Una riflessione di Ileana Zaza a partire dal film Bones and All di Luca Guadagnino.
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Mirella Bentivoglio
Cosa ci consente di incontrare un altro? Qualcuno che non possiamo divorare, ossia assimilare e fagocitare, ma che nella distanza/vicinanza del «tra» due inaspettatamente porta a confrontarci con la «mostruosità» che egemonizza i corpi?
La mostruosità di divorare l'altro la incontriamo fin dall'antichità a partire dalla mitologia greca e la sua conversione drammaturgica, che la psicoanalisi freudiana e lacaniana hanno così ben evidenziato, come anche in taluni dei piccoli affreschi detti del ciclo fantastico della pittura pompeiana, nel dipinto di Goya Saturno divora i suoi figli, fino ad alcuni potenti esempi della cinematografia di Pier Paolo Pasolini che fa del cannibalismo la chiave di lettura del capitalismo, compimento del fascismo. In Porcile l'impossibilità di amare di Julian, figlio di un ricco industriale, assuefatto alla passione sessuale per i maiali, dai quali si farà «consumare» quale estremo sacrificio di sé alla pulsione e alla società alienante, è l'altra faccia del piano parallelo, quasi muto, dove un vagabondo si aggira per il monte Etna divorando ciò che incontra e solo alla fine prima di essere dato in pasto ai cani pronuncerà la sola frase «ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia».
Il recente film Bones and All di Luca Guadagnino, adattamento del romanzo di Camille deAngelis, ci offre,dall'interno dell'industria cinematografica, un sentiero di riflessione che a partire da una storia di cannibali enuclea le derive mostruose delle dinamiche inconsce e la possibilità della differenza come amore.
Il film fin da subito mostra all'opera una pulsione in un registro orrorifico quasi inguardabile per il suo stile realistico, ma la cui forza d'urto si situa a livello metaforico rivelando in-intenzionalmente l'invisibile che attraversa la dinamica dei rapporti umani e sociali. Un film di genere – road movies, horror, racconto di formazione? – la cui indecidibilità ne altera la semplicità narrativa. Di cosa si tratta se il regista stesso in un'intervista rivela che tra tutti i suoi lavori «è quello che affronta in maniera più diretta la solitudine come può essere quella di una figura che si staglia nella vastità di un vuoto»? Una figura che si staglia nella vastità di un vuoto. Qual è la natura di questo vuoto e quale la figura che si staglia nel vuoto?
Partiamo da qui. S-tagliarsi: dunque c'è un taglio, un'interruzione che si presenta nella vita dei due protagonisti, Maren e Lee, entrambi antropofagi e nello stesso tempo è il delinearsi di qualcosa di improbabile che deleuzianamente prende corpo. Ambientato negli spazi e nel tempo dell'America reaganiana, luoghi immaginari e reali si confondono insieme a multiple tracce del repertorio simbolico di altri autori, cinematografici e non. Concatenamenti come fili di Arianna nell'esplorazione del territorio degli Stati Uniti per affrontare una dimensione pulsionale che diviene indice metaforico e politico universale di quella deriva consumistica e edonistica nella quale siamo catturati.
Nelle primissime sequenze del film (con inquadrature simmetriche dell'high school che ricordano Elephant di Gus Van Sant) vediamo Maren (Taylor Russell) vivere con il padre in una condizione di quasi segregazione che scopriamo a breve essere una forma di protezione rispetto alla sua pulsione antropofagica. Lasciata alla propria vita solitaria dal padre dopo un episodio cannibalesco, Maren impara a sopravvivere ai margini della società con l'intento di ritrovare la madre di cui non sa nulla. Quello che sembra un abbandono non lo è: solo nella misura in cui un padre depone il proprio potere, esercita la sua funzione (anche se questo non sempre accade, il potere dei padri in senso lato è antropofagico esso stesso). Ad accompagnarla il registratore in cui è impresso su nastro il racconto della sua storia dalla nascita, la traccia della sua mostruosità, la pulsione godente di divorare altri corpi che come in una tragedia greca si eredita.
Non a caso la memoria incisa di ciò che l’ha definita, il marchio della sua esistenza ha la forma del racconto nella parola dell’Altro e accompagna Maren nel suo viaggio fino ad un dato momento. Ma al di là della fabula descritta scegliendo un iper-realismo come per il Pasolini di Teorema e di Salò, non si tratta di un'eredità biologica. Seguendo la traccia lacaniana potremmo dire che il potere divorante si istituisce a partire dal significante fallico che è l'oggetto della soddisfazione e della contesa madre-padre-figli. Laddove c'è identificazione all'oggetto simbolico della soddisfazione l'altro ti divorerà. Quando Maren incontra Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo solitario con la sua stessa pulsione, una riscrittura della ripetizione sintomatica entrerà in opera.
Il viaggio iniziatico di Maren è infatti un viaggio doloroso e impervio di separazione dal sapere dell’Altro che l’ha costituita ma nel quale non si riconosce. L’on the road negli spazi di un’America in cui la mappa si sovrappone al territorio proprio perché è un avviarsi verso l'ignoto, è come tale puntellato di incontri. Maren prima di incontrare Lee si imbatte in Sully (Mark Rylance), quello che potremmo chiamare il mostro ante litteram. Ciò che potremmo finire di diventare tutti. La sua stessa figura incarna l’assoggettamento totale alla pulsione divorante, il dominio della perversione che riduce la società alla logica proprietaria. Sally trattiene a sé i resti delle persone che mangia. Nella scena del loro incontro nella casa di un’anziana solitaria in fin di vita che ha fiutato come ha fiutato Maren – e nel film il senso dell'olfatto ha una priorità sugli altri sensi, diversamente dal privilegio accordato dalla tradizione cinematografica alla vista e al tatto – la macchina da presa indugia sulle reliquie di ciò che resta di un'esistenza e che non entrano nel riciclo della vita stessa. Il fiutare custodisce una doppia valenza: elemento carnale e astratto allo stesso tempo, orchestra la distanza e vicinanza dei personaggi, si fa tangibile proprio nella misura in cui è unfilmable, irrappresentabile. Ponendosi al di là del privilegio del campo semantico dell'occhio che si articola in inquadrature, angolazione montaggio, l'elemento narrativo irrappresentabile dell'olfatto funge proprio da rottura dello sguardo immaginario dell'Altro. Maren intuitivamente non si fida di Sally senza sapere il perché e si sottrae all' «amorevole» proposta di condividere la loro mostruosa marginalità. La marginalità sembra essere l'unica direzione di esistenza nell'ordine costituito della società degli integrati per la quale ciò che devia o semplicemente non risponde ai convenienti binari prefissati funge da minaccia da reprimere e/o sopprimere.
L’incontro di Lee e Maren al contrario è di un altro ordine, quello dell’incontro con una perdita, la rinuncia all’oggetto. O dell'ordine di una doppia cattura per dirla con Deleuze. L'incontro di due sintomi affini che coesistono. Durante il dialogo del loro primo «toccarsi» come l’altro per l’altro, sebbene accomunati dalla medesima pulsione, Lee le descrive la gioia di quando ha divorato il padre prima che questi lo facesse con lui – gioia evocata dall'unica frase pronunciata dal vagabondo cannibale di Porcile – e alla riluttanza di Maren nell'empatizzare con quel racconto, il ragazzo le risponde «non posso mica dirti ciò che ti fa piacere». Sembra apparentemente riproporsi il dialogo di Julian e Ida, tuttavia qui la distanza si qualificherà come differenza, piuttosto che effetto d'alienazione. L'amore, in quanto lasciar essere la differenza nella convergenza, non è narcisistico, il narcisismo si potrebbe definire una forma antropofagica per eccellenza, assimilazione dell'altro alla propria immagine. Solo con la liquidazione del miraggio narcisistico del desiderio, per cui ci si vede amabili (l'ideale dell'io) come visti dall'Altro, si incontra quella faglia che è causa di ciò che siamo. Per i due ragazzi si tratta di trovarsi attraversando insieme paesaggi vastissimi e rarefatti, in un viaggio che è geografico ma soprattutto iniziatico. Provano tutto, devianze e ritorni all'ordine, ribellioni e obbedienze, fughe in un sistema che coopta i reietti stessi alla reciproca eliminazione. Come un vivere la pulsione fino al punto in cui ciò che si divora va di traverso, risulta metaforicamente non inghiottibile.
Tale movimento si fa ancora più palpabile nel punto in cui l'on the road di questo viaggio di formazione che ha il sapore della sospensione del tempo, raggiunge un luogo di arresto: il luogo nel quale Maren trova e vede per la prima volta la madre. La donna trascorre la sua vita da folle reclusa come un corpo posseduto che solo – parzialmente – la sedazione contiene. Maren trova la sua origine lacerante, l'eredità da tragedia greca di cui dicevamo prima e prende corpo un atto di separazione, il cosa fare della pulsione. Anche in questo caso sono affidate ad un lettera le parole che la madre tempo addietro avrebbe voluto comunicarle, parole che contornano il bordo di un buco, quel vuoto nel quale ha sede la possibilità dell'amore. Una saturazione oggettuale ha preso il posto dell'amore, la saturazione del godimento materno padrone del corpo, sebbene sedato, nel quale il linguaggio trova il suo limite. Ciò che si avventa su Maren come da un fuori è la sua origine, pasolinianamente l'incodificabile di un corpo. Come lasciar essere il vuoto? Come riconoscere la risorsa di quel buco che ci consente di non divorare l'altro, ma di incontrarlo e amarlo? Lacan scrive che «l'uomo ama la sua immagine come la cosa a lui più vicina, vale a dire il proprio corpo. E tuttavia il fatto è che del proprio corpo egli non ha la minima idea. Crede che sia “io”. Ognuno crede si tratti di sé. Invece è un buco». A partire dal distacco dal godimento divorante materno un moto desiderante oppone Maren all'unico bivio davanti al quale viene a trovarsi, il bivio tra divorare per sopravvivere o impazzire per sopravvivere.
C'è una terza via? Un terreno di potenze inespresse e non incanalate nei binomi che gli assetti dominanti prescrivono (e pre-iscrivono)? Si tratta di creare il proprio presente: non ripetere il destino materno, non diventare preda della propria pulsione. Senza protezione alcuna. Essere corpo sintomatico con l'altro. D'altra parte quello di Maren è il personaggio meta-testuale del film, la vediamo leggere libri, due in particolare, Il signore degli anelli – ci fa segno di non dimenticare che si tratta di una storia fantastica – e Gente di Dublino di Joyce – il libro delle ceneri per eccellenza, dove paralisi e fuga segnano ogni racconto, materia intrisa dell'orizzonte politico e morale del tempo. La mediazione della scrittura per riscrivere la vita. Come a dire: nella lingua che (si) scrive e si fa parola nulla è dato una volta per tutte.
La strada di Maren sembra non trovare convergenza con Lee, si perdono, ma successivamente si ritrovano sulla strada di questa riscrittura che è separazione dai significanti originari, quei significanti che senza saperlo hanno marchiato i loro corpi facendoli essere in una ripetizione pulsionale irrimediabile. In cosa consiste la separazione se la pulsione fa del soggetto un essere assoggettato ad essa? L'ipotesi di una conversione atta a rendere inutilizzabile lo schema edipico e totemico – per quanto irriducibili – si potrebbe delineare come accoglimento della pulsione in quanto dimensione del sé staccandola dall'altro nei termini di una rinuncia all'oggetto, rinuncia al binomio reversibile cacciatore/preda. Nella misura in cui l'oggetto della soddisfazione pulsionale si perde per lasciare spazio ad una mancanza, nel vuoto si fa strada la decomposizione del corpo divorante verso il suo altrove, vibrazione del molteplice di cui siamo fatti. La molteplicità che abita ciascun corpo rompe la sua costituzione data per ricreare un nuovo corpo, una ricombinazione che è trasformazione, il tracciarsi di una differenza inaudita. Corpo e testo condividono il medesimo abbandono alla disarticolazione, decomposizione e ricomposizione. Maren e Lee abbracciano così un nuovo percorso di vita, insieme. Forse perché frutto di un'aspirazione idealistica da parte del regista o dell'economia narrativa, forse perché si tratta di un'esperienza di cui non c'è coscienza nel momento in cui è vissuta, poco è mostrato di questa vita nella quale la mostruosità, in quanto uno degli elementi del molteplice, è convertita in forme traslate.
Come se dallo schema oggettuale di derivazione edipica non fossimo mai al riparo, sembra dirci il seguito del racconto di Bones and All, non siamo mai al riparo dai mostri plasmati dalla costruzione sociale e da noi stessi, dal movimento identificatorio dell'io, dal suo potere oggettivante. Essendo completamente immersi negli incontri – «non si nasce liberi» scriveva Deleuze – siamo continuamente in balia. Così come siamo perennemente in balia del giogo capitalistico che fa della mancanza il gancio di una corsa infinita alla saturazione. Nel finale la ricomparsa di Sully mette a repentaglio la vita di Maren e Lee. Sully, incarnazione anche forse della ingordigia di un mondo individualista che non rinuncia a sé stesso, perversione dei «padri» che fanno dei «figli» oggetti di proprietà, vuole a sé Maren. E non è un caso se Sally, dopo aver seguito le sue tracce e averla trovata, nella scena in cui è steso sul suo corpo sembri un figlio in cerca dell'accudimento materno. Quasi un'identificazione che riduce l'essere umano con la sua molteplicità a unilaterali funzioni edipiche, la donna-madre-figlia e l'uomo-figlio-padrone.
Nell'estrema e tragica lotta per la sopravvivenza Lee e Maren sono chiamati nuovamente a posizionarsi di fronte all'evento della decomposizione e ricomposizione. Maren senza accorgersene ha ferito Lee che le chiede di mangiarlo fino all'osso. Si tratta della domanda di comunione della carne di cui siamo fatti, di fronte al destino impietoso del dolore. Ma amare non è divorare. Se c’è un amore non narcisistico, dunque non divorabile, esso si pone «nell’al di là in cui, in primo luogo, rinuncia al proprio oggetto» (J. Lacan, Seminario Libro XI, pag. 271). Pertanto è nel vuoto tra due corpi che scorre l'amore. Nell'ultima scena che sembra sussistere a sé, al di fuori della tragedia, vediamo ripresi in campo lungo in un'inaspettata composizione due corpi che sono l’uno a fianco dell’altro, uno con l’altro. Vediamo ciò che sono stati insieme.
Bibliografia
Jilles Deleuze, Cosa può un corpo, Einaudi
Felix Guattari, L'inconscio macchinico, Orthotes editrice
Jacques Lacan, Il seminario Libro XI, Einaudi
Jacques Lacan, Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, Casa Editrice Aatrolabio
James Joyce, Gente di Dublino – Dubliners
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Ileana Zaza è regista, sceneggiatrice e studiosa indipendente. Laureata in Filosofia all'Università di Roma La Sapienza, dopo un percorso teatrale professionale segue i corsi di regia presso la NYFA di New York e la Fondazione FareCinema di Marco Bellocchio. Interessata ai punti di intersezione tra le pratiche artistiche, i saperi e la struttura socio-politica, il cinema come finestra delle visioni del mondo è la prospettiva nella quale opera.
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