È recentemente stato pubblicato da DeriveApprodi il libro di Fabrizio Salmoni, I senza nome. Il Servizio d’ordine e la questione della «forza» in Lotta continua. Di seguito su «il manifesto» è comparsa una recensione di Marco Grispigni alle cui argomentazioni critiche ha risposto l’autore. Su alcuni contenuti del libro è poi intervenuto Giovanni Marconi, all’epoca tra i principali responsabili del Servizio d’ordine di Lotta continua a Torino. Rendiamo qui conto di questi interventi.
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Marco Grispigni
«Fòrza s. f. – In generale, la qualità o la condizione d’esser forte, e insieme anche la causa che dà la possibilità d’esser forte».
Questa è la definizione di «forza» che troviamo sul sito della Treccani. Un termine a cui associare indiscutibilmente un valore positivo.
Lotta continua, il più importante dei gruppi della nuova sinistra, utilizzava, in maniera «gesuitica», questo termine per parlare dell’uso della violenza e poi del ruolo del proprio servizio d’ordine. È questo il tema al centro del volume di Fabrizio Salmoni, I senza nome. Il Servizio d’ordine e la questione della «forza» in Lotta continua (pp. 288, 20 euro, DeriveApprodi).
Chiariamo una cosa subito: non si stratta di un libro che affronta con un approccio storiografico, o sociologico, o antropologico il tema della violenza all’interno della lunga stagione dei movimenti che caratterizzò buona parte degli anni Settanta italiani. È un libro di memorie, il racconto di uno dei protagonisti di quella vicenda, delle discussioni e delle polemiche politiche e umane intorno al ruolo e al significato del servizio d’ordine nella vicenda di Lotta continua e in particolare di quella torinese.
Il punto di partenza per la giovane organizzazione rivoluzionaria fu la strage di piazza Fontana nel dicembre del 1969 e la campagna contro gli anarchici: «…il problema di come difendersi, in che modo e con quali criteri imporre il proprio diritto a stare in piazza, come difendere le lotte sul territorio, le conquiste, le proteste, le occupazioni di fabbrica e di scuola» (p. 16).
La descrizione della nascita del servizio d’ordine e dei suoi compiti, tra i quali c’era anche quello della raccolta di informazioni, è molto utile e offre degli elementi di conoscenza in più rispetto alla lettura affermatasi in ambito storiografico che vede nei servizi d’ordine e soprattutto nella «schedatura» dell’avversario solo i prodromi del terrorismo e dell’imbarbarimento della lotta politica. In sostanza i gruppi mettono in discussione due attività considerate monopolio dei poteri costituiti: l’uso della forza e quello della schedatura dei «soggetti pericolosi».
Nel lavoro di Salmoni è importante l’attenzione rivolta a un tema normalmente evitato nelle ricostruzioni di quegli anni: quello della violenza operaia nel conflitto di fabbrica. Un articolo apparso in «Lotta continua» nel luglio 1970 è particolarmente significativo, pur facendo tutta la tara necessaria sul trionfalismo dell’allora settimanale.
«Incomincia il corteo più entusiasmante di tutte le lotte Fiat: entusiasmante per chi c’è dentro, terrorizzante per chi è fuori. I capi, i delegati, i crumiri, i guardioni, gli impiegati fuggono e si rintanano, ma ogni tanto un operaio ne becca due nascosti in un refettorio e li presenta ai compagni tenendoli per il bavero… È guidato [il corteo] da un operaio che batte il tam-tam su una latta e basta un suo cenno per dirigerlo a destra o a sinistra. Segue un cordone di testa, che è in realtà un cordone che due operai lanciano pigliando al lazo i crumiri e i capi acquattati all’ombra delle macchine… poi 10.000 operai ognuno con una sbarra di ferro in mano che scandiscono «Agnelli, l’Indocina ce l’hai in officina».
Il tema della violenza operaia è un sostanziale rimosso dalle numerose riflessioni sulla violenza politica. Parlarne significa infatti chiamare in causa non solo i «cattivi maestri» ma anche le organizzazioni sindacali che proprio in quegli anni, «cavalcando la tigre» del conflitto operaio e quindi in qualche modo «legittimando» le pratiche e le modalità di lotta, riescono a riprendere il controllo del movimento esploso autonomamente nelle fabbriche.
Purtroppo, nel resto del volume il racconto nostalgico di quegli anni marcia di pari passo a una sorta di rancorosa resa dei conti contro la dirigenza di Lotta continua, accusata sostanzialmente di essere composta da «intellettuali borghesi», interessati al loro destino individuale, e le «femministe» alleate con la «destra» dell’organizzazione per distruggerla.
In questo senso la lettura diviene in qualche modo «straniante». Tra un ricordo dei libri di Del Carria sui Proletari senza rivoluzione (qui la colpa della mancata rivoluzione non è più dei riformisti ma dei leader di Lotta continua), e la rappresentazione delle incredibili divisioni, tensioni, polemiche, veri e propri odi, che attraversarono il piccolo mondo della militanza nella sinistra rivoluzionaria.
Salmoni ha una fede incrollabile nel fatto che la classe operaia fosse ancora all’offensiva nel 1976, quando Lotta continua implose nelle sue contraddizioni.
Il conflitto operaio non era un tramonto scambiato per l’alba: era un’alba radiosa, tradita.
«E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire».
Fabrizio Salmoni
Ringrazio Grispigni ma vorrei confutare alcune delle affermazioni contenute nella sua recensione. 1. Il mio lavoro non è memorialistica, è la ricostruzione tramite testimonianze, documenti e opinioni pubblicate nell’arco degli anni di una verità storica che andava documentata. Se no, avrei scritto un diario come nel mio precedente libro sul movimento No Tav della Val susa. Il mio contributo personale è limitato ad alcune azioni descritte e alla ricostruzione del clima politico che ho vissuto.
2. La fine di Lc non è stata una «lite in famiglia» da liquidare con leggerezza e poco significativa. Fu un fatto che implicò gravi conseguenze sulle decine di migliaia di militanti e sulla loro sorte individuale. Fu allo stesso tempo una catastrofe umana e politica perché privò il paese di una forza di cambiamento negli equilibri di classe e abbandonò i militanti alla loro sorte individuale, spesso tragica. Inoltre contribui all’espansione delle formazioni combattenti. Anche da qui la grande responsabilità personale e politica del gruppo dirigente. 3. Non è vero che nel 1976 le lotte di fabbriche fossero in riflusso o assenti. Come scrivo a p. 286, nel settembre 1976 ci fu la grande lotta dell’Alfa Romeo che costrinse l’azienda a ritirare la cassa integrazione, e quella dei ferrovieri e di 70 stabilimenti contro la «stangata» del governo Andreotti e il blocco della scala mobile. Le lotte continuarono negli anni successivi tanto da costringere la Fiat ai licenziamenti politici del 1979 a costringere il Pci a sostenere (e poi tradire) l’occupazione Fiat nel 1980. Quella dell’assenza di lotte operaie fu uno degli argomenti pretestuosi del gruppo dirigente per sfilarsi dalle proprie responsabilità. Non riproponiamolo.
4) Non ho mai accostato la qualifica di «borghesi» a quella di «intellettuali» in riferimento ai membri del gruppo dirigente di Lc (anche perché non tutti lo erano). Ho messo in risalto la formazione intellettuale della maggioranza di quel gruppo (v. componenti del Comitato nazionale uscito dal primo Congresso – pag. 150) per sottolineare il paradosso che, nell’ultimo tratto del suo percorso di fuga quel gruppo si è contrapposto veementemente proprio alla componente operaia per spaccare il partito e trasformarlo in qualcosa di molto diverso.
I senza nome è un libro di storia, basato su testimonianze e fonti documentali elencate in una lunga bibliografia. Se Grispigni ha ravvisato dei toni rancorosi significa che ho ben riportato i sentimenti sopiti dal tempo ma ancora vivi dei tanti protagonisti di quella stagione di lotta di classe nel nostro paese.
Giovanni Marconi
Avevo quasi del tutto perso la memoria di quei tempi, non tanto dei grandi fatti epocali di allora: le lotte operaie e degli studenti, le stragi di Stato, i tentativi di golpe, l’antifascismo militante, la necessità di lottare in continuazione nelle piazze, nelle strade, nelle città contro ogni ingiustizia e i tentativi repressivi del nemico di classe. Ma poi, al di la di tutta una serie di avvenimenti (alcuni dei quali ho del tutto cancellato senza possibilità di recupero), che vanno dal ricordo amaro delle scelte tattico-strategiche che hanno caratterizzato dapprima le vittorie e in seguito le sconfitte di Lotta continua fino alla sua dissoluzione, mi sono reso conto con chiarezza di essermi del tutto scordato lo sforzo quotidiano della militanza. Per questo, quando ho iniziato a leggere il formidabile (almeno per me) saggio di Fabrizio Salmoni, ricco di ricostruzioni puntuali e assolutamente pertinenti, sono cominciati a riemergere dalle nebbie dell’oblio i volti, i gesti, la determinazione, l’intelligenza e il coraggio di compagni e compagne con i quali (moltissimi) ho vissuto quegli anni torinesi. E col ricordo riemerge il senso di appartenenza a una compagine fraterna di militanti spinti dalla volontà comune di cambiare radicalmente lo stato delle cose. Allora si credeva, si diceva, di fare la Rivoluzione. Per questo è un onore grande per me, qualsivoglia sia stata la strada poi intrapresa da ciascuno di noi, di noi militanti senza nome di essere stato al vostro fianco nelle piazze, nei quartieri, nelle occupazioni delle case, negli attacchinaggi e nelle ronde antifasciste la notte e all’alba alle porte delle fabbriche, e inquadrati nei cordoni di Servizio d’ordine di giorno. Pronti sempre a batterci contro chi ci contrastasse il passo. E vi saluto con rispetto abbracciandovi tutti, ancora commosso come allora dopo tutti questi anni. Infine intendo ringraziare particolarmente Fabrizio Salmoni per il grande lavoro fatto per identificare, analizzare e portare alla luce fatti e contraddizioni – molte del tutto ignorate da me e credo anche dai più – che hanno determinato il crollo di Lotta continua e la nostra diaspora. E insieme a lui ringrazio tutti quelli e quelle che con le loro testimonianze hanno contribuito attivamente alla realizzazione di quest’opera. Sono poi, in conclusione, personalmente grato a Fabrizio per l’indulgenza e la benevolenza – troppa forse – con cui ha trattato la mia vicenda di quegli anni.
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