La scrittura politica di Ubah Cristina Ali Farah
Un’intervista con la scrittrice somalo-italiana Ubah Cristina Ali Farah, in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo Le stazioni della luna. Un contributo che si aggiunge alla riflessione sull'Italia coloniale e postcoloniale, già affrontata, su queste pagine, dagli interventi di Wu Ming 2 e Miguel Mellino.
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L’ultimo romanzo di Ubah Cristina Ali Farah, Le stazioni della luna (66thand2nd, 2021) intreccia il vissuto di due donne tra loro molto diverse (per età, lingua, nascita) con la storia della Somalia tra il periodo coloniale e gli anni Cinquanta dell'Amministrazione fiduciaria italiana. È uno spaccato, storico e soggettivo, del colonialismo «di ritorno» che segue l’indipendenza somala, una pagina della storia di questo paese di cui si è scritto ancora troppo poco. Per questo, il romanzo è un altro, importante, tassello della crescente produzione storico-letteraria sul colonialismo italiano, che sta portando allo scoperto una storia a lungo omessa dal dibattito storico e politico e finanche dal modo in cui si racconta e si insegna la storia di questo paese. La scrittura di Ali Farah ha largamente contribuito alla costruzione di questa memoria negletta, il suo primo romanzo, Madre piccola (Frassinelli) è del 2007. Oggi, a distanza di 15 anni molte cose sono cambiate rispetto al modo in cui in Italia si discute di storia coloniale e colonialità, e da qui ha preso il via questa conversazione.
Il contesto storico, intellettuale e del dibattito politico, in cui è uscito Le stazioni della luna, non è più quello di quando hai pubblicato Madre piccola. In quegli anni la narrativa afrodiscendente in Italia era ancora agli esordi, la storia coloniale cominciava timidamente a fare capolino tra gli studiosi più attenti, soprattutto nella scia dei grandi processi migratori che iniziavano a interessare il paese, e la parola razza, con il suo portato di gerarchie e violenza, era ancora largamente un tabù. Esiste oggi, invece, un più spiccato interesse per la questione coloniale e una nuova sensibilità nel discuterla. Per certi versi, la storia del colonialismo è diventata un must del dibattito politico oggi in Italia. Si moltiplicano gli studi e le pubblicazioni, i momenti di approfondimento e le discussione escono dalle nicchie intellettuali per raggiungere il grande pubblico e la stampa mainstream. Questo, non vuol dire però che la questioni sia stata risolta e che il «rimosso coloniale» sia qualcosa del passato, al contrario si aprono oggi nuove contraddizioni che sollecitano nuove sfide e richiedono di ricalibrare le nostra riflessione, tutte cose che vorrei discutere con te. Ma, per iniziare, mi interessa conoscere qual è stata la tua esperienza, nell’arco dei 15 anni che separano il tuo primo romanzo da quest’ultimo, rispetto alla comprensione, nelle società italiana, di colonialità e razzismo coloniale; la tua esperienza come donna, come scrittrice, come somalo-italiana che abita adesso in Belgio e che, come mi dicevi, vive la cosa come un secondo esilio…
Quando sono arrivata in Italia, subito dopo la guerra nel 1991, avevo vent’anni. È stato per me scioccante scoprire che nessuno conosceva la storia coloniale italiana in Somalia.
Io sono il frutto di questa storia. Sono nata a Verona da madre italiana e padre Somalo. Mio padre, come moltissimi altri studenti della sua generazione, era arrivato in Italia negli anni Settanta con una borsa di studio; in quegli anni l’A.F.I.S (Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia) aveva investito molto nella formazioni. A Verona aveva incontrato mia madre anche lei studentessa, che dell’Africa non sapeva nulla, e io sono nata poco dopo. La generazione di mio padre era una generazione molto militante, erano in Italia per studiare ma era in Somalia che volevano vivere. Così, al termine degli studi è tornato in Somalia e io e mia madre lo abbiamo raggiunto poco dopo.
Nei mie dati biografici c’è dunque la nascita a Verona ma sono poi cresciuta a Mogadiscio, con la mamma italiana, fino all’età di diciotto anni. Ho studiato nelle scuole italiane, nonostante per la Somalia indipendente fosse prioritario il progetto della diffusione della lingua somala attraverso il sistema di istruzione. Il somalo, infatti, si parla in un territorio molto ampio - cosa abbastanza straordinaria in Africa - che era stato diviso tra le varie potenze coloniali, le quali avevano introdotto la lingua dei colonizzatori per la gestione delle amministrazioni. Il progetto di usare e diffondere il somalo, aveva quindi un aspetto pragmatico, alludeva a un pansomalismo che puntava a riunire i territori, e che entrò anche in collisione con il panafricanismo di quegli anni, poiché alcuni dei territori in cui si parla il somalo facevano parte del Kenia e dell’Etiopia che non avevano alcuna intenzione di riconoscerli alla Somalia.
Per il modo in cui sono cresciuta a Mogadiscio, credo di essere stata estremamente privilegiata. La Somalia, come molti altri paesi in Africa, è un paese molto patriarcale. Per un uomo della generazione di mio padre, cresciuta con i grandi ideali dell’indipendenza, poteva essere fonte di imbarazzo sociale ritornare con una moglie bianca e una figlia che in Somalia avrebbero definito «missione», ma lui è stato sempre molto orgoglioso di me e di mia madre. «Missione», termine presente in Madre piccola, è utilizzato dai somali per indicare i «mescolati», quelli con un genitore somale e uno italiano. Spesso orfani o non riconosciuti dai padri e per questo affidati ai missionari; bastardi, che per un somalo è il peggiore degli oltraggi. Perciò, quando ho chiesto a mio padre il significato di questa parola, lui si è molto alterato. Per lui questo termine, che mantiene il significato intrinseco di figlio illegittimo, era un’aberrazione. Sin da quando ero piccola ho parlato molto con lui del come dovessi definirmi: mi diceva che ero somala di madre italiana e ciò mi aveva dato un’ampia consapevolezza del portato coloniale nella mia vita.
Per tutto questo, quando sono arrivata in Italia, pensavo che fosse la mia seconda patria. Non avevo idea del rifiuto che avrebbe accolto me e tutti i somali che istintivamente avevano cercato riparo in Italia. Qui, invece, non abbiamo trovato né accoglienza né alcun tipo di spazio, neanche quelli che, come mio padre, avevano studiato in Italia e conoscevano il paese. Questo è stato vissuto come un grande tradimento. I moltissimi somali che sono arrivati in Italia dopo il 1991, hanno vissuto un doppio lutto, la contemporanea perdita del proprio paese e di quello che avevano immaginato come approdo. Senza parlare delle responsabilità dell’Italia nella situazione politica della Somalia. Non ci scordiamo che Siad Barre ha studiato all’accademia militare di Modena e che nel 1985, quando ero in Somali, Craxi è venuto a Mogadiscio per incontrarlo.
Intermezzo: Craxi accolto da re nella Somalia di Barre («Repubblica». 21.09.1985)
MOGADISCIO - «Nooloow», evviva. Evviva Siad Barre e Bettino Craxi, evviva l'Italia e la Somalia finalmente affiancate per le vie di Mogadiscio. È la prima visita ufficiale di un capo di governo italiano e l'accoglienza della capitale somala nel primo pomeriggio di ieri è stata all'altezza dell'avvenimento. Diciannove colpi di cannone (ma forse qualcuno s'è inceppato, perché a contarli sembravano di meno), inni, fanfare, archi trionfali di ghirlande agitate da bambini che hanno provveduto poi a lanciare petali di fiori. Tutto questo ha trovato Craxi quando alle 15,30 locali (le 14,30 italiane) è sceso dal lucente bireattore «Gulfstream», col quale sta compiendo il viaggio. Ai piedi della scaletta c'era con i suoi occhiali scuri l'anziano Mohamed Siad Barre, che dal colpo di Stato dell'ottobre 1969 è a capo del regime militare somalo. La presenza di Siad Barre era prevista; la vera sorpresa aspettava invece Craxi lungo il percorso che dall’aeroporto va a villa Somalia, la residenza presidenziale dove ieri sera c'è stato il primo colloquio di un'ora e mezzo. Col favore del giorno festivo musulmano due ali di folla si sono assiepate ai lati della strada. C'erano migliaia di persone e l'effetto è stato assicurato. C'erano scolaresche vestite dei colori nazionali bianco e azzurro, madri e bambini variopinti che si proteggevano dal sole con gli ombrelli; maestranze della «Somalfruit» in tuta blu e giovani pionieri del partito col fazzoletto rosso tutti mobilitati per vedere il corteo sfrecciare in mezzo al vento.
Eppure, all’inizio degli anni Novanta, quando sono arrivata in Italia, quasi nessuno conosceva i rapporti del paese con la Somalia né la storia coloniale, e continuavano a chiedere come mai parlassi così bene l’italiano.
In quegli anni, per me, la questione principale, quella che mi stava a cuore e che discutevo con i mie amici, era quella della memoria. Oggi si parla molto anche di razza, ma non allora. Le questioni erano principalmente quella di non essere riconosciuti come parte di questo paese e il fatto che l’Italia avesse dimenticato la propria storia.
Nel libro La madrepatria è una terra straniera (Mondadori 2017), Valeria Deplano ha mostrato come, a differenza di altre potenze coloniali, le politiche adottate in Italia nel periodo coloniale e successivamente, abbiamo fatto di tutto per negare ogni forma di riconoscimento, compreso il diritto alla cittadinanza di quelli che chiamavano sudditi coloniali, anche per gli Ascari che avevano combattuto per l’Italia.
Oggi sono cambiate molte cose. Ci sono molti giovani studiosi e ricercatori che lavorano su questo tema e, cosa molto importante, si inizia ad aprire gli archivi storici. Proprio un archivio è la fonte del mio ultimo romanzo: l’archivio Somalia a RomaTre, a cui avevo lavorato prima di lasciare l’Italia. Una straordinaria raccolta di materiale nata da un’idea della professoressa Annarita Puglielli con cui collaboravo. È un archivio online che conserva una serie di documenti raccolti dai professori della cooperazione tecnica in Somalia, visto che a Mogadiscio è ormai tutto distrutto. Ci sono poi anche altri archivi che stanno aprendo. Finalmente è disponibile un fondo sulla Somalia conservato nell’ex Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente di Roma, chiuso da tantissimo tempo, che ha ceduto i documenti alla biblioteca nazionale e gli artefatti al museo Pigorini. È inconcepibile che questi materiali siano stati separati ma è almeno un inizio. E poi stanno uscendo anche molti libri su questi temi.
Adesso che abbiamo aperto gli archivi e stiamo facendo questo importante lavoro sulla memoria, la questione è però tutt’altro che risolta. Emergono nuove contraddizioni e nuove sfide, la prima è senz’altro il come parliamo oggi di quella storia. Cosa ne pensi? Cosa ci resta da fare?
La domanda è capire come possiamo riprendere la storia coloniale mantenendo il significato originario ma creando anche qualcosa di nuovo che sia in relazione al presente. Il dibattito, in Europa, sulle restituzioni ha aperto in Belgio, dove vivo attualmente, la discussione sul come risignificare questi oggetti e opere. Anche scrivere può andare in questo senso. Contribuisce a un lavoro sulla memoria che guarda al presente. Con ottimismo, mi piace pensare di far parte di una comunità che può accelerare questo processo. Non è un caso che lo stesso anno in cui è uscito Le stazioni della luna, Maaza Mengiste, che avevo conosciuto a Roma, ha pubblicato Il re Ombra. Entrambi i romanzi sono testimonianza di storie mai raccontate che parlano direttamente al nostro presente.
Le stazione della luna è ambientato nel periodo dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, un periodo ancora tutto da discutere in Italia, perché proprio questo periodo per parlare di Somalia all’Italia?
Ci sono vari motivi. Innanzitutto, lo dicono anche gli storici, si tratta di un periodo rimasto nell’ombra. È un tabù. Non è più un periodo veramente coloniale ma accadono qui tutta una serie di questioni che poi degenereranno nella guerra civile, e questa è la parte della storia. Per me l’esigenza è sempre quella del trovare la ragione del perché certe cose sono accadute e penso che negli anni Sessanta si siano gettate le basi per il collasso della Somalia quarant’anni dopo. Inoltre, è stato un periodo di contatti molto stretti. Cerano tantissimi italiani in Somalia e mi interessava indagare questo momento in cui gli italiani non erano formalmente colonizzatori ma lo erano di fatto, considerando anche la responsabilità dei somali. Le responsabilità individuali, tanto dei somali quanto degli italiani, sono sempre molto importanti. Io credo che, nonostante i processi storici, noi abbiamo sempre la possibilità di scegliere come vogliamo schierarci. Ovviamente ci sono in campo forze maggiori o minori però noi possiamo scegliere. Il romanzo Il comandate del fiume, che è una favola tradizionale somala, racconta di due saggi che vanno alla ricerca dell’acqua, trovano la fonte e tracciano la traiettoria per far confluire l’acqua verso i villaggi e con l’acqua arrivano anche i coccodrilli. Morale: l’acqua è necessaria ma ci sono i coccodrilli quindi dobbiamo imparare a riconoscere e a convivere con il male necessario. Questa è la vita. La nostra forza sta nel riconoscere il male. Non possiamo eliminarlo ma possiamo distinguere le cose. Ci sono dei fatti che non possiamo negare ma dal punto di vista del nostro vissuto soggettivo abbiamo sempre la possibilità di scegliere come posizionarci, e questo è importante anche nel presente.
Anche in Madre piccola avevi intrecciato la storia della Somalia con le storie soggettive. In entrambi i romanzi le protagoniste sono donne forti, mai subalterne, con vissuti specifici e specifici posizionamenti, ma questo romanzo ha un registro narrativo differente ….
Madre piccola è sta per me un romanzo molto complesso. È un romanzo sulla diaspora e lo stile della scrittura voleva propio dare conto di questa dimensione della relazione che ci salva quando ci sentiamo dispersi. Ha una scrittura molto lirica, una ipernarratività per mettere radici e per trovare attraverso la relazione una dimensione di se stessi nel nuovo mondo. Poi, negli anni, lavorando sul teatro popolare per la tesi di dottorato, ho pensato che nonostante la mia tendenza sia quella della poesia, certe volte possa essere una gran presunzione. La storia che si racconta in quest’ultimo romanzo è talmente importante e poco conosciuta che ho preferito fare una cosa pop, che potesse essere maggiormente accessibile. Più si legge, meglio è.
È importante anche il contesto in cui l’ho scritto. Nel 2020 ho avuto una fellowship allo Stellenbosch Institute for Advanced Study (STIA) in Sudafrica. Quando è scoppiata la pandemia ho deciso di rimanere, anche se era la prima volta che restavo lontana dai miei figli. Leggevo quotidianamente il materiale che avevo raccolto durante la ricerca, soprattutto «Il corriere della Somalia» che veniva pubblicato a Mogadiscio negli anni del A.F.I.S.. Molto del linguaggio che uso nel romanzo e che risuona qua e là, è una scelta. È il linguaggio di quegli anni e rispetta l’estetica dei discorsi che si facevano.
Per me la scrittura non è una cosa intimista ma un posizionamento politico. Alcune volte ho usato la poesia, in altri casi le storie orali, in questo romanzo, data la mia posizione storica, politica e di genere, mi sono sentita la responsabilità storica e narrativa di scrivere queste cose in un modo accessibile a tutti. Questo mimetismo della scrittura dunque non è casuale ma ha un suo significato intrinseco: è una scelta non solo stilistica ma politica.
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Ubah Cristina Ali Farah, scrittrice, è nata a Verona e cresciuta a Mogadiscio fino alla scoppio della guerra civile. Ha vissuto a Roma e ora a Bruxelles. Le stazioni della luna è il suo terzo romanzo.
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