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La militanza, un dolore da non curare mai




Condividiamo questo contributo in risposta all’articolo di Silvia Federici «Sulla militanza gioiosa» (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/sulla-militanza-gioiosa), originariamente pubblicato sul sito di Lab AQ16.


L’articolo di Silvia Federici è interessante anche se non del tutto condivisibile. Interessante perché indaga sulla soggettività militante, ruolo mai tramontato, anzi mai come ora da studiare nei processi organizzativi di base. Questo intervento parte da un osservatorio di una struttura ibrida sociale/politica fortemente radicato nel territorio della città di Reggio Emilia attraverso tre spazi sociali e una storia ventennale. Uno spazio politico originale ma per certi aspetti generali comune a tante realtà disseminate nei contesti urbani italiani.

Struttura che dopo la contrazione dello spazio dei movimenti anticapitalisti italiani, prova a ragionare su spazi di dibattito e d’azione che dai microcosmi territoriali tornino ad essere determinanti per cambiare lo stato esistente delle cose.

Per prima cosa dobbiamo definire cosa intendiamo per militanza, senza una comune definizione rischiamo di fare confusione. Il vocabolario per esempio dice che militanza è «l'impegno e la partecipazione attiva da parte di un iscritto nei confronti delle direttive e delle vicende di un organismo politico o sindacale o (anal.) da parte di un individuo nei confronti di un movimento culturale, artistico, religioso, ecc.»

Non tutte le figure che animano una comunità fondata su spazi sociali sono militanti, lo sono coloro che hanno ruoli attivi dentro il piano organizzativo e hanno contezza della complessità degli obiettivi e delle dinamiche decisionali. I meccanismi che determinano la riproduzione degli spazi e dell’azione politica sono garantiti da militanti, ovvero figure che agiscono dentro un meccanismo condiviso di suddivisione di ruoli e responsabilità. Nella nostra realtà esistono vari livelli di frequentazione, dalla militanza classica al volontario ed infine l’utente. Figure, queste ultime, a cui dovrebbe essere chiaro il contesto in cui spendono ore di vita o svolgono il proprio volontariato ma alle quali la condivisione profonda del progetto generale non risulta prioritario perché mosse da interessi parziali.


Nel testo della Federici manca il nodo relazionale tra militanti e non militanti, solco in cui si può generare tensione e fraintendimento per l’interpretazione di un progetto e per un reciproco riconoscimento. Questo piano di discussione lo abbiamo affrontato spesso perché senza la figura militante non esiste un tetto dove sviluppare approcci leggeri e senza volontari ed utenti di progetti sociali il militante non ha una base a cui proporre visioni ed avanzamenti politici. Nella storia dei centri sociali l’autogestione è stata da sempre una caratteristica con cui qualificarsi diversi da percorsi storici partitici e centralisti. Con il principio dell’autogestione, a livello ideologico, è sempre stato risolto il nesso tra i vari piani di attivazione personale all’interno di un corpo collettivo politicizzato.

Una soluzione molto approssimativa che è ora di rielaborare.

Il principio storico dell’autogestione di un centro sociale vorrebbe che tutti fossimo allo stesso momento utenti, gestori e promotori. La realtà invece insegna che una minoranza di militanti crea e mantiene attraverso l’impegno quotidiano ed il sacrificio un piano organizzativo/politico dove una maggioranza, a discrezione del tempo/voglia/interesse può decidere o meno di partecipare. Questo dibattito sulla militanza andrebbe condiviso in primis tra chi è militante, altrimenti rischia di tramutarsi in polpetta avvelenata. Se tutti sono militanti, anche chi finanzia il progetto semplicemente «bevendo uno spritz», si banalizza il dibattito.

Chi attraversa senza impegno fisso i vari ambiti, decidendo di volta in volta se e dove dedicare qualche ora del suo tempo, con la possibilità di ritirarsi in qualsiasi momento senza dover neppure dare particolari feedback direi che su di lui/lei non gravano né oneri né sofferenze di sorta. Questa figura è gioiosa per forza, potendo scegliere quali frutti cogliere gratis dall’orto. È una figura con cui finanziare le attività e costruire società, una figura importante che riempie le iniziative, una figura però con poco peso intellettivo, una figura sfumata. Questa figura non per forza ritiene utile capire il funzionamento dell’organizzazione a cui si approccia.

A questa figura, non è rivolto questo dibattito.


L’approccio costruttivo della militanza invece è condivisibile con la Federici, anche sul tarare bene lo sforzo e la sfida in base alle proprie forze per avere più fiato per le relazioni sembra un buon consiglio, utile non solo in questi ambiti ma in generale nella vita di tutti noi.

Come spazi sociali, da sempre, si predilige maggiormente la costruzione di presente che la costruzione di una politica che miri ad una temporalmente lontana resa di conti rivoluzionaria. Creare società, in primis per noi, slegata dalla cattura e mercificazione capitalista è sempre stata nelle corde. Un’attitudine nel creare società spesso anche a scapito di sintesi e azione politica. A volte su questo piano si esagera pure, investendo troppe generose energie senza chiedersi quali siano gli obiettivi di fondo.

Silvia Federici è invece abbastanza semplicistica quando descrive che la militanza gioiosa è una scelta sempre praticabile. No, questo per esperienza non è sempre praticabile. A volte, in certi frangenti, in certi periodi, alcune persone non sono sostituibili. Pena la non sopravvivenza di un ambito (un’azione politica, uno spazio organizzativo...).

Se narriamo che esiste sempre una possibilità felice, basta volerlo, creiamo false aspettative per quelli che si avvicinano alla militanza. Su alcuni militanti chiave si concentrano talvolta grandi responsabilità e piani decisionali non sempre facilmente condivisibili o comprensibili. Viversi questi ruoli può essere molto gravoso e non gratificante nell’immediato ma allo stesso tempo senza questi sforzi il meccanismo organizzativo si ferma. Queste figure non hanno scelta, da loro dipende la buona riuscita dell’azione politica. Se per militanza gioiosa intendiamo rapportare lo sforzo con la tendenza spontanea personale alla felicità si rischia una deresponsabilizzazione, perché rappresenta lo sdoganamento dell’inaffidabilità, perché nel concreto si tramuterebbe in prendere impegni e non mantenerli. L’inaffidabilità verso gli impegni presi, vera piaga endemica dei contesti ibridi sociali/politici, riproduce una visione di società alternativa debole.


Se reputiamo importante rispettare gli orari e l’impegno solo in un contesto lavorativo retribuito, pena sanzioni o il licenziamento, confermiamo lo schema gerarchico capitalista in cui si confermano gerarchie, obbedienza e padroni. Noi invece dobbiamo generare una cultura della responsabilità anche al di fuori dello schema lavorativo salariato. In generale si potrebbe migliorare molto la militanza e rendere la sofferenza minima, oltre che mantenendo gli impegni, prendendosi impegni personali e collettivi alla portata. Ma in fin dei conti una certa dose di sacrificio e sofferenza è necessaria. La militanza è un dolore che non vale la pena di curarsi mai.

C’è un grosso rischio nel teorizzare un’organizzazione che non richieda sforzo e sacrificio, perché allude al modello «isola felice». L’isola felice è un abbaglio, una bolla, soprattutto se è costruita con una maggioranza di persone ignare del funzionamento e del carico generale e una minoranza di militanti formichine che impercettibili rimuovono ogni fonte di stress per la maggioranza senza farlo mai pesare perché sennò si creano relazioni viziate da sensi di colpa e rancori.

Un’isola felice può funzionare solamente se vengono riconosciuti i ruoli e si dà forza e fiducia alle formichine. Altrimenti le formichine prima o poi si sentono sfiduciate o più semplicemente se ne vanno perché spossate, facendo decadere l’isola, infrangendo il sogno. Il sogno di isola felice ha bisogno di guardiani, o quote associative monetarie che la trasformano in luoghi elitari.

Ma noi non siamo un’isola felice e non abbiamo bisogno di guardiani, siamo un’organizzazione politica con una base sociale che l’alimenta e che ambisce a trasformare non solo il contesto locale ma il mondo.

Perché l’organizzazione produca militanza gioiosa, cioè persone che crescono in armonia relazionale tra loro e con se stesse, dovrà allargare la base dei militanti, creando un forte piano di condivisione teorica e pratica.

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