non è progettato per un utilizzo lavorativo. Molti contratti collettivi hanno inteso risolvere questo nodo elencando tassativamente i luoghi presso i quali lo smart worker può svolgere la propria attività. Ma tale restrizione appare in contrasto con la ratio della norma, poiché sacrifica in termini non irrilevanti la flessibilità della prestazione a favore del lavoratore e la conciliazione con la sua vita. La scelta del luogo (o dei luoghi) di adempimento della obbligazione di lavoro deve essere lasciata alla unilaterale, estemporanea e imprevedibile iniziativa del prestatore. Ciò addebitando in ogni caso al datore di lavoro la posizione di garante primario della sicurezza. L’accordo tra tali circostanze, apparentemente in contrasto, risiede nella formazione del lavoratore e nella opportuna dotazione tecnologica per lo svolgimento della prestazione. Per quanto attiene l’armonizzazione tra i tempi di vita e di lavoro, occorre imporre una esatta individuazione del quantum della prestazione, in una logica di «carico di lavoro» e delle misure di verificazione demandate ad un organismo paritetico con poteri straordinari di intervento, al fine di impedire il burn out da sovraccarico. Oltre a ciò vi è la necessità di un sistema obiettivo, affidabile e accessibile di misurazione della durata della prestazione in un’ottica promozionale della salute stessa dei prestatori. Da questo punto di vista, la «remotizzazione» dell’attività lavorativa richiede, dunque, grande attenzione, potendo trasformarsi in una vera e propria trappola, specie per le lavoratrici agili, che non a caso hanno lamentato un forte senso di fatica, soprattutto mentale, nella gestione
multi-tasking delle tante incombenze (anche di cura) loro affidate durante l’emergenza pande-mica. Da ultimo, al fine di preservare il rischio di un isolamento che può essere mortificante soprattutto se subito, è necessario dare piena attuazione all’applicazione di un’alternanza tra il lavoro in presenza e da remoto, su istanza del prestatore. D’altronde è condizione necessaria continuare a sentirsi parte della comunità lavorativa, anche al fine di poter agire l’organizzazione e il conflitto volti a tutelare eventuali violazioni normative o economiche in danno al lavoratore da remoto. Il concetto di subordinazione Detto ciò, preme evidenziare come tutta la normativa sul lavoro agile ha avuto poi un effetto indiretto davvero innovativo sulla ridefinizione dei confini del concetto di subordinazione. Come abbiamo avuto modo di vedere, il lavo-ro subordinato nella sua declinazione agile ex l. n. 81/2017 affonda definitivamente tre indici primari, individuati dalla giurisprudenza come qualificatori della subordinazione: viene meno l’assolutezza del potere direttivo (che diviene oggetto di contrattazione tra le parti con l’accordo individuale), viene meno la continuità e la presenza sul luogo di lavoro, viene meno la soggezione ad un orario di lavoro e scompare la previsione secondo cui i mezzi di produzione (gli strumenti tecnologici del lavoratore da remoto) debbano necessariamente essere di proprietà del datore di lavoro. Tale contesto va letto in combinato disposto con l’art. 2 d.lgs. 81/2015 che, disciplinando le nuove collaborazioni, ha inteso ricondurre nell’alveo del rapporto di lavoro subordinato i rapporti di lavoro che si concretano in prestazioni... le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
Di fatto il concetto di subordinazione giunge a incarnare elementi modali che l’avvicinano al lavoro autonomo. A ciò occorre aggiungere che a seguito delle modifiche intervenute nel 2019, l’area delle collaborazioni ex art. 2 dlgs 81/2015 si è ampliata, non essendo più richiesta la prestazione di lavoro «esclusivamente» personale, richiamando ora la norma la sola «prevalenza» di lavoro individuale, e soprattutto non facendosi più menzione del tempo e del luogo di lavoro. Da ultimo giova richiamare la sentenza della Suprema Corte n. 1663/2020, che ha definitivamente riconosciuto la natura subordinata delle prestazioni di lavoro svolte dai riders di Foodora, che pur scegliendo quando e quanto lavorare, erano comunque inseriti all’interno di una organizzazione del lavoro che non presidiavano. È evidente che il concetto di subordinazione sta uscendo definitivamente dagli asfittici perimetri premoderni della fabbrica fordista e – a fronte del gradiente di autonomizzazione determinato dalle nuove tecnologie che vengo-no impiegate nei processi produttivi - prende giustamente in considerazione esclusivamente il dato socioeconomico in rapida evoluzione, e le possibili zone di maggiore fragilità date dalla dipendenza economica. Questo orizzonte è tutt’altro che utopistico, posto che la Suprema Corte di Cassazione, anticipando il definitivo superamento dell’eterodirezione come elemento qualificante, con sentenza n. 21646 del 9 ottobre del 2006 (la sottoposizione del lavoratore a «capillari direttive ed assidui controlli» del datore di lavoro), è giunta a valorizzare, in sede di qualificazione del rapporto di lavoro, la dipendenza socioeconomica, ossia quella «doppia alienità» dei mezzi di produzione e del risultato utile della prestazione, entrambi appartenenti al datore di lavoro, che – secondo il noto insegnamento della Corte Costituzionale (sent. N. 30/96) – contraddistingue la condizione del lavoratore subordinato. Dunque all’esito della presente disamina, la subordinazione, nella contemporaneità, è rinvenibile in tutti quei casi in cui (indipendentemente dal luogo, dai tempi e dalla sottoposizione al potere gerarchico o disciplinare) il risultato della prestazione non rientra automaticamente nel-la sfera patrimoniale del lavoratore, ma viene sussunto da un altro soggetto. Così largamente intesa la definizione di subordinazione si attesta su di un principio di realtà, in base al quale vengono finalmente recepiti i cambiamenti in atto: l’impatto dei sistemi digitali sul mercato e sul diritto del lavoro sono rilevantissimi, vanno recepiti e regolati anche perché tutt’ora godono di un potenziale ancora inespresso, che va costantemente seguito.
Comments