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La tragedia degli esperti

Riflettendo su un libro di Davide Caselli. Dialogo con l’autore




Ci sono libri che hanno il pregio di esporre il risultato di una ricerca pluriennale (come dovrebbe accadere alla ricerca sottratta agli imperativi dei ranking che misurano pubblicazioni e citazioni) uscendo al momento «giusto». Esperti (come studiarli e perché) di Davide Caselli, edito nel 2020 da Il Mulino, è tra questi.

Il libro muove da una esplorazione di oltre dieci anni sulla dimensione pubblica e politica della conoscenza, o più esplicitamente sulle relazioni tra sapere e potere, realizzata nel macrocontesto della crisi del welfare e condotta nella città di Milano. Il testo, in particolare, mette a fuoco il ruolo delle figure che intitolano il libro, gli esperti, nel dare forma alle nuove politiche sociali della città, sia in qualità di consulenti dei decisori pubblici e privati, sia come rete (expertise) in grado di affermare «idee veicolari» (o «knowledge brands») divenute egemoni nel campo delle policy. In un arco di tempo relativamente breve, infatti, sono cambiati lessico, pratiche, strumenti, modelli di intervento e di valutazione delle iniziative sociali; in questo rivolgimento una leva di soggetti (individui, gruppi d’interesse, organizzazioni, reti), in parte nuovi in parte riciclati, ha assunto progressivamente un ruolo guida diffondendo maniere di formulare i problemi e prescrivere le soluzioni in discontinuità con i «vecchi» assetti. Sono questi, in prima battuta, gli esperti osservati da Davide Caselli.

Muovendo dal lavoro sul campo, l’autore ha sviluppato riflessioni più generali sul ruolo degli esperti e della expertise nella società contemporanea, che toccano molti punti d’interesse per questa rubrica, «transuenze». Il libro procede infatti su due piani espositivi: quello empirico, che incrocia i programmi di «coesione sociale» che tanta parte hanno avuto nel riformare, nel senso privatistico e del mercato, le politiche sociali delle città; quello della sistematizzazione concettuale che attinge (con excursus sulla letteratura di grande interesse e varietà) a molteplici filoni, dalla sociologia critica ai modelli dell’attore-rete, dalla prospettiva foucaultiana sui dispositivi di sapere-potere a quella gramsciana sull’egemonia.

Non spetta a noi formulare giudizi sul valore di questo contributo nel suo campo disciplinare, se non per dire che fornisce anche al lettore non specialistico un repertorio di argomenti e una mappa di connessioni teoriche decisamente ricchi. Non è tuttavia per questo che lo abbiamo scelto. Delle tante buone ragioni per riflettere sul lavoro di Davide, l’intervista che segue ne affronta solamente una parte. A parere nostro ve ne sono alcune altre che ci sembra utile suggerire come possibili tracce da sviluppare.

Si diceva, libri che escono al momento giusto. L’anno primo della crisi pandemica è stato anche quello dei super-tecnici al comando e dei medici prestati alla televisione. Il colpo di mano che ha «finalmente» portato alla nascita dell’esecutivo di Mario Draghi e degli ottimati che ne presidiano i posti chiave, è l’ideale compimento di un percorso di affermazione o ripristino, chiusa la stagione dei populismi, del potere esercitato direttamente (senza controfigure) dalle tecnostrutture centrali del capitalismo contemporaneo (finanza, alta burocrazia pubblico-privata, detentori delle «reti» strategiche della tecnoscienza e delle infrastrutture). Forzando qui il significato del termine per com’è formulato nel libro, è l’anno degli esperti al comando.

Coincidenza casuale, ma forse non del tutto. Davide Caselli, ricercatore non strutturato diviso tra Università di Milano e Torino, già autore di articoli sulla finanziarizzazione del welfare e sul laboratorio milanese per riviste scientifiche e blog quali Effimera, Sbilanciamoci e altri, il suo progetto di ricerca lo ha messo a fuoco nel corpo a corpo con le trasformazioni del lavoro sociale. Milano forse è giunta dopo altre città all’appuntamento con il «secondo welfare», ma nel passato decennio ne è divenuta il laboratorio avanzato, quello in cui le logiche mutuate dal mondo finanziario, il ruolo dei domicili privati che esercitano funzioni pubbliche, la spinta dei «knowledge brands» che informano la distribuzione delle risorse, si sono espressi al massimo grado con effetti «egemonici», per il ruolo simbolico e materiale della città, sul resto del paese. Qui, forse, il ruolo politico dell’expertise si è manifestato con maggiore forza.

Davide Caselli pone rigorosamente in chiaro le specificità del ruolo, della funzione e della sostanza del lavoro dell’esperto, nel confronto con altre figure del lavoro intellettuale (scienziato, intellettuale, professionista). A noi interessa però il rovescio della sua riflessione: l’esperto, nella sua funzione operativa e strategico-politica, costituisce il prototipo del lavoratore intellettuale dei nostri giorni, ben oltre i confini stabiliti dall’esistenza di una relazione di committenza con i decisori che si avvalgono della sua performance. In virtù del suo ruolo baricentrico nei processi di ristrutturazione del settore pubblico e privato, si potrebbe affermare che l’esperto stia infatti assorbendo le figure dello scienziato, dell’intellettuale, del professionista.

In secondo luogo, il libro ha catturato la nostra attenzione poiché siamo convinti che la riflessione proposta chiami in causa altri processi di trasformazione sociale, politica, economica. Ciò a cui stiamo assistendo nella crisi Covid (eccediamo qui gli argomenti trattati dall’autore e probabilmente anche il suo punto di vista) è anche un processo di avvicendamento egemonico tra gruppi dominanti. I ceti emergenti, che la categoria di esperti potrebbe concorrere a mettere a fuoco, hanno valori diversi dalla declinante «borghesia imprenditoriale diffusa» che formava la base allargata del «partito del Pil» e l’ossatura sociale – ad esempio - del berlusconismo-leghismo, sì orientata alla ricchezza e all’individualismo, ma ancora pervasa dal riconoscimento nella società locale. I nuovi tecno-burocrati, i loro consulenti scientifici, i nuovi grandi (e piccoli) commis, i manager sociali, i super-tecnici che si muovono al confine tra politica, accademia, impresa hanno altri valori, sono antropologicamente diversi: mito meritocratico, ostentazione della competenza, adesione incondizionata ai modelli su cui si sono formati, enfasi sulla valutazione, riconoscimento nel campo in cui sono ingaggiati, legami aleatori con i territori visti esclusivamente come contesti. Questi ci sembrano alcuni tratti «distintivi» dei gruppi di potere emergenti che configurano e «producono» la realtà secondo il proprio specifico «regime di verità». Ci rendiamo conto di portare gli esperti oltre i confini in cui si muove, politicamente e con rigore metodologico, Davide. Riteniamo tuttavia che questa sia una traccia da sviluppare, anche appropriandosi delle sue analisi.

Di più, saremmo meno interessati agli esperti se non vedessimo, al di sotto e spesso al servizio delle figure più affermate dell’expertise emergente, una base diffusa, chiamiamoli così, di esperti-massa. I lavori di progettazione e intervento sociale, il supporto a policy e altre iniziative di rilevanza collettiva, l’emergere di nuove esigenze all’interno delle imprese, assorbono una quota rilevante di nuovi aspiranti esperti, spesso con redditi incerti e precari. Ciò che più conta, però, è che quasi sempre hanno una visione dei problemi sociali, mentalità, credenze, del tutto simili al mondo degli «esperti» tratteggiato nel libro. O no?

Infine, ma è ciò che più conta, Davide Caselli non ricostruisce il funzionamento dell’expertise e l’operato degli esperti come se fossero processi lineari, senza attriti né contraccolpi. Come esplicita nell’intervista, la prospettiva politica, inscindibile dal suo lavoro teorico, è fare della expertise un campo contendibile. Il suo approccio è esplicitamente ispirato dalle grandi esperienze di contro-expertise basate su coalizioni tra «non esperti» e «diversamente esperti» del recente passato: gli esempi di Giulio Maccararo nella democratizzazione della medicina, l’impegno del gruppo di Ivar Oddone per la salute operaia e per un lavoro ricomposto, più ricco e autonomo, o dell’antipsichiatria di Basaglia, sono precisi riferimenti. È utile integrare questa galleria richiamando un’altra fondamentale esperienza di contro-expertise maturata al confine dello stesso ambito disciplinare di Davide, realizzata da giovani ricercatori e sociologi militanti con gruppi di operai e tecnici, che dentro e soprattutto intorno alla rivista Quaderni Rossi all’inizio degli anni Sessanta gettarono le basi, attraverso pratiche che ancora chiamiamo di conricerca, per un rinnovamento radicale della prospettiva anticapitalistica.



Chi sono gli esperti, cosa è l’expertise e perché è importante occuparsene? Perché le categorie di «intellettuale», «scienziato» e «professionista» non sono più sufficienti a mettere a fuoco il rapporto tra conoscenza e potere? In cosa consiste il «lavoro» degli esperti?


Tre caratteristiche definiscono gli esperti. Innanzitutto il loro lavoro si basa sul sapere ma anche molto sul saper fare e sul saper essere, sulla traduzione operativa e anche relazionale della conoscenza. Inoltre gli esperti si trovano a metà strada tra gli scienziati e i cittadini comuni: come i primi si basano su forme scientificamente fondate di conoscenza, ma come i secondi devono rispondere alle pressioni e alle domande (poste dai loro committenti) della vita sociale, domande che hanno poco di scientifico e molto di politico e storico. Infine gli esperti sono strutturalmente implicati in rapporti asimmetrici, definiti dal loro possesso di conoscenze e abilità che i loro interlocutori non hanno. Questa asimmetria può essere gestita in modo monopolistico, secondo il modello classico del professionista (medico e avvocato per esempio), che si comporta come conoscesse problema e soluzione del proprio «cliente» e che dunque rifiuta e sminuisce le conoscenze, le esigenze e le idee che questi hanno in proposito, affermando così la propria autorità. Si tratta di quello che Ivan Illich ha definito e criticato come «professionalismo disabilitante». A questo modello si sono però via via contrapposte forme di contestazione e reinvenzione del sapere a partire dalle esperienze delle persone e dei gruppi direttamente interessate: negli anni ’60 le esperienze delle «comunità scientifiche allargate» composte da operai, delegati sindacali e medici, che hanno rivoluzionato il sapere e le pratiche della tutela della salute in fabbrica; ma anche la rivoluzione basagliana in salute mentale, o i conflitti ambientali (pensiamo alla Tav) in cui i movimenti hanno combattuto l’expertise dominante con forme di contro-expertise che hanno costretto i sostenitori dei progetti ad abbandonare almeno in parte il registro scientifico («la scienza dice che il tunnel va fatto, sarà utile, non danneggerà la salute, ecc.») e tornare al più crudo registro politico («il tunnel va fatto perché abbiamo preso impegni, perché creerà lavoro o anche solamente perché è una forma di progresso che non si può rifiutare»).

Ma l’asimmetria può essere giocata in modo generoso, istituendo delle relazioni di «co-produzione» con i «non esperti»: un esempio classico quello di scienziati e famiglie di persone affette da distrofia muscolare, che collaborano per risolvere dei problemi invisibili agli scienziati ma centrali nella vita di quelle famiglie.

È importante sottolineare come gli esperti, rispetto agli scienziati «puri» (che sono più una fantasia che un dato di realtà), sono fortemente condizionati dalla committenza, che detta loro le domande a cui rispondere e i modi e i tempi delle risposte. Sono cioè molto più dipendenti da attori e interessi esterni al loro campo di studio, anche se con questo non voglio certo dire che i laboratori o le biblioteche degli scienziati siano luoghi «neutrali».

Ma l’esperto non si sta forse «mangiando» (nel senso che assorbe, incorpora) le altre figure del lavoro intellettuale? Nel mondo «reale» sovente sono le stesse persone che operano con ruoli diversi, sfruttando le sliding doors tra accademia, mercato della consulenza, policy making. Come fai, per esempio, a dire che Cingolani è un esperto e non uno scienziato? O nel campo dei beni culturali a distinguere tra manager della cultura, studiosi, funzionari ministeriali, CEO di imprese private profit e no profit, quando sono gli stessi (pochi) che fanno tutto?


Faccio un piccolo riferimento storico. Nel 1975, al culmine dei movimenti sociali e politici che avevano rovesciato gli equilibri tra capitale e lavoro a favore del secondo, la Commissione Trilaterale, che riunisce uomini d’affari, politici, accademici, elabora un rapporto intitolato «La crisi della democrazia» nel quale si sostiene che la democrazia è in crisi per eccesso di partecipazione e di coscienza politica dei cittadini e che è necessario trovare contromisure. Tra queste, l’indebolimento dei parlamenti in favore degli esecutivi e, tra le altre indicazioni rilevanti, l’indebolimento della figura degli intellettuali critici (value-oriented intellectuals) in favore degli esperti orientati alla risoluzione di problemi precisi e limitati. Questo mostra come la diffusione di un modo di pensare in termini esclusivamente di problem-solving pragmatico contrapposto a letture della società più complesse e più critiche è una posta in gioco politica di prima rilevanza.

Nell’ultimo anno poi abbiamo avuto modo tutti di interrogarci sui confini tra i ruoli di esperto e altri ruoli intellettuali e del loro rapporto con la politica, prima per il ruolo del comitato tecnico-scientifico nella gestione della salute pubblica nel contesto della pandemia e nelle ultime settimane per le manovre che hanno portato alla formazione di un governo cosiddetto «tecnico-politico».

Se guardiamo alla nascita del governo Draghi, la questione del rapporto tecnica/politica e della confusione tra «esperti» e «scienziati» si pone innanzitutto sul piano delle sliding doors (la carriera di Cingolani che giustamente richiamate), uno dei meccanismi centrali dei processi di neoliberalizzazione: la carriera del Primo Ministro in questo senso è piuttosto indicativa (Banca Mondiale, Ministero del Tesoro, Goldman Sachs, Banca d’Italia, Banca Centrale Europea, Presidenza del Consiglio, aspettando la presidenza della Repubblica) del resto è di pochi mesi fa la notizia del passaggio dell’ex capo economista del PD renziano a un ruolo dirigenziale in Goldman Sachs e di Minniti, ex ministro dell’interno PD noto per le sue politiche securitarie, in Leonardo.


Esperti descrive la depoliticizzazione dei processi di governo. Mai come oggi sembra che nessuno si assuma la responsabilità di decidere apertamente, per scelta politica, a chi allocare i soldi pubblici, per quali obbiettivi e per risolvere quali problemi. Tutti si trincerano dietro la teorizzazione, l’intermediazione e la valutazione apparentemente «oggettiva» e «neutrale» di una classe sempre più nutrita di esperti. Come si è prodotta storicamente questa situazione, e che conseguenze ha?


Per capire i processi di depoliticizzazione è importante tenere conto non solo degli esperti e delle loro reti, ma anche dell’expertise. Bisogna tenere assieme le persone, le istituzioni e gli strumenti per cogliere i meccanismi di copertura delle poste in gioco politiche di un determinato processo attraverso la loro definizione o ridefinizione in termini esclusivamente tecnici. La presunta neutralità che richiamate si costruisce e si legittima certamente, almeno in alcuni casi attraverso la personalità dell’esperto (pensiamo alla presenza ossessiva di Cottarelli o della Fornero in trasmissioni come DiMartedì), la sua continua definizione in termini di neutralità che troviamo tutte i giorni sui quotidiani o nei dibattiti televisivi in cui l’esperto è generalmente un economista neoliberale a cui toccherebbe l’«ingrato compito» di dire la verità oggettiva al potere politico che rifiuta di vedere la realtà (che è poi generalmente l’insostenibilità del debito pubblico e la necessità di farsi «tutti assieme» carico dei sacrifici che questo comporta). Tuttavia – per stare all’esempio – è tutto quel che permette di definire la realtà attraverso la lente del debito pubblico che gioca un ruolo ancor più cruciale nella depoliticizzazione: i modelli economici dominanti e le loro griglie di definizione e lettura dell’economia e dei suoi rapporti con la società e la politica, il modo in cui la realtà è tradotta, ridotta e prefigurata in numeri, le teorie, le formule e i sistemi di calcolo attraverso cui la vita stessa viene tradotta in variabile economica.

Pensiamo in questo senso al potere della rappresentazione numerica della realtà, resa sempre più centrale dal potere riconosciuto ai sistemi di audit, standard, benchmarking che sorregge la pretesa oggettività delle «politiche basate sull’evidenza» o, più di recente delle politiche generate attraverso gli algoritmi e il machine learning. È interessante vedere come questi siano spesso presentati come una garanzia di oggettività e addirittura di giustizia rispetto agli abusi permessi dalla discrezionalità della politica: è una risposta alla crisi delle democrazie rappresentative attraverso un’ulteriore sottrazione di dibattito e di spazi democratici. La «quantificazione del mondo» è un fenomeno che dagli anni ’80 oramai è oggetto di studio della ricerca sociale critica, che ha in Foucault uno dei riferimenti teorici fondamentali.

Infine, con Gramsci, tanto esperti quanto gli strumenti vanno letti nel loro legame con gli attori e gli interessi economici e politici, come elementi della lotta per l’egemonia intesa come la capacità di fare accettare come interesse generale l’interesse di una parte.


Che cosa sta succedendo (o cosa è già successo) al welfare pubblico e in particolare al mondo dei servizi? In che modo l’ideologia neoliberista sta distruggendo la competenza e la possibilità stessa di agire di quell’esercito di lavoratori che si occupa di curare e assistere le persone, manutenere le case e gli spazi, insegnare?

Uno dei punti nevralgici dell’ambiguità ideologica sul welfare, a mio parere, è il «terzo settore», perché definisce un universo che comprende anche l’associazionismo di sinistra, dando l’illusione di implementare il governo «dal basso» dei servizi e di accogliere le istanze espresse dal movimento dei «beni comuni», mentre di fatto le riforme che lo regolamentano istituiscono un regime privatistico di «quasi-mercato» dei servizi sociali che consolida economie e interessi tutt’altro che democratici, e si è rivelato anche poco efficiente durante la pandemia COVID. Secondo te è possibile e auspicabile progettare un ritorno a un sistema pubblico, o come dice Marta Fana un’«internalizzazione» del welfare e del lavoro culturale, che produca un lavoro più tutelato e stabile?


Anche questo è molto importante: un attore chiave di queste battaglie in corso, soprattutto nel settore dei servizi, è stato ed è il terzo settore che – se vogliamo fare un discorso generale – ha legittimato e limitato le conseguenze dei processi di neoliberalizzazione: innanzitutto diventando il principale fornitore di lavoratori a basso costo per i servizi pubblici esternalizzati con appalti, convenzioni e accreditamenti. Le condizioni di lavoro precarie, frammentate in mille forme contrattuali, rese incerte dalla breve durata dei progetti e dalla competizione al ribasso sul prezzo dei servizi hanno contribuito a svuotare di senso la dimensione pubblica profonda del lavoro sociale, ovvero il suo connettere esperienza individuale e collettiva e costruire delle risposte rispetto a queste esperienze all’interno di un frame di diritti garantiti dallo Stato come attore terzo e impersonale, svincolato dalle trappole della carità. Il welfare in questo senso è anche uno spazio di costruzione di conoscenza e intelligenza collettiva e dunque anche uno spazio di conflitti attorno alla definizione dei problemi e delle risposte.

La frammentazione dei progetti, dei finanziatori, l’impiego di sistemi iperburocratici di rendicontazione o l’adozione di sistemi di misurazione dei risultati mutuati dall’impresa privata o addirittura dalla finanza non fanno che rafforzare queste dinamiche.

Perciò il discorso sulla reinternalizzazione dei servizi, almeno di quelli più stabili, penso sia da considerare molto seriamente. C’è una complessità che va affrontata ma ci sono anche esperienze di mobilitazione sindacale che iniziano a chiederla esplicitamente: è il caso per esempio della campagna portata avanti dalla rete intersindacale degli operatori sociali, promossa dalla Rete Intersindacale degli Operatori Sociali, che riunisce Cobas e reti e collettivi di operatrici e operatori a livello nazionale, che chiede un contratto unico per i lavoratori esternalizzati che si avvicini progressivamente a quello che vale per i loro colleghi assunti nel settore pubblico, mettendo così le basi per la loro reinternalizzazione. È una rivendicazione che si è precisata nel corso dell’ultimo anno e che penso andrebbe sostenuta con forza, rompendo gli equilibri tra centrali cooperative e governi nazionali e locali su cui si è retta finora l’esternalizzazione.


Queste sono ancora battaglie specifiche: quale pensi che sia la battaglia più generale che si sta giocando?


La posta in gioco più generale di questo processo è la costruzione dell’idea che usciremo dalla crisi con un’armonica collaborazione tra pubblico e privato. Quei processi di cui ho detto sopra, sono importanti perché alimentano una rappresentazione della collaborazione tra pubblico e privato come «gioco a somma positiva», in cui il privato può perseguire assieme profitto economico e bene sociale. Questa è una delle retoriche più martellanti, debitamente alimentata a tutte le scale di azione dai principali think tank ed enti di consulenza, molti dei quali nati nell’ultimo decennio su stimolo di soggetti imprenditoriali e finanziari interessati ad espandere la propria azione nel campo dei «servizi alla persona» (pagante) piuttosto che nel campo assicurativo e pensionistico.


Che cosa sono i knowledge brand? Perché sono perniciosi? In che modo concorrono a rimodellare le definizioni dei bisogni e le loro soluzioni?


I «knowledge brand» sono traduzioni di immaginari sociali e politici in ricette di policy: la mediazione tra un’immagine del mondo com’è e come dovrebbe essere e l’insieme di interventi e politiche che rispecchiano questa immagine. È un’espressione nata nel campo della cultural political economy come parte del più ampio tentativo di coniugare analisi culturale ed economia politica nell’analisi del capitalismo contemporaneo. In genere i knowledge brand hanno nomi accattivanti e difficilmente contestabili di per sé e tuttavia sotto quei nomi si nascondono ricette politiche tese a rinforzare e naturalizzare gli assetti politici ed economici esistenti. Questo rende da un lato facile appropriarsene anche da parte di progetti critici e alternativi e dall’altro facile anche l’incorporazione e l’addomesticamento di questi progetti dentro circuiti di finanziamento e pratiche sociali più innocue e meno conflittuali.

Rimanendo nel campo del welfare: pensiamo a tutto il discorso sul «secondo welfare» (ovvero welfare non pubblico) e sul «welfare aziendale», un discorso nato in grembo al Corriere della Sera nel 2010, in piena crisi globale, e sviluppato anche dal punto di vista accademico su input di grandi imprese, fondazioni e assicurazioni. Secondo questa prospettivalo Stato «inevitabilmente» retrocede, e questo apre spazio ai privati i quali (debitamente sostenuti dallo Stato stesso, per paradosso solo apparente) debbano assumere e stiano assumendo il ruolo di tutela del bene pubblico, «facendo del bene mentre fanno soldi» (doing well by doing good): considerando solo i fondi sanitari privati alimentati attraverso questo circuito, il Rapporto sullo Stato Sociale del 2019 curato dal professor Pizzuti dell’Università di Roma quantifica un trasferimento di denaro pubblico dalla sanità pubblica a quella privata superiore ai 2 miliardi di euro all’anno. Oggi è difficile trovare amministrazioni regionali e comunali che non adottino questa come uno dei quadri di pensiero e d’azione portanti, come fosse una griglia di lettura della realtà neutrale e non parte di un più vasto progetto di classe per gestire le crisi, sempre più ravvicinate, di questa fase del capitalismo, e per alimentare la falsa idea che se ne possa uscire guadagnandoci tutti attraverso «nuovi modelli di mercato». Questo è tra l’altro anche uno dei campi in cui è più difficile trovare «esperti» di welfare non arruolati, perché gli attori economici privati che hanno interesse nel secondo welfare sono molto forti e condizionano in modo decisivo il mercato della consulenza, e in misura crescente anche il mercato della ricerca, compresa quella accademica. In questo senso ci sono forme di censura più o meno esplicita ma, ancor più significativo, una straordinaria autocensura.


Il passaggio dal welfare «assistenzialista» al modello fondato sulle politiche attive implica tra le altre cose tagli nel finanziamento diretto dei servizi e una fortissima condizionalità: i soldi devono produrre soprattutto consenso all’interno delle comunità che ne sono «beneficate». Per questo motivo una quota molto consistente di ogni progetto viene dedicata alla comunicazione e il contenuto viene sempre più dirottato dalla sfera materiale (servizi alle persone, sussidi, manutenzioni dei luoghi) a quella simbolica (eventi effimeri, arte pubblica didascalica, finta partecipazione). Secondo te queste «politiche dell’animazione», propagandate come Innovazione sociale e culturale, riescono effettivamente a produrre consenso nei territori meno agiati?


Su questo ti rispondo facendo riferimento alla ricerca che ho fatto su «progetti di coesione sociale» finanziati da una grande fondazione in alcuni quartieri di Milano e anche all’esperienza che ho fatto anni dopo la mia ricerca lavorando come operatore in un progetto dello stesso tipo finanziato dal Comune [per inciso: dopo cinque-sei anni di «progetti di coesione sociale» finanziati da fondazioni, il Comune ci ha fatto un assessorato e ha deciso che anche le sue erano «politiche (o progetti) di coesione sociale», ricalcando in modo molto discutibile quel che aveva fatto la fondazione, che nel frattempo aveva cambiato «brand»…].

Non si può generalizzare troppo, però quella tendenza che tu dici c’è molto, molto forte, soprattutto purtroppo nelle cooperative più grandi che hanno più forza di influenzare il dibattito pur rappresentando un approccio non per forza maggioritario sul campo, non tra le cooperative e tantomeno tra gli operatori.

Molti di quei progetti erano basati su parole d’ordine tipo «non creare servizi», «attivare gli abitanti», «curare le relazioni», «non trattare i temi legati alle condizioni strutturali delle case (in un quartiere di edilizia popolare!)», «non prendere la parte di nessuno nei conflitti sull’uso di alcuni luoghi». E in compenso investivano molto sulla creazione di nuove parole d’ordine e sulla produzione di storie e immagini edificanti per far vedere che «gli abitanti si danno da fare» e che attraverso piccoli gesti e azioni si risolvono più problemi che sollevando – per esempio – il problema politico della gestione delle case popolari o della domanda abitativa. Questo è chiaramente legato al mercato delle consulenze e al fatto che i committenti non amano essere chiamati in causa: un buon esempio di depoliticizzazione dell’azione pubblica.

La cosa interessante è che pochi mesi dopo la fine dei progetti, in quei quartieri ci sono stati una serie di iniziative, pilotate dall’estrema destra cittadina, per denunciare le occupazioni abusive chiedendo sgomberi, iniziative sfociate in micro-rivolte per la strada, ronde, scontri con la polizia, anche in seguito al fatto che molti occupanti si erano difesi rivendicando la necessità di un tetto. Iniziative anche naturalmente cavalcate dal più bieco giornalismo locale e nazionale: le periferie che si infuocano, ecc. In un attimo, tutti quei problemi che i progetti avevano tenuto fuori dal proprio raggio d’azione – più scottanti, più difficili da gestire perché richiamavano le responsabilità istituzionali – esplodevano e il quadretto delle storie edificanti delle periferie che si attivano saltava per aria. I problemi che molte politiche e progetti animativi nelle periferie (molti dei quali finiscono oggi sotto l’etichetta di «innovazione») continuano da decenni a rimuovere, continuano ad esistere e trovano ciclicamente delle forme di espressione, non per forza piacevoli e progressiste, che sono anche il conto per questi progetti di facciata che purtroppo alimentano le fratture invece che ridurle. Ripeto però: è una tensione aperta nella città: se guardi a Milano trovi anche qualche cooperativa e rete territoriale che si fa carico di queste contraddizioni e di interlocuzioni complesse e conflittuali con le istituzioni, trovi esperienze di resistenza declinate in forme e linguaggi diversi dentro e fuori il terzo settore, ma a condurre le danze trovi purtroppo un gran lavorìo di esperti, universitari e non, che sulle periferie alimentano narrazioni e pratiche di comodo.


Nel suo ultimo libro, Dominio, Marco D’Eramo – sulla scia di Bourdieu – dice che «il primo passo per rilegittimare i conflitti è la lotta contro l’eufemismo», inteso come tecnologia di potere, come un tipo di discorso necessario a un «dominio in cui il potere può essere esercitato solo secondo una modalità che tende a mostrare che non viene esercitato». Da Fitoussi a Piketty, fino alle battaglie contro greenwashing, social washing, cultural washing, emerge sempre più forte l’esigenza di smascherare il linguaggio manipolatorio, di rivelare l’ideologia che denega se stessa come per le guerre «umanitarie» o la transizione ecologica promossa dai petrolieri e dagli immobiliaristi.


È fondamentale lottare contro gli eufemismi e rilegittimare i conflitti. Direi che è uno dei temi centrali del mio libro, come dello studio critico di esperti e sistemi di expertise in generale, contro uno spirito dei tempi, alimentato dall’alto, che mobilita esperti di ogni sorta, in campo psico-sociale per esempio, per allenarci ad accettare qualunque condizione sociale imposta, trasformando tutto in un problema individuale su cui agire solo ed esclusivamente attraverso il famoso «lavoro su sé stessi». Luc Boltanski ha catturato questa tendenza con l’immagine dell’essere allenati a «volere ciò che deve comunque accadere», ma già i lavori di Robert Castel negli anni ’80 sulla diffusione del «fenomeno psy» in Francia indicavano chiaramente questa direzione: una forma di «valorizzazione del soggetto» basata sul suo sradicamento dal contesto storico e sociale e di conseguenza il proliferare di esperti che ci insegnano qualunque cosa: da come essere un buon genitore a come essere un buon cittadino: un enorme lavoro tecnico per adattarci al mondo anziché trasformarlo.

Su questo mi vengono da dire anche due cose che riguardano l’università: la prima è che il tema è sempre più centrale nel dibattito pubblico e accademico, anche italiano; la seconda è che però c’è bisogno di portare questo sapere fuori dall’accademia, non tanto per «insegnarlo» dall’alto della nostra superiore consapevolezza, ma per metterlo in dialogo con quanto succede nella società, per capire come renderlo capace di collaborare alla costruzione di pratiche ed elaborazioni alternative. Per esempio: oggi scrivere un libro, per un ricercatore precario, è condizione essenziale per essere «abilitato» a diventare professore associato: come accademici, o aspiranti tali, noi stessi siamo sottoposti a regimi di quantificazione e svuotamento di senso del nostro lavoro pari a quelli che studiamo in altri campi e rischiamo di rimanere intrappolati nella produzione – anche critica – fine a se stessa, alla sua trasformazione in una «maniera» sterile. C’è in questo senso un lavoro su noi stessi e sul mondo da fare per evitare che anche la rottura dell’eufemismo diventi a sua volta un eufemismo, se così si può dire, un modo di ritagliarci una piccola nicchia più o meno riconosciuta nel mondo della ricerca. In questo senso, esistenziale e politico, non contrappongo esperti e accademici, ma persone più o meno alla ricerca di un percorso di presa di coscienza e liberazione dalle oppressioni cui siamo implicati e sottoposti. E dunque un percorso che ci metta in contatto con altre oppressioni, con altri soggetti sociali. Questo può essere qualcosa di interessante in cui diventare esperti.


In campo sociale il fenomeno più preoccupante sembra essere il dilagare della finanza di impatto sociale (SII, Social Impact Investing), un ramo in forte crescita a partire dalla crisi del 2008, il cui scopo è fondamentalmente «trasformare un bene naturale come una foresta o un bene sociale come l’educazione in asset investibili e profittevoli». Si tratta di un mercato stimato nel 2018 in 520 miliardi di dollari. Chi sono i grandi protagonisti di questa finanziarizzazione del welfare e della sostenibilità ambientale a livello globale e in Italia? E che linguaggio usano?


Il Social Impact Investing è un altro «knowledge brand», una ricetta per dare forza a una visione del mondo basata sull’idea di una quadratura del cerchio tra gli interessi e pratiche degli attori finanziari globali e gli interessi e i diritti della maggior parte della popolazione mondiale – interessi che non potrebbero al momento essere più distanti. È il discorso di cui dicevamo prima: usciamo dalla crisi «riformando in chiave social e green» il capitalismo: i mercati finanziari hanno il problema di dove allocare la quantità senza precedenti di denaro in circolazione, mentre gli Stati e le organizzazioni del privato sociale hanno il problema della mancanza di liquidi sufficienti a svolgere le proprie attività. La soluzione è: rendiamo la natura e il welfare delle nuove «asset class» per l’investimento finanziario, quindi ridefiniamoli in termini di servizi nel cui capitale si possa investire: la natura diventa «capitale naturale» che fornisce «servizi eco-sistemici»; il welfare diventa «capitale sociale» che produce servizi sociali. Per far funzionare questo mercato servono dei modi di quantificare e commisurare gli «impatti» che questi servizi generano, per potere determinare la remunerazione degli investimenti. Vengono di conseguenza costruiti una serie di sistemi di calcolo degli impatti naturali e sociali che questi servizi producono e nei quali gli investitori internazionali possono investire, ricavandone un legittimo guadagno. Ecco il grande racconto che nutre il SII.

Ovviamente per far funzionare questa macchina servono conoscenze specifiche e architetture istituzionali complesse, che vengono ideate e alimentate dai promotori del SII stesso, ovvero grandi fondazioni dedite al «filantrocapitalismo» (si veda in Italia il libro da poco pubblicato da Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni?) e banche e fondi di investimento globali come si può leggere nei rapporti annuali del Global Impact Investing Network. Le questioni che si aprono sono gigantesche: dal problema di definire cosa è «impatto sociale positivo» a quello di imporre modi di concepire e realizzare il lavoro sociale o la tutela dell’ambiente vincolati alla capacità di produrre «ritorni sugli investimenti», fino al fatto che la promessa di coniugare impatti sociali e finanziari positivi rimane una chimera, tanto che sono generalmente decisivi gli investimenti di attori filantropici (disposti ad avere un ritorno molto basso per attirare attori profit cui concederne uno più alto) e degli Stati stessi attraverso sistemi diretti e indiretti di sostegno alle società private coinvolte.

Guardando a tutto questo, penso – anche sulla base di un crescente numero di ricerche indipendenti – che il processo vada visto dal punto di vista rovesciato rispetto alla sua formulazione ufficiale: non è la «socializzazione» della finanza, ma la finanziarizzazione del sociale. In Italia l’esperimento più compiuto è quello dei fondi immobiliari per l’housing sociale, nati su iniziativa delle fondazioni di origine bancaria e poi adottati come politica pubblica per la casa nel 2008-2009, con risultati assai scarsi sulla questione abitativa ma con l’indubbio effetto di delegittimazione delle politiche pubbliche necessarie ad affrontare in termini strutturali l’emergenza casa. Nel campo dei servizi di welfare, da quando il G8 ha lanciato la sua crociata sul SII nel 2013, c’è stato molto parlare delle nuove prospettive introdotte dal SII ma a livello di pratiche ed effettivi flussi di investimento siamo fermi a uno studio di fattibilità del 2017 per la prima iniziativa di social impact bond (strumento principe della penetrazione del SII nel welfare) e a un’iniziativa per sperimentare all’interno della PA forme di SII. Nel frattempo però, sul piano dei discorsi e degli immaginari, il SII ha guadagnato consensi e costruito coalizioni importanti che lavorano per la sua diffusione.



Anche se non ne parla esplicitamente, la recente serie su San Patrignano prodotta da Netflix ci ha fatto tornare in mente quanto l’ascesa di Muccioli abbia contribuito ad affondare in pochissimo tempo la svolta culturale prodotta della lunga e radicale rivoluzione di Basaglia. Come era riuscito Basaglia a spezzare il monopolio dell’expertise, a portare al centro della cura lo sguardo e le competenze di chi è ai margini del processo, in una relazione che era ed è tornata a essere di asimmetria? Come riprendere quella direzione critica comune a lui e a Illich, e chi sono oggi i gruppi più attivi in questo genere di ricerca? Dove vedi oggi crescere questa possibilità, intorno a quali nodi della produzione/riproduzione?


Non ho visto la serie di Netflix ma la contrapposizione Muccioli/Basaglia l’ho trovata utile per porre il problema in termini di principi e modelli di lavoro.

Quelle esperienze del passato (Maccacaro, Basaglia, Oddone, ma anche Freire e Dolci) restano secondo me una miniera di ispirazione straordinaria, rispetto alla quale è anche facile restare paralizzati e invece bisogna credo farsene provocare, sapendo che erano anche inevitabilmente legate a quel ciclo alto delle lotte e che noi ci troviamo in un altro ciclo: possiamo lavorare per invertirlo, ma respiriamo un’altra aria e da qui dobbiamo partire. Perciò è anche più facile essere recuperati, più complicato cambiare le istituzioni, soprattutto in un momento in cui – vedi sopra – l’innovazione sociale viene sempre più fatta coincidere o con meccanismi di mercato o con forme animative e depoliticizzate di intervento pubblico-privato nel sociale.

Però c’è anche un fermento di esperienze, in Italia e nel mondo, che attorno alla produzione di conoscenza e azione insieme ai soggetti marginali, nell’alleanza «operatori-utenti» o più generalmente «esperti-non esperti», costruiscono esperienze di grande valore, su temi e su scale d’azione molto diverse. È impossibile richiamarli tutti e mi limito ad alcuni che conosco meglio: su scala di quartiere e urbana a Milano c’è stata l’esperienza storica del Comitato Inquilini Molise-Calvairate-Ponti, cui mi sono molto legato anche perché io mi sono formato lì, con il patrimonio di conoscenza e di iniziativa politica dal basso che ha rappresentato per quarant’anni a Milano o ancora, rimanendo a Milano l’esperienza in corso importante, e anche conflittuale, nel quartiere Giambellino dove un lavoro di costruzione dal basso del progetto di riqualificazione è stata estromessa da Comune e Regione per dar vita a una «progettazione partecipata» governata dall’alto. Pensando al mondo del lavoro c’è l’esperienza, sviluppatasi nell’ultimo decennio dei «cantieri di socio-analisi narrativa» proposti da Renato Curcio e Sensibili alle Foglie che ha prodotto forme di analisi, contro-narrazione e di coscientizzazione molto profonde e forti con alcuni gruppi e collettivi di lavoro. Pensando al welfare, oltre a «La rivolta del riso», un libro nato proprio da un cantiere di socioanalisi, c’è l’autoinchiesta WhoCares nata a Bologna da un collettivo di operatori e ricercatori sociali sulla condizione dei lavoratori della cura. Su un altro piano e un’altra scala, ma secondo me accomunati da una matrice comune, c’è a livello macro il lavoro di Sbilanciamoci che ogni anno analizza la legge finanziaria e ne scrive una alternativa, mettendo competenze tecniche molto sofisticate in dialogo e al servizio di realtà che fanno lavoro sociale e culturale diffuso o anche quello di Attac sui temi del debito pubblico e delle sue conseguenze. Ci sono, a livello internazionale, le università popolari di cui Vincenza Pellegrino rielabora i metodi qua in Italia. La lista sarebbe lunghissima e meriterebbe una ricerca a un approfondimento anche per evitare di costruire la piccola teca delle «buone pratiche», che credo sia, per quel di cui stiamo parlando, una delle disgrazie di questi tempi perché tende a chiudere e cristallizzare dei processi che devono sempre restare aperti.


Vorremmo sollecitare una ulteriore riflessione sul rapporto tra «expertise» e «non esperti». Non ci fornisce una chiave di lettura (ovviamente insieme ad altre) delle fibrillazioni politiche e sociali degli ultimi dieci anni? I movimenti cosiddetti «populisti» e i loro successi elettorali, quasi sempre massimi a seguito di esecutivi «tecnici», non hanno forse tematizzato, certo in modo ambiguo, una sorta di «diritto di resistenza» dei non esperti?


Sicuramente i movimenti cosiddetti populisti sono il rovescio della tecnicizzazione della politica e della delega agli «esperti». In uno spettacolo di qualche anno fa Sabina Guzzanti immaginava un futuro in cui i cittadini avrebbero smesso di andare a votare «perché avevano paura di sbagliare»: un’immagine molto azzeccata di come ci si può sentire di fronte alle raccomandazioni pre-elettorali a fare il bene del Paese, a scegliere la strada della conoscenza e della ragionevolezza che ci sono state rivolte dalle classi dirigenti neoliberali, tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra. Ricordo anche, per inciso, che a rassicurare chi faceva queste raccomandazioni, ci pensò Draghi nel 2013 quando da governatore della BCE ricordò che «indipendentemente da chi vince, le riforme sono avviate e vanno avanti oramai con il pilota automatico».

È chiaro che dopo un po’ questo meccanismo si inceppa e genera – per fortuna – reazioni: alla depoliticizzazione seguono fasi di ri-politicizzazione che si fanno della diffidenza verso gli esperti mainstream la propria bandiera e combinano la promozione di «contro-esperti» e «contro-expertise». Ricordiamo tra l’altro che le reazioni più popolari, a livello internazionale, non sono state solo quelle del populismo nazionalista e fascista ma ci sono stati anche i grandi consensi del Labour di Corbyn (avversato in maniera feroce dalla destra del partito e dal sistema dei media), di Podemos in Spagna e dei socialisti democratici statunitensi.

Una lente interessante per distinguere diversi atteggiamenti dei «populismi» rispetto a questa tensione tra democrazia e tecnocrazia (un bel libro così intitolato scritto da Francesco Antonelli è uscito nel 2019 per le edizioni dell’Asino d’oro) è osservare più attentamente questi processi di ri-politicizzazione. Quanto dura questa riapertura? Molto presto il populismo nazionalista e fascista sostituisce il sapere esperto con richiami a un «buon senso» maschio, bianco e rigorosamente interclassista – un dispositivo di depoliticizzazione che non si basa sui saperi esperti ma sul «sentire medio», un sentire medio che è sempre tuttavia costruito socialmente e tutt’altro che neutrale.

La crisi istituzionale americana seguita alla sconfitta di Trump, ma anche quella che ha percorso la sua presidenza, è stata definita come parte di una più generale «crisi epistemica» che mette in discussione la legittimità degli attori e dei metodi titolati a distinguere ciò che è vero e ciò che è falso. Di fronte a questa crisi, che non nasce con Trump (pensiamo alla finanziarizzazione e al cortocircuito tra «economia reale» ed «economia finanziaria»), un compito cruciale che abbiamo davanti è quello di mettere in moto processi di costruzione di «epistemologie civiche», come sono chiamate da Sheila Jasanoff: processi di ricostruzione della conoscenza della società basati sulla presa di parola della più ampia e plurale platea di soggetti, a partire da quelli messi al margine e da quelli che vivono e danno senso ai mondi sociali di cui la conoscenza di volta in volta tratta. Sulla base di questa presa di parola, del suo ascolto e del dialogo tra saperi scientifici ed esperienziali – e non certo grazie a una rinnovata e incondizionata obbedienza fideistica alla «scienza» e agli «esperti» – è possibile forse ricostruire uno spazio di cittadinanza e di governo in grado di aprire scenari radicalmente democratici.

Quello che va recuperato, credo, è la capacità di ripoliticizzare attraverso la critica e la proposta. rendendo esplicite le poste in gioco, innanzitutto in termini di antagonismi sociali: chi vince e chi perde in seguito a una decisione politica? Quali sono le alternative possibili? Aver lasciato la critica del sapere-potere egemone alle strumentalizzazioni più reazionarie e fasciste, fino alla Meloni che cita Brecht, è uno dei cortocircuiti che siamo chiamati a far saltare.


Alcune pagine di grande interesse del tuo libro si soffermano sulle pratiche degli esperti e sui metodi che usano. Una cosa che colpisce è l’apparente povertà del loro lavoro: ovunque gli stessi schemi, la routine, i modelli stancamente riprodotti, le pareti di post-it, i riti di «restituzione», gli schemi improbabili della valutazione, i percorsi formativi copia e incolla. Ritieni utile una critica dell’expertise fondata anche sulla sua banalità?


Io penso che questa povertà sia frutto dell’impoverimento del ruolo che il più delle volte chi le mette in atto è chiamato a giocare. Bisogna rompere il recinto che si è costruito attorno all’ «innovazione sociale», che poi mi sembra lo stesso che tante ricerche hanno messo in luce sulle «politiche partecipative» (penso a Teoria critica della partecipazione di Giulio Moini pubblicato ormai quasi dieci anni fa e sempre attuale). È un recinto fatto di due assunti intoccabili: la centralità della scala micro, locale, di quartiere e la centralità delle tecniche partecipative rispetto ai contenuti. In questo recinto però le cose marciscono, le relazioni e gli incontri significativi che si verificano restano monchi e tutto facilmente finisce per ridursi alle storielle edificanti di cui dicevo sopra. Diventa, paradossalmente, una sorta di educazione alla non partecipazione politica, alla rassegnazione in nome del pragmatismo (funzionale per i consulenti ad avere «prodotti» da mostrare ai committenti). La cura del dettaglio metodologico si raffina a discapito di qualunque capacità di incidere sulle dimensioni più rilevanti della condizione di oppressione che si vive. Nelle parole di un educatore intervistato nella ricerca: il metodo così inteso è una ciliegina messa, invece che sulla torta, sulla merda, ovvero sulle condizioni strutturali che restano immutabili. C’è un potenziale enorme, nella società e anche tra gli esperti, che viene mortificato dall’adesione a questi schemi e dall’accettazione di questi recinti e il libro è in fondo un invito a rompere questi confini per avventurarsi a costruire qualcosa di nuovo.


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