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La politica come esperienza


Piero Pizzi Cannella per «alfabeta2», Piccola mappa del mondo per andare via, 2016


Cosa dice la filosofia di Alain Badiou? E cosa dice riguardo alla politica? Domande ambiziose e impegnative, sul pensiero di uno dei più importanti filosofi contemporanei, eclettico e prolifico, complesso e provocatorio. Attorno a tali questioni si sviluppa l’articolo di Valerio Romitelli, alimentato dal seminario che insieme a Luca Jourdan ha organizzato all’Università di Bologna. Romitelli mette da subito a critica due formule, tanto enfatiche quanto alla fin fine paralizzanti: «tutto è politica» oppure «la politica non conta nulla». Per andare in un’altra direzione, bisogna appunto considerare la politica come esperienza, confrontandosi con alcuni concetti fondamentali: eguaglianza e sottrazione, oggettività e soggettività, evento e comunismo. Dentro questa matassa, oggi quanto mai ingarbugliata, si possono trovare dei fili per pensare e ripensare la politica.


Valerio Romitelli è docente di Storia dei movimenti e dei partiti politici dell’Università di Bologna. Tra i suoi libri recenti ricordiamo L’amore della politica (Mucchi, Modena 2014), La felicità dei partigiani e la nostra (Cronopio, Napoli 2015), L’enigma dell’Ottobre ’17 (Cronopio, Napoli 2017).


Sei anni fa, assieme a Luca Jourdan, presso il Corso di laurea magistrale di Antropologia culturale ed etnologia dell’Università di Bologna abbiamo dato avvio a una serie di seminari sul pensiero politico, aperti anche a non iscritti, con uno scopo assai preciso: contrastare il malcostume accademico forse attualmente accentuato dalle accresciute influenze anglofone, che obbligando a sfoggiare le più ampie conoscenze libresche induce ad associare in modo quanto mai eclettico e a volte persino ingenuo riferimenti teorici e filosofici disparati, anche tra loro contrastanti. Se mi è consentita una battuta grossolana ricordo quando agli inizi di questa iniziativa provando a illustrarla a uno studente mi è venuto da dire che «condire gli spaghetti con la marmellata può anche piacere, ma almeno vorrei spiegare perché di solito non lo si fa».

Da allora, in ogni anno accademico abbiamo organizzato due serie di incontri durante i quali sono stati proposti e discussi alcuni ritratti sommari e consigli di lettura di alcune tra le più attualmente citate star del firmamento del pensiero politico: insistendo anzitutto sulle differenze, pur senza trascurare le eventuali convergenze, tra i loro metodi e campi problematici.

Si è dunque trattato e discusso di parecchi autori eccellenti come Machiavelli, Spinoza, Marx, Gramsci, Schmitt, Arendt, Althusser, Toni Negri, Foucault, Žižek e della connessa vastissima letteratura, ovviamente senza alcuna pretesa di completezza, ma sempre puntando a mostrare quali conseguenze in termini epistemologici, ma anche di impegno militante comportasse questa o quella scelta di impostazione problematica. In effetti, la militanza – come la si intende all’interno del campo specifico delle ricerche antropologiche o in quello della politica più in generale – si è dimostrato uno degli argomenti che ha riscosso maggiore interesse tra i frequentanti del nostro seminario.

Quest’anno abbiamo dunque deciso di affrontare direttamente la questione della politica come possibile esperienza, per così dire, esistenziale; cioè pensata in un’ottica antropologica dall’interno delle sue sperimentazioni già avvenute o ancora solo ipotetiche. Per far ciò si è pensato di interpellare uno dei filosofi più attualmente letti nel mondo intero e che ha sempre rivendicato questo tipo di esperienza quale indispensabile fonte d’ispirazione intellettuale: Alain Badiou.


Cosa chiedere alla filosofia di Badiou?

La domanda centrale che il seminario si è posto non è stata del tipo: cosa dice veramente la filosofia di Badiou? o cosa dice riguardo alla politica? e neanche: qual è la sua filosofia politica? Ci siamo chiesti piuttosto quali spunti si possono trarre dalla filosofia di Badiou se si tenta di adottare una visione antropologica della politica come esperienza. Un’interrogazione, questa, occorre precisarlo, del tutto compatibile con la stessa filosofia di Badiou, la quale contempla, anzi prescrive, più logiche, modi di pensare e di far esperienze del tutto diversi e distanti da quello filosofico.

Questo autore francese (quanto mai versatile e prolifico: raffinato cultore di matematiche, storico della filosofia, drammaturgo, romanziere, critico d’arte, nonché già lungamente impegnato in organizzazioni d’ispirazione maoista) concepisce infatti non solo la sua stessa filosofia (di cui propone una visione rigorosamente sistematica), ma anche ogni filosofia, come un modo di pensare capace di offrire un’intelligibilità d’insieme di quelli che considera i quattro campi di esperienze fondamentali per ogni tempo: amore, scienza, arte e appunto politica[1]. Detto altrimenti, da questa angolatura ogni filosofo, da Parmenide a Platone, da Descartes a Rousseau, da Hegel ad Heidegger e così via, nel passato come per l’avvenire, adempie alla sua missione nella misura in cui è capace di trovare delle verità universali, a portata eterna, in ciò che sta accadendo nel suo tempo all’interno delle infinitamente molteplici esperienze che sempre si danno in campo amoroso, scientifico, artistico e politico.

Ecco allora che tra le tante, una delle cose più interessanti per noi di questa prospettiva sono le sue conseguenze per così dire sottrattive ed egualitarie. Se ammettiamo che i problemi delle verità eterne sono affare dei filosofi, non ne consegue infatti solo una legittima ammirazione per questa disciplina e un desiderio di apprendere da essa: ne consegue anche una limitazione della pertinenza di queste sue verità in quanto necessariamente sempre ex post, sempre successive a quanto accade all’interno delle stesse esperienze sul terreno – terreno artistico, amoroso, scientifico e politico. E d’altra parte se concepiamo questi campi d’esperienza sempre tra loro distinti, anche seppur eventualmente tra loro dialoganti, evitiamo la tentazione di ergerne uno a chiave di lettura di tutti gli altri. Una tentazione questa che in politica porta ad esempio a formule enfatiche e alla fin fine sperimentalmente paralizzanti come «tutto è politica» (intendendo così che anche filosofia, arte, scienza e amore sarebbero sempre espressioni politiche) o viceversa «la politica non conta nulla» (intendendo così che la politica sarebbe sempre corrotta o sottomessa al controllo della tecnica e/o del capitale).


Perché possiamo o non possiamo non dichiararci comunisti?

Venendo più direttamente al merito degli spunti ricavabili dalla filosofia di Badiou per pensare l’esperienza politica è insorta una questione non aggirabile. Questo autore, infatti, come del resto il suo amico Slavoj Žižek e pure il ben più da lui distante Toni Negri, tiene a definirsi sempre comunista (anche se per un comunismo da rinnovare), mentre, per quanto mi riguarda, non sono più del tutto convinto di definirmi tale, senza però nulla concedere all’anticomunismo dominante. Così si è dovuto subito render conto di questo primo ostacolo da superare per potere procedere nel seminario alla discussione intorno a questo filosofo.

Ora, l’idea di comunismo di Badiou ha la caratteristica di essere concepita come «idea eterna» risalente addirittura a Platone, perciò relativamente indifferente alle sue vicende contingenti. Tant’è che, ad esempio, di fronte a tutti gli orrori imputati all’epoca staliniana Badiou è giunto persino a rivendicare un atteggiamento simile a quello dei cattolici sempre fedeli al loro credo nonostante tutti gli orrori compiuti dall’Inquisizione. Ma appunto ecco: orrori a parte, che un comunista per giustificarsi si compari a un cattolico, non mi pare proprio una grande trovata! In effetti, il suo deliberato e sistematico ragionare da filosofo porta Badiou talvolta a giudizi politici per me poco convincenti, nonostante tutti gli stimoli innovatori che si possono ricavare dalla sua opera. Cercare questi stimoli, come il nostro seminario ha invitato a fare, non ha dunque per nulla implicato un approccio ossequioso, da semplici seguaci. Così ho subito tenuto a fare presente di avere non poche riserve rispetto all’idea di comunismo difesa da Badiou e da altri. Cercando di essere il più chiaro possibile su queste riserve le ho esposte in cinque punti che qui riassumo nel modo più conciso, dunque anche provocatorio – si spera utilmente.

1) Anzitutto mi sono dichiarato del tutto convinto che l’anticomunismo oggi dominante vada comunque del tutto respinto, non fosse che per preservare le capacità più essenziali del discernimento politico. Condannare senza riserve il comunismo equivale infatti a rimuovere quel principio che sta alla base di ogni politica e che è stato al cuore del lungo ciclo delle sperimentazioni iniziate con Il manifesto del partito comunista del 1848: il principio che punta ad affermare comunque l’esigenza di una riduzione a oltranza delle differenze sociali su scala globale.

2) D’altra parte mi sono dichiarato anche convinto che questo più che secolare ciclo di sperimentazioni, pur sempre da apprezzare, studiare e ripensare, si sia definitivamente concluso. E che ciò sia avvenuto tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta. Dimostrazione ne è per me sopratutto un fenomeno impostosi durante e dopo questi anni. Si tratta di ciò che possiamo chiamare nazional-comunismo, in quanto tendenza in completa rottura con tutta la tradizione dell’internazionalismo proletario. Un fenomeno, questo, costituito dal proliferare di dittature autocratiche incarnate da personaggi come Milosevic, Ceausescu, Hoxha, Kim Jong-un, ma soprattutto dall’emergere della Cina come superpotenza mondiale quanto mai gelosa degli esclusivi interessi economici e geopolitici del suo partito-Stato. Certo si può obiettare che questa brutta storia del nazional-comunismo era già cominciata con l’Urss di Stalin, ma si può ribattere che allora appunto si era solo all’inizio[2] e le cose poi non sono andate in quell’unica direzione che oggi pare invece imporsi. Che il comunismo, nella realtà, si sia attualmente oramai convertito in nazional-comunismo significa che il senso di questo simbolo ha finito per trasformarsi nel suo contrario. E un’ulteriore giravolta dialettica mi parrebbe poco probabile. Il motto «è morto», dunque «viva!» sarei insomma per lasciarlo appannaggio di re e papi.

3) Mi sono infine dichiarato convinto che se si vuole mantenere una qualche fedeltà a quel che è stato tentato e realizzato in nome del comunismo occorre cercare altri modi di chiamarlo, altri simboli. E non si tratta di una questione nominalistica. In fondo, fare politica non vuol forse sempre dire anzitutto andare a parlare e mescolarsi con le popolazioni che più soffrono di sfruttamento e di discriminazione? E allora in simili casi come si fa a presentarsi inalberando lo stesso simbolo della seconda potenza mondiale, con tutti i suoi manager al top della ricchezza planetaria e il suo sconfinato esercito di spioni informatici? In fondo se proprio si vuole rivendicare un’etichetta sarei per dichiararsi post-comunisti, il più radicalmente possibile anti-anticomunisti. Una nominazione quanto mai complicata, vaga e incerta, evidentemente, ma che corrisponde a quel procedere a tentoni cui siamo attualmente obbligati.

4) Ho poi accennato a un ulteriore seminario che andrebbe interamente dedicato a mettere a confronto l’uso qui proposto della filosofia di Badiou con quella tradizione operaista, ora detta «post» o «neo», che in fondo è la più longeva tradizione comunista in Italia e che per di più oramai gode di un seguito mondiale, sotto l’etichetta tutta americana di «Italian Theory». Al centro della discussione dovrebbe esserci ovviamente la vasta opera di Toni Negri come maestro indiscusso di questa tradizione, che da una decina d’anni ha assunto la tematica dei «beni comuni» (teorizzati dal premio Nobel del 2009 Elinor Ostrom) come conferma dell’attualità del comunismo. Ma solo per segnalare una delle principali differenze d’approccio ho ricordato che secondo quest’ultima scuola di pensiero, diversamente da quella di Badiou, ogni distinzione tra filosofia e politica, così come ogni distinzione tra diversi campi di esperienza, risulta superflua se non fuorviante, essendo tutti questi campi riconducibili al general intellect e al lavoro vivo, cioè alle espressioni della moltitudine sempre fondamentalmente «dentro», ma «contro» il sistema capitalista.

Questi dunque alcuni dei punti preliminari più problematici del seminario che è continuato illustrando un pacchetto di concetti desunti dalla filosofia di Badiou. Detti subito in successione questi concetti sono: l’evento, tre tipi di soggettività (fedele, reattiva, oscurantista), i corpi collettivi organizzati, i diversi modi di pensare e sperimentare la politica. Ecco qualche cenno su come sono stati affrontati nel corso del seminario.



L’evento

Questo concetto è uno dei pilastri di tutta la filosofia di Badiou, tant’è che tutti i suoi libri più importanti hanno come titolo o sottotitolo L’evento e l’essere, dunque se se ne volesse restituire un qualche sunto si potrebbe essere certi di fargli torto. Ma appunto non è su questo che il seminario si è cimentato. Si è infatti cominciato riflettendo invece su quanto da esso se ne può ricavare per contrastare le opinioni dominanti in fatto di esperienza politica.

In effetti, in tempi come i nostri dominati da teorie comportamentali e cognitiviste, pare quasi ovvio che i diversi orientamenti politici dipendano da diverse predisposizioni della natura umana, supposta ora più incline a simpatizzare per la giustizia e l’eguaglianza, ora per la libertà e il possesso. Ed è così che anche gli schieramenti tra democratici e repubblicani negli Stati Uniti o tra destra e sinistra in Europa sono analizzati come effetti di diverse propensioni psico-biologiche.

Ebbene è in un senso diametralmente opposto che il concetto di evento elaborato da Badiou obbliga a pensare. Nella sua filosofia in effetti la natura neanche esiste – non è che la supposizione di un’armonia ontologica mai realmente riscontrabile –, ma sopratutto niente della esistenza umana risponde a cause naturali. L’origine di tutto per lui non dipende che da eventi singolari. Eventi singolari che non sono interpretabili come cause, come determinazioni o come necessità, meno che mai naturali, ma come affiorare momentaneo di possibilità di per sé sfuggenti, pur dalla portata ontologica infinita. Sono gli eventi così concepiti che per Badiou scandiscono il divenire oltre che della scienza, dell’arte e dell’amore, anche della politica. Ragionare di politica in termini di eventi comporta dunque ricercare sempre dove e quando si dà qualcosa di più o di meno rispetto a qualunque fatto, lotta o movimento: qualcosa che non sia allineabile nel concatenarsi tra ciò che precede e ciò che segue; un’interruzione imprevedibile, dunque, a volte quasi impercettibile, ma che fa balenare i sintomi di un’irriducibile dimensione eterogenea rispetto al normale procedere delle cose. In tal senso, parlare di un evento politico significa parlare sempre di un momento positivo, creativo e intellettualmente stimolante, perché segnala, fa presente che c’è dell’altro oltre a quello che si è abituati a percepire e pensare. Solo così la finitezza di ogni realtà può rivelarsi per quel che è: un’apparenza all’intersezione tra due infiniti, ad esempio, l’uno sconfinante nel passato, l’altro nell’avvenire.

Ora, certo, questo concetto di evento, data la sua eterogeneità illuminante, può far ricordare ciò che per la religione cristiana è il miracolo. Ma ciò può accadere solo se non ce la si fa a prescindere dai canoni di questa religione e non si sa concepire l’infinito se non come attributo di Dio. Badiou grande cultore delle matematiche, della loro storia, delle loro incessanti e molteplici invenzioni, promuove invece un’ideanumerica del tutto immanente dell’infinito e del suo rapporto con l’evento. Da questa angolatura l’evento non è che sintomo dell’infinito che si presenta come eccesso o mancanza rispetto alla finitezza dell’esistente. Pur volendo astenersi da incursioni prettamente filosofiche il seminario non ha potuto esimersi dal ricordare quanto anche nel pensiero di Gilles Deleuze – così apprezzato anche in Italia e specie tra neo- o post-operaisti – sia importante lo stesso concetto di evento. Una convergenza terminologica però che, ho tenuto a sottolineare, non deve ingannare. Per segnalare in poche parole la differenza tra questi due filosofi (un tempo, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, divisi da un disaccordo anche aspro, progressivamente ammansitosi grazie a una crescente e reciproca ammirazione), è valsa la citazione del bel titolo dato a una raccolta di interventi di Badiou proprio su Deleuze: Oltre l’uno e il molteplice.

In effetti, se si può dire che per Deleuze l’evento è «piega» dell’essere che mette in rilievo la «sintesi disgiuntiva» tra la sua unità e la sua molteplicità ovvero che lo fa percepire allo stesso tempo come essere «uno» eppur anche come dimensione illimitatamente differenziata, per Badiou si tratta di tutt’altro. Nella sua ontologia infatti «nome proprio dell’essere è il vuoto» ed è dunque proprio il vuoto, il vuoto tra il prima e il poi, il vuoto del sistema istituzionale o della struttura sociale, ciò che viene a crearsi con l’evento e che lascia tracce senza precedenti: tracce tutte da rielaborare a posteriori. Un modo di vedere le cose, questo, appunto oltre qualsiasi dialettica tra l’uno e il molteplice.

Tanto poi per menzionare le ricadute concrete di questi ragionamenti quanto mai astratti ho quindi fatto riferimento all’attualità e più in particolare alla pandemia in corso. A questo proposito ho fatto presente come sia forse in sintonia con Deleuze, ma certo in assoluta distonia con Badiou definirla come un evento. Così in effetti, ha fatto Rocco Ronchi[3] rispetto al quale mi è venuto da scrivere qualche riga polemica[4], sostenendo che l’attuale diffusione planetaria del virus Sars-Cov-2 è da considerare ben più un disastro[5](in particolare delle politiche sanitarie mondiali e nazionali) che un evento rivelatore di chissà cosa che più o meno non si sapesse già.

Dopo simili digressioni siamo venuti all’esempio offerto da Badiou di un evento politico e delle sue conseguenze soggettive. In Logiche dei mondi egli in effetti ricorre a un caso quanto mai classico, già insistentemente celebrato da tutta la tradizione marxista: la grande rivolta degli schiavi nella Roma del I secolo a.C. e con a capo il gladiatore Spartaco. Rivolta che di per sé non ha rappresentato una novità assoluta – tanto da essere catalogata come «terza guerra servile» –, ma che lo è diventata per le conseguenze che ha innescato, fino a scuotere alle fondamenta e per quasi due anni il già declinante assetto della repubblica romana poco prima della sua definitiva degenerazione in impero augusteo.


I tre tipi di soggettività

Ciò che muove la formidabile impresa di Spartaco e i suoi compagni è per Badiou un esempio di soggettività fedele, in quanto rielabora le motivazioni insorte nell’evento della prima ribellione. Accanto a questa soggettività se ne dà però un’altra, contraria, conservatrice, la quale cerca ogni occasione per svalutare le tracce dell’evento e minimizzarne le conseguenze; l’esempio qui sta nei tentativi da parte dei senatori romani di contenere l’esperienza politica che si organizza attorno a Spartaco, sminuendone la portata, senza neanche ascoltarne le richieste essenziali, ma tentando di cooptare e corrompere i meno decisi. Si deve poi notare anche la possibilità di un’ulteriore soggettività politica: quella più reazionaria, che consiste nel negare l’esistenza stessa dell’evento, per impegnarsi nel perseguitarne i seguaci e cancellarne le tracce in nome del ritorno di un mitico ordine originario; l’esempio qui sono le numerose e fallimentari campagne di annientamento degli schiavi ribelli, considerati come semplici delinquenti da sterminare per restituire a Roma il suo primigenio onore repubblicano, in realtà oramai in via di decomposizione.

Trattando di questi tre tipi di soggettività il seminario ha dunque toccato il cuore della questione relativa all’esperienza politica. Particolare attenzione è stata dedicata alla peculiarità del modo in cui Badiou inquadra la dimensione soggettiva: una dimensione da pensare senza rapporto con alcuna supposta oggettività o situazione di potere (di cui sarebbe «soggettivazione», ad esempio, nella terminologia di Foucault), ma resa possibile unicamente dalle tracce lasciate dal vuoto creato da un evento.


Corpi organizzati e modi di pensare la politica

Le ultime sedute del seminario sono state infine dedicate alla dimensione organizzativa e ai connessi modi di pensare la politica. I tre tipi di soggettività e di esperienza politica di cui si è detto, per Badiou non sono costituiti infatti solo da diversi tipi di percezioni, logiche e comportamenti: implicano anche diversi tipi di organizzazione fisica, materiale. Corpi politici dunque che, nel nostro esempio, sono le bande degli schiavi, il senato e l’esercito romano: corpi collettivi che compiendo ed elaborando le loro esperienze rendono possibili dei diversi modi di pensare la politica. Ritornando sempre al nostro esempio, se sono le bande di Spartaco a far esplodere col loro singolare modo di pensare le conseguenze politiche delle prime rivolte di schiavi, senato ed esercito romano, dal canto loro, rielaborano i loro abituali modi di pensare per far fronte a queste conseguenze.


Ecco dunque molto brevemente alcuni dei nodi problematici affrontati da questo seminario che salvo imprevisti dovrebbe riprendere in primavera. Per allora contiamo di mostrare la proficuità di questa batteria di concetti per analizzare l’epoca in corso. Anziché ricondurla a una variazione del solito tema, anziché inquadrarla come ulteriore fase del solito sistema capitalista più o meno tecnologicamente rinnovato, cercheremo di pensarla altrimenti: come posta in gioco di uno scontro tra due modi di pensare la politica, di cui uno si postula sia quello democratico-neoliberale e l’altro sovranista-populista (includendo anche come sua variante il nazional-comunismo cinese). Si dovrà allora stabilire di quali eventi sono reazione, quali ne sono le tipologie soggettive, quali i reali corpi organizzativi. Il tutto cercando di individuare poi quali sono i margini di esistenza e sperimentazione delle esperienze politiche militanti volte alla riduzione delle differenze globali oggi quanto mai in espansione.



Di Alain Badiou DeriveApprodi ha pubblicato L’idea di comunismo (con T. Negri et al., 2011), Che cos’è un popolo (con J. Rancière et al., 2014), L’avventura della filosofia francese. Dagli anni Sessanta (2013), Metafisica della felicità reale (2015).


Bibliografia essenziale di Badiou

La teoria del soggetto (1982), trad. it. F. Francescato, Asterios, Trieste 2017.

L’Être et l’Événement (1988), trad. it. G. Scibilia, Genova, Il Melangolo 1995.

Manifesto per la filosofia (1989), trad. it. F. Elefante, Feltrinelli, Milano 1991; Cronopio, Napoli 2008.

Le Nombre et les Nombres, Seuil, Paris 1990.

L'Éthique (1993, 2005), L’etica. Saggio sulla coscienza del male, trad. it. C. Pozzana, Pratiche, Parma 1994; Cronopio, Napoli 2006.

Deleuze. Il clamore dell’essere, trad. it. D. Tarizzo, Einaudi Torino 1997.

San Paolo. La fondazione dell’universalismo (1997), trad. it. F. Ferrari – A. Moscati, Cronopio, Napoli 2010.

Inestetica (1998), trad. it. L. Boni, Mimesis, Milano 2007.

D’un désastre obscur, Éditions de l’Aube, Avignon 1998.

L’antiphilosophie de Wittgenstein, Nous, Paris 2004.

Logiques des mondes. L’être et l’événement, Seuil, Paris 2006.

Secondo manifesto per la filosofia (2009), trad. it. L. Boni, Cronopio, Napoli 2010.

Finito e infinito (2010), trad. it. E. Pozzi, postfazione di P. Barbieri, BookTime, Milano 2011.

L'avventura della filosofia francese (2012), trad. it. L. Boni, DeriveApprodi, Roma 2013.

La Repubblica di Platone. Dialogo con un prologo, sedici capitoli e un epilogo, trad. it. M. Albertella, a cura di I. Bussoni – L. Boni, Ponte alle Grazie, Milano 2013.

Metafisica della felicità reale, trad. it. I. Bussoni, DeriveApprodi, Roma 2015.

L’immanence des vérités. L’être et l’évémenement, Fayard, Paris 2018.


Note [1] Un elenco che lo stesso Badiou ritiene discutibile, ma che, per dirla in due parole, risponde quanto meno all'esigenza ontologica di pensare le possibili esperienze come molteplicità disparata, fondamentalmente disunita, piuttosto che come espressioni di un’umanità concepita come unica totalità. [2] Così d’altra parte ci si dimenticherebbe di tutte le vittime e gli orrori costati alla costruzione del socialismo in un solo paese? Senza nulla togliere all’importanza di simili domande ho sconsigliato di dar loro priorità ricordando che ad esempio anche l’intera storia degli Stati Uniti ne uscirebbe irrimediabilmente condannata, dati tutti gli stermini di nativi americani e schiavi d’origine africana che l’hanno sistematicamente caratterizzata. [3] Le virtù del virus, «Doppiozero», 8 marzo 2020. [4] Il virus oscuro, 13 marzo 2020, disponibile all’indirizzo http://www.cronopio.it/edizioni/2020/03/il-virus-oscuro/. [5] Il «disastro» è in effetti un altro concetto proposto da Badiou (segnatamente nel titolo del suo scritto dedicato al crollo dell’Urss) e che costituisce in un certo senso il contrario dell’evento. Con ciò si deve infatti intendere un accadimento del tutto negativo che sopraggiunge quando ogni traccia innovativa dell’evento scompare. Caso che possa darsi quando l’esperienza politica militante si disperde e/o quando conservatori, opportunisti o reazionari vincono.

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