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Il museo come campo di battaglia

Intervista a Françoise Vergès



Banners at a town hall held at Cooper Union, New York, on January 26, 2019.
Striscione in occasione di un'assemblea cittadina tenutasi alla Cooper Union, New York, 26 gennaio 2019

Quali sono le lotte che oggi attraversano gli spazi dell’arte? Cosa significa decolonizzare le esposizioni e le istituzioni artistiche? Come «disordinare» il museo e il sistema-mondo che lo sostiene, basato sulla supremazia della ricchezza, del potere e dell’art-washing? Come possiamo resistere alla riproduzione delle tassonomie coloniali e all’egemonia delle strutture ideologico-culturali, produttive e soprattutto economico-finanziarie del mondo dell’arte? Françoise Vergès - saggista e militante femminista decoloniale e antirazzista, che sarà presto in Italia a presentare il suo ultimo libro, Il museo come campo di battaglia. Programma di disordine assoluto (GeoArchivi, Meltemi, 2025) – rispondendo alle domande di Duccio Scotini, solleva questioni di fondamentale importanza riguardo alla creazione di un «post-museo» che vada oltre i paradigmi e le epistemologie tradizionali, denunciando una modernità eurocentrica e imperialista intrisa di violenza.

La decolonizzazione è un programma di disordine assoluto che si propone di rovesciare l’ordine universale, così non può essere «il risultato di un’operazione magica, di una scossa naturale o di un’intesa amichevole» (Frantz Fanon). Non può limitarsi a una semplice revisione storica, né strutturarsi attraverso un processo pacificato. Finché resta confinata alle sfere intellettuali, dentro al recinto del potere, non rappresenta una minaccia, una messa in discussione radicale delle relazioni di dominazione. Come scrive Paul Gilroy nella prefazione al libro, la sfida di Vergès «ai codici e alle regole del capitalismo razziale deriva da una profonda comprensione del loro sviluppo dentro e oltre i confini sempre più fortificati dell’Europa. Il museo continua ancora a fornire la sua emblematica istituzione culturale a quel mondo malato».

 Françoise Vergès presenterà Il museo come campo di battaglia il 2 marzo alle 10 alla rassegna Testo di Firenze (Stazione Leopolda, Sala Ginzburg, con Nadeesha Uyangoda; introduce Marco Scotini) e il 3 marzo alle 17:30 alla Naba - Nuova Accademia di Belle Arti di Milano (con Duccio Scotini e Massimiliano Guareschi; introduce Marco Scotini).


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Duccio Scotini: Affermi che il museo è un campo di battaglia, attraversato da lotte sociali, ecologiste e anticoloniali. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita e alle azioni di numerosi collettivi in tutto il mondo. È avvenuta una politicizzazione piuttosto forte degli spazi museali, in particolare per contestare il ruolo delle fondazioni private, l’uso delle sovvenzioni come forma di controllo e le pratiche legate all’artwashing. Quando ho iniziato a tradurre il libro, era l’autunno del 2023: l’inizio della guerra coloniale e del massacro di Gaza. A fronte di tutto questo, che ruolo e che posizioni hanno preso i musei e le istituzioni culturali in relazione al genocidio e alle lotte anticoloniali?

 

Françoise Vergès: Ci sono diverse reazioni. Da una parte c’è stato un movimento contro la guerra coloniale che, come nel caso degli Stati Uniti, è sfociato anche nell’occupazione di musei, come il Brooklyn Museum, perché nei consigli di amministrazione ci sono persone che sostengono la politica sionista dello stato di Israele oppure perché tra i finanziatori ci sono anche persone legate all’industria delle armi. Tutto ciò ha iniziato a essere denunciato pubblicamente e sempre più contestato. Ma sulla questione della Palestina, non dobbiamo dimenticare che poco dopo il 7 ottobre, i direttori di tutti i musei israeliani hanno scritto una lettera aperta al Consiglio Internazionale dei Musei, che fa parte dell’Unesco, in cui si esortava l’Icom a condannare Hamas, poiché era un’organizzazione terroristica che uccideva bambini, donne e uomini, e che minacciava anche la libertà di espressione e le arti che lo stato di Israele, una «democrazia liberale», sosteneva. Inoltre, la lettera riconfermava l’adesione dello stato di Israele alla definizione di museo dell’Unesco, come luogo di educazione universale, secondo la definizione più recente. L’Icom non ha risposto immediatamente. Nel novembre 2023, il Ministero della Cultura palestinese ha mostrato che tanto i musei che i siti storici e archeologici di Gaza erano stati distrutti dai bombardamenti israeliani e che molti artisti erano stati uccisi. La risposta dell’Icom, alla fine, era estremamente astratta e generica: condannava ogni forma di violenza e invocava un’idea di pace senza prendere assolutamente posizione. Eppure, nel febbraio 2024, il Ministero della Cultura palestinese ha reso pubblico che nella Striscia di Gaza c’erano almeno 307 siti storici e archeologici, a dimostrazione dell’importanza della cultura in questo piccolo territorio. A quella data più di 200 siti erano stati integralmente distrutti o danneggiati. Tra questi ci sono moschee dell’XI secolo, chiese del V secolo, l’antichissimo porto di Gaza, cose assolutamente straordinarie. Un magazzino contenente 4.000 reperti archeologici è stato occupato dall’esercito israeliano e ora è divenuto un deposito di armi. Non si sa che fine abbiano fatto gli oggetti e i reperti che vi erano conservati. Quindi la distruzione, le decine di migliaia di morti, i bombardamenti e l’annientamento dell’ambiente sociale è accompagnato anche dalla cancellazione dei siti culturali e archeologici. Si tratta della volontà di eliminare la presenza palestinese in questa parte del mondo. Una politica che lo stato di Israele aveva già iniziato nel 1948 cancellando i nomi di città e villaggi così come, nel corso del tempo, tentando di eliminare le loro tracce. Nel resto della Palestina storica e in Cisgiordania molti siti archeologici sono lasciati all’abbandono, a meno che non servano allo stato di Israele per dimostrare una presenza ebraica dalla notte dei tempi. Quindi c’è una politica davvero attiva da parte dell’occupazione contro i musei e la cultura palestinese. Tutto ciò testimonia, ancora una volta, di quello che viene chiamato il doppio standard, cioè quali musei contano e quali possono essere distrutti? Nel 2024 risulta evidente: per l’Ucraina, subito dopo l’invasione russa, l’Icom ha proposto di proteggere i musei e gli altri siti, in altre parole di digitalizzare le loro collezioni e di trasferire le opere e conservarle altrove, lontano dalle zone di guerra, dalla distruzione causata dai bombardamenti e dall’invasione militare. Quindi si vedeva anche la differenza nell’urgenza con cui sono state prese e applicate tali misure. Si potrebbe replicare: «Ma lo stato di Israele non permette a nessuno di entrare nella Striscia di Gaza». Allora si dovrebbero, però, anche sentire le proteste delle istituzioni, dovrebbero esserci delle tribune sulle prime pagine dei giornali e prese di posizione dei direttori di musei occidentali che dicono: «Non è possibile, stiamo assistendo alla cancellazione di un patrimonio - quello che chiamiamo patrimonio storico e archeologico - che sta letteralmente scomparendo». Ma nulla è stato detto. Per la politica coloniale israeliana l’archeologia è sempre stata un vero e proprio terreno di scontro e la distruzione del patrimonio culturale così come l’assassinio e l’arresto di artisti palestinesi dimostrano che in realtà il museo è ancora una volta al centro della politica imperialista e coloniale. Ciò che chiamiamo museo è qualsiasi spazio che conserva e protegge. Per noi, antimperialisti e anticapitalisti, il museo in un luogo come la Palestina pone la questione di che cosa vogliamo conservare, di come conservarlo e come trasmetterlo. Per prima cosa c’è la politica imperialista della cancellazione e del saccheggio. Per esempio, ciò che è avvenuto con l’invasione dell’Iraq - il saccheggio del grande museo di Baghdad - e con quella dell’Afghanistan, il cui patrimonio è entrato in gran parte nei traffici illegali -; non sappiamo nemmeno dove siano finite le cose e quale sia stato il ruolo dei collezionisti privati. Pochissimi di questi oggetti finiscono nelle istituzioni pubbliche, dal momento che potrebbero essere identificati. Mentre per quanto riguarda i collezionisti privati, nessuno di noi può accedere alle loro collezioni senza la loro autorizzazione. Da questo punto di vista il ruolo del collezionista privato è sempre più importante nel traffico e nella privatizzazione di oggetti sottratti e saccheggiati in contesti di guerra. Ciò che sta accadendo a Gaza riapre nuove questioni rispetto a quelle già sollevate in precedenza, che riguardavano essenzialmente la restituzione e un cambiamento del discorso all’interno del museo, ecc.

In secondo luogo, per me il museo è un’istituzione sociale, globale e totale. Quando parliamo di musei in Occidente, non mi interessa solo quello che c’è sulle pareti, ma quanto viene pagata la donna delle pulizie. Lei ha il diritto di sindacalizzarsi? Quanto vengono pagati gli agenti di sicurezza? Come vengono reclutati? Che formazione hanno le persone che vengono assunte? Che tipo di istruzione hanno? Provengono da formazioni principalmente eurocentriche? Questo è il punto: giustizia sociale, giustizia razziale e giustizia di genere nell’istituzione così com’è. Ma il museo non può essere salvato. Il museo occidentale, universale, è qualcosa che risale al XIX secolo e non è ciò che vogliamo costruire. Continua a esserci la questione del saccheggio. Lo vediamo a Gaza e l’abbiamo visto anche in Iraq, Siria, Afghanistan, Cambogia e in Laos. Quindi c’è un nuovo mercato, un enorme traffico legato alla guerra, che genera speculazioni.

La terza questione riguarda il tipo di istituzione che vogliamo costruire. Nel libro non ho affrontato sufficientemente il sentimento di salvaguardia, presente nelle comunità, nei gruppi e nei popoli autoctoni, suscitato dal fatto che quella che chiamiamo la loro cultura sta svanendo. Ma dove e come salvarla? Qual è la forma di questa conservazione? Che cos’è ciò che chiamiamo conservazione? A queste domande, diventate ormai urgenti, la risposta più automatica è quella di costruire un museo sul modello europeo, perché è l’Europa stessa ad averlo inventato. Ma stanno emergendo pratiche differenti e proposte sempre più interessanti. La questione della conservazione, che non ho trattato molto nel mio libro, è oggi un tema estremamente importante. Ma quando parlo di conservazione mi riferisco a una pratica da mettere in discussione e reinventare. La conservazione come viene attuata oggi nei musei è molto tossica. Si devono usare sostanze, insetticidi, pesticidi e cose del genere, per conservare. Possiamo avere una conservazione non tossica? Cosa significa conservare? Perché? Prelevare e separare dal loro ambiente degli oggetti significa conservare?

Come abbiamo visto, Gaza ci riporta con forza a ciò che abbiamo conosciuto e che è continuato nel XX e XXI secolo, ma che ora è qui, totalmente visibile, ovvero la distruzione e il saccheggio. Non sappiamo cosa sia successo agli oggetti che si trovavano nei musei di Gaza. Sono sotto le macerie? Sono stati presi, rubati e portati via? La situazione è la stessa che c’era sotto il dominio coloniale? In altre parole, ci sono soldati che li hanno portati a casa. È quello che succedeva durante le conquiste coloniali, quando gli oggetti portati dalle guerre finivano nelle case dei colonizzatori.

 

DS: Negli ultimi anni abbiamo assistito a un ritorno e a un rafforzamento della censura nel mondo della cultura, delle università e anche in quello delle biennali e dei musei. C’è stato un cambiamento nella gestione del dissenso e delle voci non conformi all’interno delle macchine espositive rispetto a una decina di anni fa. In altre parole, siamo passati da un modello che incorporava la cosiddetta arte politica, e in una certa misura anche i discorsi decoloniali e antirazzisti, dentro certe istituzioni culturali occidentali a un contesto segnato dalla loro criminalizzazione e dal loro silenziamento. Come sostieni, la censura non si manifesta in maniera necessariamente diretta ma anche in una forma di pacificazione. Volevo quindi chiederti se sei stata soggetta a censura negli ultimi anni. Hai avuto problemi per la tua attività di intellettuale decoloniale, femminista e anticapitalista?

 

FV: Sì, ultimamente sono stati annullati alcuni dibattiti e incontri che avevo organizzato. Devo dire però che non vengo mai invitata dalle istituzioni francesi. Per esse non esisto. Anche se si tratta di istituzioni considerate progressiste. È una forma di censura indiretta. Si sa quanto sia importante essere citate ed essere invitate nell’ambito della ricerca e nel mondo intellettuale. Le sollecitazioni e i miei spazi di espressione, in Francia, sono essenzialmente militanti. In altri paesi invece sono chiamata anche da istituzioni. In rari casi sono potuta intervenire, ma ciò ha sempre creato dei problemi e delle resistenze. Un recente caso di censura è stato il divieto, da parte del comune di Parigi, di un incontro pubblico con Judith Butler. All’inizio del 2023, con un gruppo di intellettuali, artisti e attivisti decoloniali, femministi e antirazzisti, volevamo intervenire contro la strumentalizzazione dell’antisemitismo e del femminismo da parte della destra, dell’estrema destra e di alcuni esponenti della sinistra istituzionale. Avevamo pensato di invitare Judith Butler per il suo importante lavoro sulla questione e per il suo attivismo all’interno dell’organizzazione nordamericana Jewish Voice for Peace. In seguito al 7 ottobre questo incontro era diventato ancora più urgente. La cancellazione dell’incontro, previsto nel dicembre 2023, era evidentemente legata al contesto di censura e repressione nei confronti di ogni espressione di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. Ciò che mi interessa sottolineare è la strumentalizzazione dell’antisemitismo nel mondo dell’arte e della cultura. Non si tratta di un nuovo fenomeno, esiste da molto tempo ed è stato anche una risposta alla diffusione del movimento di boicottaggio culturale nei confronti delle politiche coloniali dello stato di Israele. Dobbiamo ovviamente ricordare il caso di Documenta nel 2022, quando Ruangrupa, il collettivo incaricato della curatela della quindicesima edizione della maggiore esposizione d’arte contemporanea che si svolge ogni cinque anni a Kassel, in Germania, finì sotto inchiesta disciplinare a causa delle accuse di antisemitismo. In particolare, fu accusata l’opera People’s Justice del collettivo artistico indonesiano Taring Padi, che venne rimossa pochi giorni dopo l’apertura. L’immagine incriminata, all’interno della grande installazione, era la raffigurazione di un militare con un elmetto che portava le sigle del Mossad e la stella di David. La rappresentazione, considerata antisemita, venne immediatamente condannata dal ministro della cultura e dal governo tedesco. Ci sono diversi punti da considerare. Il primo è che l’immagine, per i suoi autori, richiamava il colpo di stato anticomunista del 1965 in Indonesia. Per molti storici i paramilitari che fecero il colpo di stato e i massacri conosciuti come genocidio indonesiano, erano stati sostenuti dalla CIA e dal Mossad. Ovviamente sia questa storia che l’implicazione dei servizi segreti occidentali e israeliani erano state completamente ignorate dal dibattito. Tutto ciò testimoniava l’eurocentrismo del governo e delle istituzioni tedesche. In secondo luogo, la stessa Documenta è radicata nella storia della Guerra fredda, rientrava nelle strategie contro il mondo comunista. Così l’arte era diventata il cuore della battaglia ideologica. Da un lato, c’era l’arte astratta, considerata come una vera libertà di espressione e come fatto universale contro l’arte del realismo socialista. Dal dopoguerra, la battaglia intorno all’arte e alla libertà di espressione è stata estremamente importante. D’altra parte, tutta l’Europa occidentale e gli Stati Uniti furono coinvolti nella censura degli artisti che sostenevano la lotta algerina, o quella contro le dittature militari in Sud America, contro la dittatura dei colonnelli in Grecia o contro il regime franchista in Spagna. Si tratta quindi di una lunga storia. Per me, quello che sta accadendo in questo momento con la strumentalizzazione dell’antisemitismo riecheggia l’epoca della Guerra fredda, dal momento che la censura è sempre stata utilizzata in paesi come la Russia, la Cina e gli Stati Uniti. Ma ora lo stesso fenomeno sta accadendo negli Stati Uniti, in Inghilterra, Germania, Francia e Olanda e in altri paesi attraverso l’accusa di antisemitismo, mentre all’epoca veniva utilizzata quella di comunismo e di anticolonialismo. Quindi Documenta ha riportato alla luce questo aspetto, che, dopo l’invasione e il bombardamento di Gaza, è ampiamente utilizzato da molti governi e istituzioni private: censure, revoche e licenziamenti, cancellazioni di mostre, ritiro delle sovvenzioni e delle commissioni. Come nel caso della mostra Passé Inquiet: Musées, Exil et Solidarité curata da Kristine Khouri e Rasha Salti al Palais de Tokyo, per cui la principale donor del museo aveva ritirato le sovvenzioni. La censura, del resto, è sempre legata a una questione economica, al ruolo dei miliardari e delle fondazioni private nelle istituzioni pubbliche. Oggi, sempre più spesso, le istituzioni pubbliche devono ricorrere a mecenati privati, che possono dire «no, ma non sono d’accordo» o addirittura imporre le proprie mostre o mettere veti, perché hanno risorse enormi. Quindi la censura fa anche parte di un’economia politica. Insisto sempre di più su questo aspetto: non c’è in gioco solo l’espressione dell’artista.

 

 

DS: Il filo rosso del libro e, più in generale, della traiettoria che proponi è la frase di Fanon secondo cui «la decolonizzazione […] è un programma di disordine assoluto». Da vari anni la nozione di «decolonizzazione» è ritornata a far parte di un vocabolario comune e globale. Se da una parte si è imposta nella storia contemporanea, a causa della persistenza di vecchi colonialismi e all’inasprimento della violenza imperialista, dall’altra ha avuto una circolazione in ambiti accademici e culturali che spesso, come è stato sostenuto, l’hanno svuotata dal suo contenuto politico, rendendola una metafora. Come evitare tali operazioni di recupero? Quali sono le discontinuità tra le lotte anticoloniali degli anni Cinquanta-Settanta e quelle di oggi?

 

FV: Se da una parte il titolo del libro è «decolonizzare il museo», dall’altra affermo che la decolonizzazione del museo universale occidentale è impossibile. Ripeto, sono a favore di tutte le lotte per la giustizia sociale, la giustizia razziale e la giustizia di genere all’interno di tale istituzione. C’è razzismo, c’è violenza di genere e violenza di classe. Dobbiamo lottare contro queste forme di oppressione e, nello stesso tempo, lottare per le restituzioni. Tutto ciò però non significa decolonizzare il museo. Si tratta di giustizia. Innanzitutto, il museo non può essere decolonizzato se non lo è la società che lo circonda. È difficile capire come un’istituzione possa essere decolonizzata. C’è molta confusione tra il mettere in discussione l’epistemologia che sta alla base del museo, mostrandola, e decolonizzare una struttura. Cambiare i discorsi che informano l’istituzione museale e «diversificare» le esposizioni non significa decolonizzarla. Si tratta di giustizia e di lavoro necessario al riconoscimento della storia coloniale e di quella della modernità. Ci sono voluti molti anni. Ma decolonizzare significa avere a che fare con un mondo radicalmente diverso da questo in cui stiamo vivendo, diverso da quello della distruzione, dell’espropriazione e dell’estrattivismo. Il libro si sarebbe anche potuto chiamare «l’impossibile decolonizzazione del museo». Ma, in ogni caso, non ha importanza. Per me si tratta assolutamente di una decolonizzazione, che comporta la scomparsa di questo modello. Quali sarebbero dunque i principi di un nuovo modello? E poi, questi principi potrebbero essere applicati, nello stesso modo, a Lima, a Città del Capo, a Limoges o a Napoli? Questo è un punto di discussione. Personalmente, penso che uno dei principi di ciò che continuo a chiamare post-museo, riguarda l’economia. È la questione di un’economia autonoma, in rottura con quella capitalistica e razziale. Il che significa che il mondo sarà cambiato. E, anche in questo caso, significherebbe inventare cose che non siano ovviamente sotto il potere dello stato.

La seconda cosa è che la decolonizzazione, tra gli anni Cinquanta e Settanta, è stata davvero la fine dello status coloniale, della presenza coloniale nei paesi del Sud globale e quella della dipendenza da una metropoli occidentale. Algeria, Camerun, Angola, Vietnam, Laos… si è trattato di restituire una sovranità e costruire uno stato-nazione. Sono stati innumerevoli i tentativi per sfuggire all’imperialismo e ridisegnare l’asse Nord-Sud. Tutti questi progetti, in particolare derivati dalla conferenza di Bandung e dalla creazione della Tricontinentale, sono stati costantemente ostacolati: da colpi di stato, da invasioni militari e da piani economici imperialisti, ma anche internamente. Cabral, Fanon, Nkrumah e altri avevano compreso il ruolo di quella che chiamavano la borghesia nazionale e dei governi corrotti, che reinventano la tradizione, i costumi e che, ancora oggi, recuperano e adottano una retorica spesso antioccidentale e anticoloniale. Lo vediamo in India con il fascista Modi o anche in Turchia con Erdogan… C’è il movimento «anticoloniale» del governo e poi c’è il movimento di decolonizzazione in corso. Si tratta di governi che sono sempre stati disprezzati e guardati dall’alto dall’Occidente e che ora si stanno vendicando. Si assiste quindi a quella che chiamiamo la multipolarità del mondo. È interessante da studiare perché stanno emergendo cose nuove. Stati che erano essenzialmente clienti degli Stati Uniti, che servivano solo come base militare ed economica, vogliono esistere ed essere partner. Ma l’uso del termine «anticoloniale» - addirittura con il recupero degli eroi della lotta anticoloniale da parte di governi dittatoriali - accompagna l’assestamento di un nuovo ordinamento mondiale. Stanno emergendo nuove forze, con l’Occidente che sta perdendo il suo potere egemonico. La decolonizzazione per cui mi schiero però è inseparabile dall’anticapitalismo. Il capitalismo razziale è il nostro nemico. Per me questa decolonizzazione è, di fatto, una reinvenzione del mondo, in grado di liberarci di quei principi che, dall’avvento della modernità, l’hanno definito: l’estrattivismo, l’espropriazione e lo sfruttamento. Quindi, che si parli della Kanaky o della Palestina, la questione della terra e dell’acqua sono concetti totalmente rivoluzionari. Proprio perché si stanno ponendo in tutto il pianeta, non solo rimettono radicalmente in discussione la ridistribuzione e la ripartizione delle ricchezze, ma rivendicano l’accesso ai bisogni vitali. Senza la terra e l’acqua non c’è vita. E credo che qui ci sia un ritorno a una teoria che era molto radicale e presente nella rivoluzione messicana, nella rivoluzione bolscevica, algerina o vietnamita nella loro fase iniziale. Quindi, come possiamo ri-politicizzare questi temi?

 

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Françoise Vergès, femminista antirazzista, presidente dell’associazione «Décoloniser les Artsè», è autrice di diverse libri e articoli sulla schiavitù coloniale, il femminismo, la riparazione, il museo. In italiano sono stati tradotti: Un femminismo decoloniale (ombre corte, 2020), Una teoria femminista della violenza (ombre corte, 2021) e Il museo come campo di battaglia (Meltemi, 2025).


Duccio Scotini, ricercatore, ha curato l'edizione italiana de Il museo come campo di battaglia (Meltemi, 2025).

 

 


 

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