Di premi Strega e di politiche culturali al tempo della pace sociale
Pubblichiamo un articolo di Alessandro Barile che, a partire dalla lettura del libro Caccia allo Strega (Nottetempo, 2023), s'interroga sulla «crisi» della letteratura italiana e discute la domanda: può darsi oggi una «politica culturale»?
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Può ancora darsi una «politica culturale»? La lettura di un recente libro di Gianluigi Simonetti (Caccia allo Strega, Nottetempo 2023) stimola incursioni nel territorio proibito dell’ideologia. L’autore del breve saggio (composto soprattutto di ripubblicazioni) costringe a domande ardite e desuete: vi è un carattere comune che lega la narrativa italiana degli ultimi venti anni? (già ci avevano provato i Wu Ming con New italian epic, con mitopoietico entusiasmo). E questo rinvenimento rimanda a una «crisi» della letteratura nazionale, dell’idea di letteratura, della possibilità di fare una letteratura diversa dall’intrattenimento (più o meno «nobile», come sottolinea l’autore)? Simonetti aveva già organizzato il discorso, in forme più compiute e distese, nel suo La letteratura circostante (il Mulino 2018), nonché disseminando domande e suggestioni nelle sue molte recensioni per l’inserto domenicale de «il Sole 24 ore». Non c’è dubbio che, al di là delle accortezze lessicali e concettuali, siamo in presenza di una «crisi» (lui non lo dice così apertamente, ma tutto il discorso è segnato da questo «rovinamento» verso il basso, verso la non-letteratura, condito di nostalgia verso i Bassani e i Gadda): la letteratura italiana si è assestata su di un livello «medio» che collima con le esigenze di intrattenimento del grande pubblico. Una lingua media molto narrativa e poco letteraria; l’assenza di uno stile costruito e riconoscibile e complesso; una forte tensione morale usata come via di fuga dalle ideologie del Novecento; l’abusata ibridazione di generi, che vorrebbe limitare il dispotismo autoriale attraverso banali iperrealismi convalidanti (certifico ciò che dico attraverso l’esibizione del documento); il carattere edificante di ogni soluzione narrativa, consolando il nostro «ovvinnionismo» liberale: ci sono i buoni e i cattivi, e noi stiamo coi buoni; e così via. Cosa c’entra tutto questo con la politica culturale? In apparenza niente. In realtà molto.
All’interno di una più vasta difficoltà di ogni linguaggio artistico di ritagliarsi uno «spazio di necessità» nel mondo – avendo la scienza interamente (?) sostituito l’arte nella decifrazione della realtà – vi è anche un problema succedaneo: stimolare un dibattito culturale vivo, diffuso, impegnato, in grado di orientare e di selezionare le scelte letterarie, per dire, come spesso capitava di dire a Pasolini, a proposito di letteratura: questo sì, questo no. Venuta meno la «società dei colti», per lo più integrata nel sistema valoriale post-ideologico e comunicativo trans-mediatico, dove e come dovrebbe avvenire questa «battaglia delle idee» che ha, come posta in gioco, il problema del disvelamento della realtà? Intendiamoci, non è un «ritorno a Lukács» la soluzione, schematica se posta al di fuori di quella temperie politico-ideologica della prima metà dello scorso secolo (col suo carico di rispecchiamento attraverso il realismo). Ma un dibattito che rimanga blindato all’interno dei confini specialistici è destinato a subire placidamente (per lo più) o lamentosamente (come fa Simonetti, che pure ci prova e gliene va dato atto) l’arretramento culturale, esemplificato nell’egemonia dello schermo (Netflix o Tik Tok, Instagram o Amazon) su ogni dimensione del raccontare. Dove informarsi sui libri da non leggere, come rischiosamente (ma meritoriamente) indicavano i «Quaderni piacentini»?
Ammesso (e non concesso) che serva oggi una politica culturale, può questa effettivamente darsi? E chi dovrebbe organizzarla? Qui le cose si complicano, perché se la diagnosi è relativamente a portata di mano, la prognosi concerne la propria visione del mondo, della cultura ma, soprattutto, delle cose della politica. La politica culturale non è una qualsivoglia azione di orientamento della cultura fondata su di una visione politica specifica. Se fosse ciò, il concetto di politica culturale si sovrapporrebbe a quello di politica, da un lato; dall’altro, si tratterebbe solamente di far coincidere cultura e ideologia, tornando con ciò al reietto Ždanov e agli ingegneri di anime. Con politica culturale si intende un’altra cosa, storicamente determinata: la (più o meno) vasta politica di alleanze stabilita da un soggetto che si vuole egemone (il partito) e il mondo intellettuale di vario tipo, accademico, giornalistico, artistico eccetera. E questa forma si è data storicamente in sole due occasioni: nella socialdemocrazia tedesca negli anni della pacifica espansione elettorale (tra il 1890 e il 1914); e nell’Europa del dopoguerra, in particolare in Francia e in Italia, ad opera dei partiti comunisti legati a Mosca. È solamente in queste due dimensioni storiche che ha preso forma un complesso tentativo contro-egemonico in grado di sottrarre alle ragioni del capitalismo liberale interi settori di ceto borghese-intellettuale. È, insomma, solo dentro il concetto di «guerra di posizione» – ovvero di una lotta per il superamento del capitalismo pensata sui tempi lunghi e su metodi legali – che si è andato organizzando un pensiero rivolto all’obiettivo di collegare democrazia e socialismo, e quindi classe operaia e borghesia democratica. Il resto sono «politiche della cultura», in senso liberale; o zdanovismo (più o meno edulcorato), laddove il socialismo è andato al potere.
Nel caso tedesco, sappiamo com’è andata. Il prezzo pagato a una «guerra di posizione» fondata esclusivamente sulla rappresentanza elettorale è stato da un lato la socialdemocratizzazione delle proprie origini rivoluzionarie, dall’altro – e di conseguenza – i crediti di guerra votati in sostegno alle rispettive classi dirigenti. Il secondo caso – l’azione politico-culturale del Pci e del Pcf – è stato un continuo ripensamento degli errori e dei limiti della vicenda socialdemocratica tedesca: come organizzare una «guerra di posizione» che non si traducesse in un progressivo annichilimento della «ragione comunista»? I due partiti hanno lottato per tutta la loro storia contro il rischio di socialdemocratizzazione, e in effetti, al di là della polemica politica, è difficile incastonare Pci e Pcf nel quadro di una compiuta socialdemocrazia o di un conseguente riformismo. Erano di fatto altro, pur disperdendo col tempo il portato del proprio anticapitalismo originario. Partiti che si mantenevano comunisti rinunciando al carattere rivoluzionario, o declinandolo in altri modi, più o meno discutibili.
L’insorgenza della nuova sinistra nel lungo (lunghissimo) Sessantotto italiano – che possiamo collocare tra piazza Statuto (1962) e la «marcia dei quarantamila» (1980) – non ha organizzato né solo pensato alcuna politica culturale. Le bastava demolire le ragioni di quella togliattiana (populista molto più che classista, secondo il violento, provocatorio ma anche acuto atto d’accusa di Asor Rosa del 1965), proprio perché ad essere demolita – prima ancora di un’idea di cultura – era l’idea stessa della «guerra di posizione». Nella mobilitazione continua dell’«assalto al cielo» non era ipotizzabile alcuno stazionamento intermedio, perciò nessuna vera alleanza: o da una parte o dall’altra della barricata. Per un po’ è riuscito, ma non poteva durare. Ma d’altronde, le rivoluzioni non «durano»: o riescono o falliscono. Per dirla con il Radek di Solženicyn, «tempo sei mesi: o ministri o impiccati». Le rivoluzioni bruciano in fretta, non ci sono «lunghe marce», men che meno «dentro le istituzioni», ed è questo il vero, grande ostacolo al problema della «rivoluzione in Occidente», che non prevede palazzi d’Inverno ma una lunga estenuante attesa che corrompe.
L’essenza di una politica culturale organizzata in questo modo, almeno nel modo in cui storicamente si è manifestata in Italia, è quella di un continuo dibattito pubblico attorno ai temi e ai prodotti della cultura. Un confronto costante e per nulla paludato, alimentato da una polemica che, in ultima istanza, rimandava sempre al posizionamento politico-ideologico dell’opera d’arte, del suo autore, dei canali di ricezione, del disvelamento delle varie forme di «falsa coscienza necessaria» contenute nell’opera e nei modi di recepirla. La posta in gioco non era la qualità di un libro (o di un film, o di un quadro), ma il rivelarsi di un punto di vista sul mondo anche attraverso l’arte. Solamente tramite questo multiforme movimento di idee era possibile creare e alimentare quei canali di collegamento tra «specialisti», pubblico colto e grande pubblico. Si dirà che è un fenomeno prettamente novecentesco: «prima» poteva darsi una grande arte senza una correlata mobilitazione di un pubblico esterno ai circuiti in cui questa arte veniva prodotta e consumata. Ma il prima è morto e la scomposizione novecentesca prevede costitutivamente l’irruzione della massa nella cittadella della cultura.
Il rischio, va da sé, era quello di giudicare surrettiziamente un’opera in base all’ideologia che la sosteneva, esplicitamente o meno. Ma un pegno andava pur pagato, e chi riusciva a districarsi all’interno di questo groviglio di contraddizioni ma anche di opportunità, aveva qualcosa di valido da dire. Veniva selezionato, che è proprio ciò che manca oggi. Oggi la selezione è in mano al mercato. Vexata questio, certamente, non priva di aderenze anche nella polemica neocapitalista degli anni Sessanta. Rimane il fatto che senza un processo di selezione che sia il frutto di un confronto tra professionisti e pubblico (di lettori, in questo caso), senza questa intermediazione, non vi sarà disintermediazione ma una nuova mediazione, governata interamente dalla razionalità economica, come sempre anonima, sebbene l’istinto umano tenda a ipostatizzarla in un qualche soggetto cosciente (i social, gli editor, gli amicidelladomenica).
Ebbene dire tutto questo significa in buona sostanza non aver ancora detto davvero niente di concreto. Perché in assenza di un soggetto politico in grado di alimentare la lotta su di un piano reale e, di conseguenza, anche ideale, non è possibile attivare quegli articolati meccanismi alla base di un vero dibattito pubblico. Ancor di più, senza un movimento reale in grado di mettere in discussione l’esistente, è difficile alimentare una cultura letteraria in grado di sostenere (o rispecchiare) le contraddizioni della realtà apparente. Questo movimento non si costruisce in vitro, attraverso la pubblicazione di qualche rivista cartacea o online, l’intervento estemporaneo di qualche intellettuale, la battaglia per l’affermazione di un linguaggio diverso, piattaforme e contenitori meramente esteriori, scatole vuote al cui interno non si rinviene vera partecipazione, vera mobilitazione, vera lotta (e quindi vere idee). Come diceva Karl Kraus, non contano le buone opinioni, ciò che conta è chi le possiede. L’automovimento della cultura letteraria non procederà a selezionare i suoi prodotti migliori, ma soltanto i più commerciabili, proprio perché non è un automovimento (come nella pre-modernità) e non è più costretto alla navigazione tra i tormenti della politica, come nell’Ottocento e nel Novecento. È pienamente, compiutamente, una forma di spettacolo, lo spettacolo della merce che colonizza quegli spazi della cultura fino a non molto tempo fa oggetto di vera contesa, e quindi di scontro. Ci sarà sempre il bravo scrittore e il buon libro, ma (anche) la letteratura dovrà attendere tempi migliori, semmai sia dato il caso che verranno.
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Alessandro Barile (PhD), storico e sociologo, dirige l’area di ricerca «Territorio e società» presso l’Istituto di Studi Politici «S. Pio V» di Roma. È cultore della materia e ricercatore presso il dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale della facoltà di Sociologia, Sapienza Università di Roma. Si occupa di storia del movimento operaio dell’Ottocento e del Novecento, in particolare di storia del comunismo italiano, del Pci e dei movimenti della nuova sinistra dagli anni Sessanta alla fine del XX secolo, nonché dei fenomeni politici populisti. Si occupa anche di sociologia urbana, studiando le trasformazioni e la crisi della «città globale». In particolare, studia i fenomeni convergenti della gentrificazione e della periferizzazione della società urbana. Ha all’attivo decine di articoli scientifici e di monografie. Si segnalano le più recenti Dopo la gentrificazione (DeriveApprodi 2023), Rossana Rossanda e il Pci (Carocci 2023), la curatela de Il secondo tempo del populismo (Momo 2020), Il tramonto della città (DeriveApprodi 2019).
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