La tendenza contemporanea all'alleanza tra liberali e fascisti, che abbiamo visto all'opera nel Novecento e che in questi anni è ricomparsa sotto i nostri occhi, è stata messa in discussione, in Francia, da quanto le lotte degli ultimi anni sono riuscite a sedimentare. Ma la situazione è tutt'altro che risolta: Macron, che resta Presidente della Repubblica, vuole continuare a portare fino in fondo l'esproprazione di salari, reddito e servizi, il genocidio, la guerra; Hollande e il Partito Socialista sono già pronti a pugnalare il programma del Nuovo Fronte Popolare; il Rassemblement National ha aumentato la sua forza parlamentare. In parole povere, la Francia è un paese diviso. In questa situazione, i movimenti giocheranno un ruolo decisivo: solo una lotta di classe incalzante potrà costruire rapporti di forza che ora sono in bilico e spingere La France Insoumise.
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Durante la notte dei festeggiamenti per la vittoria elettorale sui fascisti, la saggezza popolare ha scritto su un muro «Notre sursaut est un sursis» il nostro sussulto è una tregua. Più vero ancora la mattina dopo. Ma è un qualcosa di più di un sussulto e la tregua dipenderà dai rapporti di forza che si costruiranno nelle prossime settimane e mesi.
La lunga sequenza di lotta di classe senza classe e senza rivoluzione (cominciata sotto la presidenza Hollande), nonostante nessuna della rivendicazioni dei vari movimenti (Loi travail, Gilets Jaunes, retraite, banlieues etc.) sia riuscita a imporsi, ha determinato un terremoto che sta facendo tremare le istituzioni della Repubblica, messo a terra elettoralmente il feroce blocco degli interessi del grande capitale rappresentato da Macron e aperto la strada a una prima rottura del consenso destra/ sinistra intorno alla contro-rivoluzione liberal-capitalista che ha governato praticamente dal Mitterand del 1983 fino a Macron.
La tendenza contemporanea all’alleanza tra liberali e fascisti (la sua ultima realizzazione è il governo olandese insediato il 2 luglio) è stata fatta saltare da quello che le lotte hanno sedimentato a livello istituzionale. Il risultato delle elezioni mostra che la Francia è profondamente divisa e non si vede chi e come potrà ricomporla nel medio/lungo periodo, con un RN (Rassemblement National) che rappresenta 10 milioni di francesi su 49 aventi diritto di voto, che ha aumentato la sua forza parlamentare, che ha consolidato il suo impiantato territoriale e che mira già alle presidenziali. La situazione è più simile a quella statunitense che a quella italiana, dove i fascisti si sono installati al potere senza nessun problema, in un paese sonnecchiante e declinante da ogni punto di vista.
L’evoluzione della situazione dipenderà, per cominciare, da come si risolverà la crisiistituzionale. La costituzione e il sistema politico francese non prevedono un risultatocome questo, molto più simile a un voto proporzionale, che non permette di stabilire immediatamente una maggioranza e
determina così uno spostamento contro natura del potere dal «monarca repubblicano» al parlamento.
Dipenderà in seguito anche dalla tenuta del NFP (Nouveau Front Populaire) perché il partito socialista, «risorto» solo perché FI (France Insoumise) gli ha concesso diversi collegi elettorali, è il partito più problematico della coalizione. È proprio dal suo grembo che sono venuti fuori Macron – e molti suoi ministri – e una parte dell’elettorato che egli ha poi regolarmente massacrato. Macron nella sua parabola politica è passato da una maggioranza assoluta a una maggioranza relativa fino ad arrivare ad una situazione in cui non è più lui a dare le carte. La sua coalizione deve tutto al «désistement», a elettori che si sono tappati il naso per votarla. Inoltre, i suoi nuovi eletti sanno che devono più ad Attal, che si è schierato subito senza ambiguità per il «fronte repubblicano», che al «re» dell’Olimpo – «Jupiter» come lo definiscono con disprezzo i francesi – ambiguo ed esitante fino all’ultimo sulla questione.
Macron è solo l’ultimo di una serie di liberali socialisti che hanno fatto di più di tutta la destra messa insieme per imporre il neo-liberalismo – la lista delle ignominie è infinita). Hollande, ex presidente, uno dei peggior figuri della serie, si è fatto eleggere ed è pronto a pugnalare alle spalle il programma del NFP, basato su un keynesismo di sinistra che basta per gettare nel panico le classi dirigenti – piano che comprende la pensione a 60 anni, aumentare il minimo salariale del 15%, abolire l’ennesima legge prevista contro i disoccupati, ecc. Programma lontano dalla radicalità del FP storico –comunque relativa se è vero che François Tosquelles, fondatore del POUM (Partido Obrero de Unificación Marxista) durante la guerra civile spagnola e successivamente inventore della psicoterapia institutionnelle, si lamentava del fatto che mentre loro erano impegnati nel fare la rivoluzione, il FP si batteva per le ferie pagate. Ciò solo per dire quanto siamo lontani dai dibattiti e dalle poste in gioco del secolo scorso.
Ma il ruolo decisivo lo giocheranno i movimenti. In una situazione in cui la maggioranza (se ci sarà! Troppo presto per dirlo) del composito NFP, con un programma aborrito dalla destra liberale, sotto il fuoco incrociato dei mercati, con un RN che resta a guardare pensando di incassare i dividendi dell’inedita situazione tra tre anni (quando si terranno le presidenziali), solo una lotta di classe incalzante potrà costruire rapporti di forza che ora sono in bilico. Soltanto la capacità di mobilitazione potrà imporre il programma di una coalizione in cui la sola forza che ha rotto con il «Washington Consensus», il consenso al genocidio e all’atlantismo, è FI.
Comunque tutto è ancora per aria, questa è solo una delle possibili coalizioni, probabilmente vivremo un periodo di prolungata instabilità sia istituzionale che politica.
Liberalismo e fascismo
Cerchiamo ora di capire cosa c’è sotto le incrinature prodotte delle onde elettorali: la grande crisi del capitalismo e degli Stati occidentali, non ancora usciti dalla debacle finanziaria del 2008 e che hanno la guerra, la guerra civile, il genocidio come unica e vera soluzione. È in questo quadro che si giocherà il destino del NFP e del fascismo. Prendere un po’ di distanza dall’attualità immediata può aiutarci a leggere ciò che potrebbe succedere.
Il rapporto tra capitalismo, fascismo e liberalismo non è congiunturale, ma strutturale.
Il passaggio di una delle modalità dell’esercizio del potere (legislativo, esecutivo, amministrativo) dai liberali ai fascisti è un classico del XX secolo. Fascismo e nazismo storici sono stati portati al potere da liberali, capitalisti, banchieri, dopo che il «mercato» fallendo miseramente, ha trascinato le società europee dentro la Grande Guerra e la guerra civile mondiale. I bolscevichi hanno colto il momento e portato a termine la rivoluzione con un eco immediato nel mondo, particolarmente in Europa, terrorizzando le classi dominanti disposte a tutto pur di annientare il programma di abolizione della proprietà privata, ancora oggi l’alfa e l’omega del capitalismo – Keynes scriveva che i grandi proprietari avrebbero spento il sole e le stelle piuttosto che cedere un centimetro di potere e perdere un’oncia di profitto.
Di fronte al crollo della governamentalità liberale e al crescere della guerra civile, la destra e buona parte dei capitalisti hanno preferito consegnare il potere ai nazisti e ai fascisti lasciando libero corso all’uso della violenza contro il «vero» pericolo, il bolscevismo.
Il neo-liberalismo, che era stato pensato come alterativa al liberalismo classico, sta producendo gli stessi risultati: guerra, guerra civile, genocidio, fascismi. È entrato in coma nel 2008 ed è morto ormai da qualche anno. In Occidente il «mercato» non decide più niente, se ha mai davvero deciso qualcosa. Gli Stati Uniti scelgono per tutto il Nord del mondo cosa produrre, dove impiantare le imprese e cosa consumare. Impongono a tutti i vassalli cosa esportare e a chi, quali dazi, su quali merci, su quali paesi produttori. L’allocazione della tecnologia è opera del Pentagono. Il mercato è oggi completamente subordinato alla sicurezza nazionale degli USA, cioè alla sua volontà di egemonia.
Nel sud del mondo il capitalismo è di Stato, per cui il mercato è strettamente controllato dal suo più acerrimo nemico. Sembra che funzioni piuttosto bene dal punto di vista dell’accumulazione. Anche il «pilota automatico» della finanza sembra che si possa controllare tramite la politica (cosa avvenuta del resto anche in Occidente per tutti i 30 gloriosi).
Ho visto con sbigottimento che in Italia si tengono dei convegni universitari dove si discute ancora del neo-liberalismo , del capitale umano, dell’imprenditore di se stessi, etc., come fossimo ancora negli anni ‘80 o ’90, come se questi concetti fossero stati mai operativi. Le economie di mercato sono state amministrate dagli Stati anche sotto il cosiddetto neo-liberalismo, sono state salvate dalle monete sovrane e ora soccorse dallo Stato militare e dai fascismi. Il capitalismo nel suo insieme per non crollare deve periodicamente fare la guerra e ricorrere alle violenze fasciste.
Michel Foucault ha messo in circolazioni delle favole sull’ordo- e neo-liberalismo che anche gli intellettuali di sinistra più sottili ripetono come pappagalli. Neo-liberalismo e fascismo sono strettamente legati tra di loro perché il secondo è stato, all’inizio degli anni ‘70, la condizione del primo. Non il mercato, non gli imprenditori hanno bombardato la Moneda e Allende, massacrato migliaia di militanti socialisti e comunisti in tutta l’America Latina, costretti all’esilio altrettanti: è l’alleanza tra i fascisti e il potere sovrano degli Usa ad averlo fatto. Il convergere inaugurale tra fascismo e neo-liberalismo nell’organizzare la guerra civile, sparito dalla ricostruzione di Foucault e dei suoi continuatori[1] si riproduce oggi, al tramonto della governamentalità liberale.
Per capire come la cosa si ripeta ancora oggi, bisogna prendere in considerazione altre forme dell’esercizio del potere, prima tra tutte l’accumulazione del capitale.
Con l’avvio della contro-rivoluzione i fascisti sono stati immediatamente tirati fuori dalle fogne. L’«obbligo» antifascista viene eliminato perché la strategia scelta non prevede alcuna mediazione, si va allo scontro di classe, alla «guerra civile», ora sotterranea ora aperta, intensificando il razzismo e il sessismo con il compito di dividere il proletariato.
L’alleanza tra liberali e fascisti è già stata istituzionalizzata da Berlusconi (1992) più di trent’anni fa. Il suo primo governo mette insieme le destre liberali e i fascisti. Uno di questi dirigerà la macelleria di Genova.
La legittimità elettorale del blocco degli interessi economico-finanziari nazionali e mondiali che Macron rappresenta, è saltata con le lezioni europee. Con solo il 7% degli aventi diritto che hanno votato il presidente, il suo governo, che ha fatto della Francia un paese «business friendly», non ha alcuna credibilità e solidità.
La governamentalità neo-liberale, già pesantemente erosa dalla crisi del 2008, è stata delegittimata dal susseguirsi dei movimenti politici che si sono succeduti in Francia (contre la Loi Travail, Gilets Jaunes, lotta sulle pensioni, rivolta delle banlieues). È questa la causa prima del logoramento del potere macroniano che le elezioni hanno registrato. Il regime di guerra e il genocidio da una parte, la guerra civile di espropriazione del salario, del reddito, dei servizi conquistati in secolo e mezzo di rivoluzioni dall’altra, richiedono di esautorare le procedure democratiche che sono sempre state strette al capitalismo.
La situazione non ha comunque la drammaticità della prima metà del XX secolo, nessun pericolo «bolscevico» all’orizzonte. Macron pensa, forse, che non sia ancora arrivato il momento di passare il potere anche se ha esitato a lungo, come molti altri dirigenti della destra, prima di aderire al blocco repubblicano contro il fascismo. È il suo primo ministro che gli ha forzato la mano. Non c’è niente da aspettarsi da chi ha aperto le porte al RN, integrando praticamente tutte le loro parole d’ordine, e attuato nello stesso tempo una delle più feroci politiche di classe viste in Europa. Il «barrage» che tutti questo desideravano in verità era contro il NFN. Quando hanno capito che potevano rifarsi sulle spalle del NFP cha ha votato massicciamente, a differenza degli elettori di destra, rispettando la regola del «désistement», hanno aderito al fronte repubblicano.
Guerra civile?
Macron, durante la brevissima campagna elettorale, ha parlato del pericolo della guerra civile nel caso in cui gli «estremi» avessero vinto le elezioni e l’Eliseo ha organizzato una fuga di notizie sul possibile uso dell’articolo 16 della costituzione che conferisce i pieni poteri al Presidente (dittatura presidenziale).
Queste due osservazioni sono molto interessanti.
L’intensificarsi dell’iniziativa capitalista dopo la crisi finanziaria, il cui scopo era quello di farla pagare alle classe popolari, è stata gestita da Macron nella forma della guerra civile. La strategia scelta è stata di portare fino in fondo la parola d’ordine della contro-rivoluzione: nessuna mediazione, nessun compromesso, nessun dialogo per cui l’unica forza capaci rapportarsi ai conflitti è stata la polizia.
Molti compagni sono stupefatti dall’utilizzo del termine «guerra civile» che possono concepire, bontà loro, solo nell’uso metaforico. Il problema di questi compagni è serio: hanno una concezione «eurocentrica» dell’esercizio del potere, come tutta la filosofia politica e la politologia occidentale. Il giudizio sul potere deve mettere sullo stesso piano il suo esercizio dentro e fuori i confini della Francia metropolitana, perché il livello dell’uso della violenza e i dispositivi e le tecniche adoperate per attuarla sono sì differenti, ma si tratta dello stesso potere, gestito dagli stessi uomini.
Macron utilizza una grande e classica violenza coloniale nella Kanaky (9 morti e 1675 arresti nelle rivolte di maggio di quest’anno), in Africa (dove l’eliminazione fisica del nemici è una pratica corrente) e in buona parte dei DOM-TOM e una violenza più «democratica» nella metropoli. Ma, ripeto, si tratta dello stesso potere che fa uso di una guerra civile aperta nelle colonie e di una guerra «civile lenta», così come Marx definisce, nell’VIII capitolo de Il Capitale, la lotta della classe operaia sulla giornata lavorativa. «Guerra civile lenta, più o meno velata» perché non è concentrata nello spazio e nel tempo come la prima.
Macron dall’inizio del suo mandato ha governato tramite la polizia, la cui violenza è andata continuamente crescendo, raggiungendo livelli preoccupanti con i Gilets Jaunes. Le leggi di emergenza approvate all’epoca degli attentati del 2015 sono state integrate nel diritto comune e largamente utilizzate dai prefetti contro le lotte che si opponevano all’aumento dell’età pensionabile.
L’uso della polizia come modo di «governo» manifesta che la situazione è sempre in bilico, «eccezionale» perché imprevedibile, difficilmente stabilizzabile perché aperta continuamente al modificarsi dei rapporti di forza e rischia continuamente di fuggire di mano ai poteri costituiti. La distinzione tra normalità e emergenza non regge più da quando, nel XX secolo, la differenza tra pace e guerra ha lasciato il posto alla loro contaminazione.
La polizia è la forza la più adeguata per intervenire quando normalità e eccezione, guerra e pace si confondono. W. Benjamin ci ricorda che la polizia, reprimendo, non si limita a applicare la legge, ma la crea con la propria azione, nel suo scontrarsi con la lotta di classe. La polizia non è solo un potere che conserva il diritto, ma anche un potere che lo fonda. È un potere costituente in atto, è lo stato di eccezione in atto, è la guerra civile in atto. «La violenza della polizia è fondatrice del diritto», non promulga leggi, ma «emette ogni tipo di decreti (...) così, “per garantire la sicurezza” interviene in innumerevoli casi dove la situazione giuridica non è chiara».
Il potere che pone il diritto (eccezione) e il potere che lo conserva (leggi) si confondono nello stesso atto, non c’è opposizione tra potere costituente e potere costituito nella prassi del potere. È l’unica maniera per poter controllare una guerra civile che, anche se «lenta», mina continuamente la stabilità e il funzionamento del potere e minaccia di accelerare. Il potere fa un uso costante e sistematico della polizia perché questa interviene in situazioni di incertezza, che non possono essere anticipate dal legislatore, esercitando una violenza che è allo stesso tempo istituita e istituente.
Dentro il continuo riprodursi della crisi, l’ordine non è garantito, deve essere costruito, ricostruito e legittimato senza sosta, perché, nonostante manchino soggettivazioni rivoluzionarie, non riesce a stabilizzare i rapporti di forza tra le classi: il potere non riesce a chiuderli dentro il suo comando che, anzi, rischiano continuamente di presentare la loro faccia rivoltosa, sovversiva. È esattamente quello che è successo con i Gilets Jaunes e l’avvicendarsi di lotte in Francia.
Ma si tratta anche un potere minato dai rapporti di forza internazionali che vedono l’Occidente sulla difensiva, in panico per il declino della sua egemonia e quindi pronto a scatenare la più grande violenza.
Sembra impossibile, ma si continuano a scrivere delle analisi sulla congiuntura politica francese che sono terribilmente locali, anche quando il paese oltralpe è completamente dentro una guerra e una guerra civile mondiale.
La Francia, come tutto l’Occidente è due volte in guerra: contro la Russia (in verità la Cina che minaccia la sua supremazia) e contro i palestinesi (il proletariato del grande Sud), mentre i paesi occidentali sono attraversati da «guerre civili» che da «lente», stanno diventando dinamiche, soprattutto negli Usa. La Francia invia armi a Israele e legittima il genocidio mentre minaccia di inviare truppe sul suolo ucraino. Il genocidio palestinese ha continuamente aleggiato sulla campagna elettorale perché il suo principale argomento per criminalizzare chi si oppone al massacro in corso, l’antisemitismo, è stato martellato da tutti i media consensualmente unificati, contro LFI, immagine di un «pericolo rosso» inesistente. Il RN, «ontologicamente» antisemita è invece stato legittimato come anti-razzista. In ogni caso, l’operazione Corbyn non è riuscita.
È importante il giudizio che si dà della fase, perché l’azione politica ne dipende. Mi sembra che si possa dire, senza timore di esser smentiti, che ci troviamo dentro un accavallarsi di guerre, guerre civili, genocidio, ascesa dei fascismi che rendono difficili le previsioni, le anticipazioni, i calcoli «strategici» (anche economici) per cui le classi dominanti hanno la tendenza ad affidare all’estrema destra il ripristino dell’ordine e dell’autorità che assicura un minimo di certezze. Gli ambienti (milieux) economici, dopo il voto, hanno fatto sapere che vogliono «stabilità e visibilità», cioè ordine, ordine, ordine. Prenderanno chi glielo assicurerà meglio.
In regime di guerra (e anche di guerra civile «lenta») la visibilità è minima, la direzione da prendere non emerge facilmente, la scelta è esitante: «Riconosciamo che è molto più difficile orientarsi nella guerra che in qualsiasi altro fenomeno sociale perché comporta meno certezze, e cioè, è ancor più una questione di probabilità».
La citazione precedente, del presidente Mao, è sicuramente una riflessione fatta a partire da un testo di Clausewitz che val la pena di citare, perché ci dà un quadro di ciò che significa la crisi continua che stiamo vivendo da quando è stata lanciata la contro-rivoluzione all’inizio degli anni ‘70, la cui parola d’ordine, via via precisatasi, «nessuna mediazione», implica una logica di guerra (civile).
«La guerra è il dominio del caso». Nessun’altra sfera dell’attività umana si trova in contatto cosi permanente con l’«azzardo».
Accentua l’incertezza in ogni circostanza e ostacola il corso degli eventi. A causa dell’incertezza di tutte le informazioni, della mancanza di ogni base solida, e di questi interventi costanti del caso, la persona che agisce si trova continuamente davanti della realtà differenti da quelle che si aspettava [...] tre quarti degli elementi sui quali si fonda l’azione restano nella nebbia di un’incertezza più o meno grande.
È in questa situazione di impossibilità di fare i calcoli (da tutti i punti di vista, economico e politico) che i «governi democratici» mostrano tutti i loro limiti e la polizia e i fascisti diventano indispensabili. Il rapporto tra Stato e fascismo, tra Stato e dittatura, è iscritto nel funzionamento del primo. Per coglierlo, è forse utile riferirsi alla teoria del «Doppio stato» di Ernst Fraenkel, elaborata a proposito del funzionamento dello Stato Nazista.
Il nazismo non ha semplicemente introdotto e perpetuato lo stato di eccezione, come sembra credere Agamben, trascurando completamente la forza e il ruolo che il capitalismo ha giocato in questo periodo. Accanto allo stato di eccezione continuò a funzionare quello che Ernst Fraenkel chiama lo «Stato normativo», lo Stato delle leggi.
La teoria di Fraenkel può essere riassunta dicendo che all'interno dello Stato coesistono diversi Stati. Quello nazista funzionava sulla base di due diversi regimi politico-giuridici: un regime «normativo» che garantiva la regolamentazione giuridica dei contratti, degli investimenti, della proprietà privata, assicurando contemporaneamente servizi di ogni tipo ai tedeschi, e un regime caratterizzato dalla discrezionalità, dall’eccezionalità, un potere arbitrario di grande violenza che privava parte della popolazione (ebrei, socialisti, comunisti, sindacalisti rivoluzionari, disabili, omosessuali, ecc.) dei propri diritti.
Questa duplice organizzazione dello Stato (Stato amministrativo e Stato sovrano) non è mai stata caratteristica del solo Stato nazista, anche la costituzione francese è costruita in questo modo dando grande spazio alla decisione insindacabile del monarca repubblicano. Fin dai suoi inizi, lo Stato occidentale è organizzato secondo questo dualismo. Per molto tempo, il regime sovrano con tutte le sue prerogative (il re ha la «prerogativa» di poter agire contro la legge esistente) è stato esercitato, nella sue forme più pure, nelle colonie, mentre il regime normativo nella Francia metropolitana. Durante l’insurrezione del 1848, la violenza sovrana è stata trasferita dalle colonie, dove si esercitava senza limiti, alla metropoli, per sedare la rivolta grazie all’esercito coloniale (compiendo un vero e proprio massacro!). Tutta la tradizione liberale ritiene che lo Stato di diritto possa esistere e fondarsi solo su questo potere sovrano assoluto – Tocqueville, ad esempio, riteneva necessaria la dittatura sui musulmani d'Algeria e la democrazia per i francesi, ma la seconda non poteva esistere senza la prima.
Nella Costituzione francese, questi due regimi sono chiaramente enunciati. L’articolo 16, di cui si è parlato durante la campagna elettorale, che dà i pieni poteri al presidente (copiato e incollato dall’articolo 48 delle Repubblica di Weimar) afferma il fondamento non democratico del potere. Lo Stato contiene in sé la realtà della dittatura, dell’arbitrio, del dispotismo, non deve cercarli fuori di sé. Ad esempio, la Corte Suprema degli USA ha ancora recentemente affermato questa verità: il presidente è sopra le leggi.
Nello stesso modo l’economia capitalista ha una tendenza irresistibile a sbarazzarsi della democrazia. Hans Jünger Krahl, conosciuto in Italia ma non per il suo contributo politico maggiore, specifica la differenza del capitalismo contemporaneo rispetto a quello del XIX secolo: « La tendenza riscontrata da Marx, di uno sviluppo capitalistico favorevole al socialismo valeva per il capitalismo concorrenziale». Il capitale monopolistico e l’imperialismo non sviluppano più «una tendenza al socialismo ma, caso mai, alla barbarie fascista». Ragioni strutturali presiedono alla complicità di capitalismo, fascismo e guerra.
La configurazione del voto ha mostrato una forte resistenza contro il fascismo ma anche contro il macronismo. L’intensificarsi della crisi, lo scontro guerriero in corso, l’approfondirsi del razzismo, sessismo, il probabile stabilizzarsi del RN come primo partito («popolare» del resto), faranno da sfondo alla lotta istituzionale nei prossimi mesi. La grande determinazione mostrata dalle lotte degli ultimi anni e anche in questo ultimo mese sul terreno elettorale, lascia aperta anche la strada all’intensificarsi della «guerre civile» che Macron ha praticato senza scrupolo dall’inizio del suo mandato in un impressionante crescendo.
Al di là del concetto di disuguaglianza
La strategia di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e l’impoverimento dei molti continua, processo che con le guerre si approfondisce ulteriormente. La situazione non può più essere caratterizzata dal concetto di «disuguaglianza», stiamo scivolando ben al di là. Lo Stato di diritto e la democrazia si rivelano impotenti di fronte all’ulteriore mutazione in corso del capitalismo e costruiscono invece degli ostacoli da eliminare. Democrazia, Stato di diritto, al contrario dell’ideologia dominante, sembrano sempre meno compatibili con il capitalismo.
Nell’attualità occupata dalle guerre, dal genocidio, del fascismo, una notizia, sintomo importante dell’evoluzione del capitalismo odierno e altra faccia della grande violenza che stiamo vivendo, sembra essere sfuggita all’attenzione dei più: un imprenditore, Elon Musk, CEO di Tesla, ha domandato e ottenuto una remunerazione annuale di 56 miliardi di dollari. Nel vecchio capitalismo industriale (ma ancora negli anni cinquanta) il rapporto tra il salario dell’operaio e il compenso del padrone era al massimo di 1 a 20. Negli anni 80, di 1 a 42. Nel 2000, di 1 a 120 e via via aumentando fino all’1:56 miliardi di dollari di oggi.
Qui invece il divario è vertiginoso, la quantità diventa qualità. Le due realtà sono incommensurabili. I termini del rapporto sono grandezze completamente differenti, sono due «razze» differenti, esseri umani eterogenei. Il rapporto non ha nessun senso, non risponde a nessuna «razionalità» economica come il capitalismo pretendeva ancora cinquanta anni fa.
Il «non rapporto» è ciò che definisce da sempre la situazione coloniale. Questo rapporto che non ha più alcuna legittimità economica, che è puro e nudo rapporto di potere, si sta installando anche nei paesi del Nord.
Ci si potrebbe domandare se si tratta ancora di capitalismo o se siamo piuttosto in presenza di un nuovo tipo aristocrazia che impone di pagare delle rendite a dei signori, la cui legittimazione non è altro che arbitrio di potere assoluto. Per fare un esempio: la presidente di Tesla, Robyn Denholm, in una lettera ha spiegato agli azionisti che lo «stipendio», serve «a mantenere l’attenzione di Elon e a motivarlo a concentrarsi sul raggiungimento di una crescita sorprendente per la nostra azienda». Musk «non è un manager tipico» e per motivarlo «serve qualcosa di diverso».
56 miliardi sono una semplice rendita che implica una concezione della società secondo cui dove una piccolissima aristocrazia regna su una massa (plebe? populace? mob?) che si divide la miseria, producendo una sovrabbondanza di gerarchie tra poveri.
Ma quella di Musk non è l’eccezione bizzarra di uno strano imprenditore: tale processo si sta incarnando anche in Argentina, dove Milei ha come punto di riferimento proprio questo capitalismo e questi capitalisti.
Nei luoghi in cui il neo-liberalismo è nato negli anni ‘70, il capitalismo sta vivendo una nuova mutazione: la volontà politica è di imporre la dittatura senza condizioni della proprietà privata, la privatizzazione di ogni rapporto sociale. Distopia che non ha neanche più il bisogno del terrore del colpo di Stato. I rapporti di forza che la composizione di classe contemporanea riesce a imporre, sono talmente deboli, talmente sbilanciati in favore del capitale che basta sfoggiare una motosega e esibirsi in qualche concerto, per affermarsi.
Quando Milei grida «libertà», «libertà», la spiegazione del testo va ricercata in Peter Thiel, miliardario e cofondatore di PayPal: "Non credo più che libertà e democrazia siano compatibili».
La democrazia ha un’origine completamente diversa dal capitalismo, è l’espressione dell’irruzione delle masse nella storia e del loro desiderio di giustizia e uguaglianza. Solo la lotta di classe civilizza il capitalismo che, in sé e per sé non ha niente di democratico e di progressivo. Il potere esercitato nell’impresa, che è il suo modello di potere, è dispotico, nonostante tutte le teorie del management cerchino di mascherarlo millantando «partecipazione».
Insieme a Musk, altri miliardari (Murdoch, ad esempio e lo stesso Thiel), stanno finanziando e facendo attivamente campagna per l'elezione di Trump. Qui ritroviamo un’altra ragione dell’esistenza del fascismo, economica questa volta – verità confermata dal funzionamento dell’economia antioperaia sotto Mussolini o Hitler. Del resto l’agenda della contro-rivoluzione era già stata segnata negli anni ‘70 dalla critica della democrazia portata avanti dalla Trilaterale.
Quello che vuole Milei (ma è esattamente il progetto di Macron, di Draghi, dell’Europa, etc.) è espresso molto bene da questi miliardari trumpiani: tornare a prima del New Deal, a prima del Welfare – in altre parole a prima della rivoluzione sovietica – ma anche a prima della rivoluzione francese (sogno degli ordo-liberali tedeschi, nostalgia di quando c’era l’ «ordine» dei ceti). Continua infatti Thiel: «Gli anni '20 sono stati l'ultimo decennio della storia americana in cui si poteva essere sinceramente ottimisti in politica. Dal 1920, il grande aumento dei beneficiari del welfare e l'estensione del diritto di voto alle donne hanno reso la nozione di “democrazia capitalista” un ossimoro».
Lo Stato, in Francia, invece di essere il nemico principale del mercato, assicura una vera e propria rendita alle imprese tramite il fisco, ma soprattutto tramite il welfare per le imprese: 230 miliardi all’anno di cui non devono rendere nessun conto, privilegio concesso dal «monarca repubblicano». La distruzione del modello sociale ha questo fondamentale obiettivo: trasferire le risorse da ospedali, scuole, assicurazioni sociali, etc. ai ricchi e ai nuovi imprenditori/rentiers.
In Italia è stata votata la legge sull’«autonomia differenziata» che prevede un trattamento, appunto, «differenziato» della qualità dei servizi pubblici forniti ai cittadini italiani, servizi che variano a seconda della regione di domicilio. L’uguaglianza è sempre legata alla lotta di classe, il liberalismo è fondato sulla differenza della ricchezza e della proprietà.
Tutte cose che i raffinatissimi dispositivi biopolitici non possono spiegarci. Separano il potere dal denaro, l’assoggettamento dalla proprietà privata, cosa impossibile e suicida nel capitalismo. È impossibile separare i rapporti di produzione dai rapporti di potere e questi ultimi sembrano essere indifferenti alla modernità e al progresso, al progredire della scienza e della tecnologia.
Bisogna prendere molto sul serio questo fenomeno «argentino» e della Silicon Valley, perché è l’altra faccia del fascismo contemporaneo, che non proviene da quello storico, come la Meloni in Italia o la Le Pen in Francia, ma dalle punte più avanzate della ricerca tecnologia e delle tecniche finanziarie.
Di fronte all’iper-modernità dobbiamo mettere ancora la «vecchia» analisi di Marx de IlManifesto. Il problema politico è sempre la proprietà privata e l’obiettivo rivoluzionario continua ad essere la sua abolizione. È intorno alla sua conservazione e alla lotta contro la sua abolizione che si cristallizzano tutti i fascismi, le reazioni, le guerre e i genocidi. Qualsiasi sia il centro dell’azione politica che si privilegia, l’ecologia, il femminismo, il razzismo, pensare di iniziare dei percorsi di liberazione, di rottura, di resistenza senza intaccare la proprietà è una ingenuità che si misura sulla grande violenza che il potere scatena quando i suoi privilegi sono messi in discussione. E il privilegio dei privilegi è la proprietà – del lavoro altrui, della donna, della natura, di altri esseri umani.
Un pallido surrogato della lotta marxiana per l’abolizione della proprietà privata lo troviamo nell’inoffensiva teoria dei «commons» che sembra ignorare che la sua condizione di praticabilità è la violenta «espropriazione degli espropriatori».
Non ci siamo mossi di un centimetro dal Manifesto. O meglio il capitalismo è rimasto sempre fedelissimo al primo «diritto umano» che riconosce: essere proprietari.
Il razzismo classico a fondamento del fascismo da biologico è diventato culturale e si sposa perfettamente con il razzismo del darwinismo sociale dei fascio-capitalisti della Silicon Valley. Insieme rendono la democrazia superflua.
Lotta di classe senza classe, lotta di classe senza rivoluzione
L’attore principale, da cui dipenderà l’esito dello scontro istituzionale in corso, è ancora lo scontro di classe. Molto dipenderà dalla capacità di dargli continuità e radicalità. La Francia ha conosciuto un susseguirsi di lotte impressionati durante il mandato di Macron, il cui obiettivo era opporsi alle riforme che, nella testa di Jupiter, dovevano concludere l’espropriazione del salario e reddito conquistato nel secolo precedente, trasferendo enormi ricchezze dai molti ai pochi. Lotte che sono state tutte, più o meno, sconfitte, mentre il potere neo-coloniale francese è stato ripetutamente battuto in Africa e deve usare la violenza per mantenersi in Kanaky.
Sulle cause della sconfitta che si perpetua da decenni e sul sentimento di impotenza che si diffonde, ma anche sulle vittorie che per il momento prendono la forma della crisi istituzionale e del successo elettorale, sarebbe necessario aprire un dibattito. La congiuntura attuale sembra assomigliare, con le dovute differenze, alla situazione che si era determinata alla fine del capitalismo concorrenziale che sprofondò nel primo conflitto mondiale: guerra, guerra civile, lotta di classe e rivoluzione. Quello che manca oggi rispetto ad un secolo fa sono però classe e rivoluzione. Il dibattito sulla debolezza (ma anche sui suoi rari momenti di forza) di questa composizione di classe, priva di queste due armi, deve affrontare questioni difficile ma decisive: la riformulazione proprio del concetto di classe e di rivoluzione.
Le formidabili lotte francesi si sono svolte senza classe, dove per «classe» non intendo un gruppo sociale omogeneo, con interessi comuni che determinano meccanicamente i comportamenti politici. La classe non ha una esistenza sociologica, ma politica. La classe è il risultato della lotta di classe.
Lo storico marxista, E.P.Thompson pone correttamente i termini della questione utilizzando la metafora della macchina e suggerendo, tra le altre cose, che la classe, anche la classe operaia, è sempre stata non identità, ma molteplicità:
I sociologi che hanno fermato la macchina del tempo sono scesi nella sala macchine a guardare, ci dicono che non sono riusciti a individuare e classificare una classe. Riescono solo a trovare una moltitudine di persone con diverse occupazioni, redditi, gerarchie di status e tutto il resto. Naturalmente hanno ragione, perché la classe non è questa o quella parte della macchina, ma il modo in cui la macchina funziona una volta messa in moto – non questo e quell'interesse, ma l'attrito degli interessi – il movimento stesso, il calore, il rumore fragoroso. La classe è una formazione sociale e culturale (che spesso trova un'espressione istituzionale) che non può essere definita astrattamente o isolatamente, ma solo in termini di relazione con altre classi; e, in ultima analisi, la definizione può essere fatta solo nel tempo – cioè, azione e reazione, cambiamento e conflitto. Quando parliamo di una classe, pensiamo a un corpo di persone molto vagamente definito che condivide la stessa serie di interessi, esperienze sociali, tradizioni e sistemi di valori, che ha la disposizione a comportarsi come una classe, a definirsi nelle sue azioni e nella sua coscienza in relazione ad altri gruppi di persone in modi di classe. But class itself is not a thing, it is a happening.
Come tradurre questa ultima frase? Ma la classe in sé non è una cosa, è un evento? È ciò che accade? È ciò chi si fa nel tempo? È ciò che si costruisce attraverso strategie che nascono dallo scontro con il nemico?
La classe non va interpretata come un processo di totalizzazione, né come un dispositivo di riduzione della molteplicità. La classe non è neanche la rappresentazione politica di un gruppo sociologicamente definito – come gli operai. La classe è l’organizzazione, sempre provvisoria, sempre in formazione, sempre in divenire di una molteplicità che nella polarizzazione inventa le armi (l’organizzazione e le forme di lotta) per difendersi e per attaccare il nemico comune. Se la molteplicità, oggi come ieri, è una realtà imprescindibile dell’azione politica, il dualismo lo è altrettanto.
Il fascismo ci impone di riconoscere che il problema non può essere aggirato, nemmeno a livello elettorale. Per opporsi al pericolo fascista imminente, c’è stata una corsa al «fronte» cioè a una polarizzazione intorno a cui poter comporre punti di vista differenti: una molteplicità di partiti agisce dentro la polarizzazione che si esprime nel sistema della costituzione formale. Il rapporto molteplicità/dualismo dei movimenti, che agiscono nella costituzione materiale del capitalismo, è un’equazione più difficile da risolvere. Non bisogna farsi illusioni: non ci sono alternative alla polarizzazione perché il potere, quello sì, è esclusivo e totalizzante. Esodo, via di fuga, diserzione, aggiramento, ecc. sono parole che non mordono sul reale, non determinano rapporti di forza.
La classe, o come la si voglia chiamare, non è una generica convergenza delle lotte o un'irenica intersezione dei movimenti, una collezione di forme di vita, un assemblarsi cumulativo di rapporti a sé. Si forma nel rapporto/conflitto con le altre classi, con lo Stato ma, oggi, anche nel rapporto con la guerra, la guerra civile, il genocidio, il nuovo fascismo. È il risultato di un agire strategico: «azione e reazione» che avvengono nel tempo, in cui si tratta di cogliere l’«occasione» all’interno delle situazioni determinate dall’«azzardo delle lotte» per attaccare o difendersi.
Il capitalismo (Stato/Capitale) ha vinto e continua a vincere, perché pratica da sempre la lotta di classe, impone cioè dualismi (di sfruttamento, di dominio, di proprietà) a cui la molteplicità dei movimenti non riesce ad opporre una forza adeguata perché invece di imporre le polarizzazioni (rotture, rivoluzioni) definendo il nemico – cosa che poi è costretta a fare in tutta fretta quando è alle porte del potere– le subisce .
La classe si costituisce e agisce dentro un quadro determinato dai rapporti di forza. Oggi il quadro si chiama guerra, guerra civile, fascismo. Solo all’interno di questi rapporti si può costruire una forza politica.
La classe non ha una identità definita una volta per tutte, evolve con il trasformarsi della situazione. Ogni cambiamento dei rapporti di forza la riconfigura. Leggiamo un’altra lucida affermazione di Thompson:
Ma in termini di dimensioni e forza questi gruppi sono sempre in ascesa o in declino, la loro coscienza dell'identità di classe è incandescente o scarsamente visibile, le loro istituzioni sono aggressive o semplicemente mantenute in piedi per abitudine (...) La politica spesso si occupa proprio di questo: come avverrà la divisione in classi, dove verrà tracciata la linea di demarcazione? E il suo tracciato non è (come il pronome impersonale spinge la mente ad accettare) una questione di volontà cosciente - o addirittura inconscia - di «essa» (la classe), ma il risultato di abilità politiche e culturali. Ridurre la classe a un'identità significa dimenticare esattamente dove si trova l'azione, non nella classe ma negli uomini.
Questi uomini sono stati, da un secolo e mezzo a questa parte, i rivoluzionari, perché capaci di «tracciare linee di demarcazione». Dalla fine degli anni '70 in poi, invece, il pensiero critico ci ha incoraggiato ad abbandonare il dualismo della lotta di classe, separandolo dalle azioni micro-politiche, privilegiando la produzione di soggettività, il rapporto a sé, le forme di vita, di modo che non siamo più in grado né di anticipare né di combattere i dualismi della guerra, della guerra civile, del genocidio, dei nuovi fascismi. Spero che il pericolo fascista abbia fatto capire a tutti che le differenze, le molteplicità in quanto tali sono impotenti, se non riescono a determinare strumenti per agire all’interno della lotta di classe, cioè nello scontro macro-politico. Il termine classe si può cambiare, ciò che è importante mantenere è il rifiuto di chiudere il suo farsi, è il rifiuto di imporgli una identità (quello che è successo alla classe operaia!). Il processo della sua formazione dipende dall’evolversi della sua composizione e delle sue lotte, ma anche da eventi «esterni» come la guerra. Questa è stata momento dirimente da quando il capitalismo è diventato imperialismo e monopolio. Il voto ai crediti di guerra da parte della socialdemocrazia tedesca e europea nel 1914 l’ha piazzata per sempre dalla parte dello Stato ee del capitale, determinando un cambiato profondamente del concetto di classe.
La rivoluzione ha agito nello stesso modo, discriminando all’interno del proletariato, ritagliando dei nuovi contorni alle classi. Ora la rivoluzione sembra essere scomparsa, ma non è una novità. A lungo la lotta di classe si è svolta senza classe e senza rivoluzione. Rivolte eroiche, ma le prime vittorie proletarie, le prime insurrezioni a cui non è seguito il massacro degli insorti, sono arrivate quando la lotta di classe è diventata da guerra civile «lenta» a organizzazione dello scontro concentrato nel tempo e nello spazio, cioè rivoluzione. Tutte le conquiste degli ultimi 150 anni sono il risultato della minaccia della rivoluzione, pendente come la spada di Damocle sulla testa delle classi dominanti che capiscono solo i rapporti di forza, che si piegano solo all’uso di una forza paragonabile allo loro o superiore. Perfino la socialdemocrazia è possibile sono quando la rivoluzione o è in atto o è possibile.
È chiaro che solo un consolidamento della lotta di classe espressa attraverso una organizzazione della sua forza, soltanto la capacità di determinare linee di frattura radicali, potrà togliere il «sursis» che ancora ci minaccia e sbaragliare l’alleanza, sempre attuale tra liberali, capitalisti, fascisti.
Note
[1] Pierre Dardot e Christian Laval, dopo aver scritto 500 pagine sul neoliberalismo seguendo completamente le indicazioni di Foucault (La nuova ragione del mondo), si sono fatti rimproverare dal primo latino-americano che hanno incontrato di aver cancellato le sanguinose guerre civili da cui nasceva. Come il loro maestro Foucault, non solo hanno adottato un punto di vista eurocentrico, ma hanno seminato confusione, ancora oggi imperante, identificando capitalismo e neoliberalismo. Nel libro La scelta della guerra civile cercano di mettere una toppa, che è vistosamente peggio del buco, rifiutando il «concetto di guerra civile mondiale», che è la differenza specifica che l’imperialismo del XX secolo introduce. Ancora una volta seguono Foucault, la cui definizione di guerra civile è limitata al XIX secolo e ignora il salto operato dal capitalismo, dallo Stato (guerra totale mondiale e imperialismo) e dalla lotta di classe (guerra civile mondiale). Continuano a parlare di neoliberalismo quando la governance è diventata «fascista» e di guerra.
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Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024)
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