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Lavori malpagati, lavori strapagati



Giusi Drago, nata a Trento, vive a Milano. Ha pubblicato Partiture della memoria in 7 poeti del premio Montale (Scheiwiller, 1995), La pazienza della mano (Nicolodi, 2005), la plaquette Delta Dunării per i tipi de Il ragazzo innocuo (2011), Tempo negoziato (La Camera verde, 2014) e Correggere le diottrie (Oèdipus, 2019, Premio Bologna in Lettere 2020). Nel 2011 ha ricevuto il Premio italo-tedesco per la traduzione letteraria (Nachwuchspreis) con È morto Tito di Marica Bodrožić (Zandonai, 2010). Ha tradotto, fra gli altri, Carl Gustav Jung, Gustav Meyrink, Rainer Maria Rilke e Robert Walser. Dal 2001 al 2005 ha diretto la rivista «Dialogica. Semestrale di ricerca e culture letterarie». È tra i redattori del blog «Perìgeion – un atto di poesia».


Immagine: Chiara Susanna Crespi


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Lavori malpagati

Tra i tanti lavori malpagati sarei tentata di chiamare in causa il tradurre, ma non di questo si parla qui e ora. Vorrei piuttosto considerare il lavoro del distinguere, la fatica del differenziare: per esempio, fra un collo di cigno e un bavero rialzato, fra un rimetterci la salute e un semplice starnuto. Oppure fra una dentatura sana – sfoderandola è facile ridere di gusto o sorridere soddisfatti – e una corrosa da carie, quando i denti, pur essendo d’avorio, diventano così neri e marci che il dentista mette mano al trapano.

Ci si eserciti a riconoscere almeno due tipi di violenza esercitata sui prati: quella a causa della quale il manto erboso è schiacciato da pneumatici o, invece, dal peso di due, gettati a terra, che si abbracciano prima che venga a piovere.

Ci sono comunque molte altre forme di vessazione e i corrispettivi vessatori, che andrebbero classificati con precisione. Perciò distinguere è mettersi a gridare di spavento: vedere all’improvviso qualcosa di non percepibile a occhio nudo. La differenza – di solito nascosta da escrescenze o da tovaglie, marcata da fiumi o terrapieni, ingentilita da siepi – ora risalta nitida, può essere fotografata da cellulari o ripresa da webcam, e non ci si può illudere di non averla presente.

Distinguere è forse deridere le vicinanze, le somiglianze? No di certo. Non si deride nessuno, qui. Neanche le ombre. Nemmeno le assimilazioni. Si rinuncia però a invischiarsi troppo in un caos di prossimità, insabbiati in rituali di indistinzione.

Si sceglie di essere parziali e gratuiti. Separati. Di essere antipatici. Non basta più dire: come tutti, anche noi abbiamo le nostre idee di cui non possiamo fare a meno.

Bisogna proprio spiegarvi come fare a meno delle idee di cui non si può fare a meno? Si tratta di uno sforzo notevole che non garantirà un salario: un lavoro malpagato, appunto. L’abiura del segno di distinzione che più ci appartiene significa che, d’ora in poi, ci esimeremo non dal distinguere ma dal conformarci a ciò che abbiamo creduto e fatto. È una cosa che mette i brividi. Ci fa sentire incerti.

Se lo scriviamo in lingue diverse, ciascuna ferirà una diversa parte del corpo? Il discrimine è passione ma a freddo. Alacrità del separare – ci immunizza da tentazioni di acquietamento. E del resto siamo ormai disillusi circa le possibilità di trovare un lavoro più remunerativo.

Per un’inversione della storia aggiungo sul finale che non si è sempre certi dell’efficacia disgregante del taglio – zac zac zacchete. Il taglio può rivelarsi meno tagliente del giudizio che inesorabile distingue fra pezzo tagliato e parte tagliente.

Un’istantanea convergenza può sempre nascere imprevista da vite che hanno paura di essere fatte a pezzi. Così molti fanno un secondo lavoro, malpagato come il primo, che altri perdono. Lavori strapagati

Le cose si deformano con l’uso (usura prima) e certi sogni rovesciano il tempo della veglia, lo fanno correre all’indietro. Anche il latte si rovescia fuori dalla tazza, e io rovescio la fodera della borsa che si è riempita di briciole. Sarebbe possibile – in un film di Chaplin – rovesciare le tasche della giacca per mostrare che sono bucate e vuote. Ma non accadrà, non è necessario, perché le nostre disgrazie le portiamo dentro di noi e non c’è niente da mostrare e riversare all’esterno. Del resto oggi – finché dura – per saldare i conti basterà raccogliere le forze e recarsi al bancomat [comp. di banco (nel sign. di «banca») e (auto)mat(ico)] oppure ricaricare tramite bancoposta la carta prepagata dei figli.

Si tratta dunque di elencare i diversi rovesciamenti in ordine decrescente di gravità: il più grave è quello temporale, quando la fine si riverbera sull’inizio e lo costringe a cominciare (per questo certi sogni – come certi film – fanno correre all’indietro il tempo della veglia, per questo alla fine dell’anno scolastico gli studenti rovesciano il banco e corrono via).

In effetti sono di estremo interesse gli argomenti dei teologi medioevali riguardo al prestito di denaro e al ruolo del tempo. Tuttavia i teologi non sono stati ascoltati, e nessun solenne divieto, nessuna superiore intransigenza ha impedito l’intermediazione degli istituti bancari nelle transazioni economiche. Ne sono derivate molte conseguenze.

A tratti è sembrato che i motori dell’economia monetaria stessero per bloccarsi e che l’avaria fosse ormai irreversibile, ma poi il guasto è stato riparato e ci hanno riferito che di difettoso non c’era proprio niente.

Questo è un punto di svolta! Nei rovesciamenti dev’esserci un punto di svolta… O è chiedere troppo? Conoscete migliori vie di fuga? Chi presta denaro a interesse (usura seconda) è un ladro di tempo: il tempo – qui conviene riflettere bene – è una risorsa che non ci appartiene.

Già, i maestri di diritto canonico credono che il vero signore del tempo sia Dio. Di conseguenza, chi gioca con il tempo, chi concede prestiti per arricchirsi, commette un furto ai danni di Dio. Il mercante o il banchiere non cede nulla che sia suo e nulla produce con il suo lavoro, di fatto non c’è nessun lavoro, solo attesa che il prestito venga restituito. Insomma, chi presta una somma di danaro dovrebbe ottenere in cambio la medesima quantità di monete che ha elargito – niente di più.

E invece si ostina a pretendere che gli venga dato, in ragione del tempo durante il quale il denaro è stato trattenuto in mani altrui, un compenso, e per giunta lo definisce interesse, perché tanto gli interessa, e lo giustifica in quanto si è privato di qualcosa che a ben vedere è solo tempo in cui l’amata somma gli è stata lontana!

Mi sembra di poter concludere che il traffico di denaro è solo andirivieni di nostalgia, amor che non sopporta la distanza. Ma forse mi sbaglio.

Eppure si intravede qualcosa di più: se l’usura prima rispetta l’ordine del tempo e del lavoro (gli oggetti si deformano con l’uso), l’usura seconda, che produce profitto in ogni momento della linea temporale che va dal prestito alla restituzione, è uno sfregio alla scansione cronologica del lavoro, la quale prevede, per esempio, il riposo domenicale nel settimo giorno della creazione. È anche un’inversione e un rovesciamento del computo del tempo.

Scegliete voi: è lecito pensare che il mercante banchiere sia fondamentalmente, senza nemmeno accorgersene, un nostalgico dell’interezza originaria costituita dall’unione indissolubile fra sé e somme sempre crescenti di denaro, che non debbono allontanarsi da lui se non per tornare moltiplicate? Comunque sia, il nostro nostalgico amante è ricco, quindi il suo amore per il denaro è corrisposto.

In conclusione non posso dimenticare il Purgatorio, montuoso compromesso che la teologia occidentale stipula, nel corso del Basso Medioevo, con se stessa per riabilitare certe forme di mutuo. Grazie al Purgatorio l’usuraio può riempirsi sia la bocca che la borsa, continuando a sperare nella vita eterna. C’è di che pentirsi? Siamo ormai così spietati da non comprendere quante notti insonni ha trascorso il creditore dinanzi al pericolo di perdere il suo capitale, per insolvenza o malafede del debitore, o quanto ha dovuto penare per ottenere il rimborso?

Nel Purgatorio Dante, appena uscito dall’aria morta del regno capovolto e sotterraneo, può ammirare quattro stelle mai viste da nessuno se non da Adamo ed Eva nel paradiso terreste. Sono l’emanazione luminosa delle quattro virtù cardinali. Le chiama luci sante. Noi non le chiameremmo così. Anche di virtù non parleremmo e nemmeno di usura rispetto al prestito ad interesse. Ci siamo abituati a essere indebitati. Nel mio piccolo anch’io ho un conto in banca, anzi al bancoposta. Mi dicono che dovrei cambiarlo.

Ci sarebbe infine da considerare il rovesciamento dialettico hegeliano nella figura del servo-padrone, in cui la svolta quando arriva si presenta a braccetto con il lavoro. Però richiede un affaccendarsi di mediazioni così complesse che è meglio lasciar perdere. O forse no.

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