Introduzione e considerazioni generali
Nella cornice europea ed internazionale all’interno della quale si inseriscono i fondi del PNRR, l’università emerge come campo prediletto per comprendere le tendenze economiche e sociali che si dischiuderanno nei prossimi anni. Proprio in virtù di questa posizione dell’istituzione universitaria, che non solo rappresenta il collegamento fra mondo dell’istruzione e mercato del lavoro ma è anche luogo importante di riproduzione di soggettività, un gruppo di studenti dell’università di Bologna ha avviato un’inchiesta che indaghi in profondità questa tematica e ha organizzato un seminario che ne discute le implicazioni. I temi del seminario sono stati più volte toccati dagli interventi che abbiamo ospitato in Transuenze, per questo crediamo possa essere utile proporre la trascrizione (a cura di Francesco Manera) del primo incontro tenutosi nel mese di febbraio del 2022. I relatori sono Piergiorgio Ardeni, professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo presso l’Università di Bologna, e Raffaele Alberto Ventura, autore di «Teoria della classe disagiata» (2017), «La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale» (2019) e «Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti» (2020). Le trascrizioni non sono state riviste dagli autori.
* * *
Pier Giorgio Ardeni
Alcune considerazioni introduttive prima ancora di entrare nel merito di Pnrr e università. i sono alcune cose che andrebbero prese in esame. Quando l’OMS dichiarò l’inizio della pandemia nel 2020 il Pil italiano era sui livelli del 2019 e addirittura inferiore rispetto a quelli del 2008. Inoltre, sulle voci di spesa che in particolare riguardano i settori che ci interessano, l’istruzione e la ricerca, l’Italia non aveva fatto molto bene in quegli ultimi anni. Con il Pnrr, l’Europa ha pensato ad una linea di finanziamento straordinaria, che rompe con gli schemi del passato aprendo addirittura alla condivisione del debito tra i paesi membri e consentendo ai paesi di sforare dai vincoli del Patto di Stabilità. Il Pnrr non è pensato per la spesa corrente, che andrebbe in ogni caso reindirizzata.
Per entrare nei temi del dibattito, partiamo dalla situazione delle università italiane: qual è il quadro generale? In Italia ci sono 98 atenei riconosciuti dal ministero, 67 statali e 31 non statali. 30 di questi atenei, quindi meno di un terzo, sono nel meridione. Vi sono poi 159 istituzioni, le cosiddette Afam (i conservatori e le accademie Belle Arti), che fanno comunque parte del sistema dell’istruzione superiore. Il personale docente e ricercatore di quei 98 atenei è composto da 100.000 persone o poco più, di cui 49.000 donne. Negli atenei statali i docenti sono 87.000, in quelli non statali 13.000. Negli istituti Afam ce ne sono invece 6.500. I docenti di ruolo sono 46.000, quindi meno della metà. Moltissimi sono i ricercatori o i docenti a contratto, quindi a tempo determinato e titolari di assegni, che sono la manodopera di base che serve per tenere in piedi il sistema dell’istruzione universitaria. Gli studenti iscritti ai corsi di laurea nell’anno 2021 sono stati 1.000.793, di cui 330.000 matricole; i laureati nell’anno precedente sono stati 344.000; gli studenti iscritti ai corsi post-laurea, invece, 176.000. Di quelli, gli iscritti agli atenei statali erano l’86% e i laureati l’84%. Quindi quelle 31 università non statali hanno una quota di studenti e di docenti molto più bassa. La prima domanda che viene spontanea è se queste ultime siano università d’élite o meno, ma questo è un tema che non ci riguarda direttamente. Comunque, in Italia c’era nel 2021 un totale di 1.881.000 studenti, più quelli del sistema degli Afam. Come sono variati questi numeri negli ultimi anni? Gli iscritti ai corsi di laurea sono leggermente aumentati; anche il numero di donne è leggermente aumentato e le ragazze, in ogni caso, da molto anni sono in maggioranza.
Il rapporto studenti-docenti in Italia è di 18.8, naturalmente differente a seconda dei corsi di studio, delle discipline e del tipo di università. Se consideriamo l’insieme dell’istruzione terziaria (corsi di laurea, corsi post-laurea, etc.), questo rapporto sale a 20,3 Il confronto con gli altri paesi europei mostra che questo rapporto per l’Italia è discretamente maggiore: negli atenei italiani ci sono più studenti per docenti, o meno docenti per studenti. La media europea addirittura è di 15: in Germania il rapporto è pari a 12, in Francia pari 16, in Spagna 12.
Per quanto riguarda la distribuzione degli studenti, innanzitutto viene da chiedersi il perché della prevalenza delle donne tra le iscrizioni. Le donne sono la maggioranza nelle discipline Alph (Art, Literature, Philosophy and History) e nelle scienze economiche, sociali e giuridiche. Per quanto riguarda invece le cosiddette discipline Stem (Science, Technology, Engineering, and Mechanics), su cui tanto si parla anche nel Pnrr, le donne sono rimaste sotto ai 200.000 iscritti, dato sostanzialmente costante e forse leggermente in crescita negli ultimi anni. Se a questo aggiungiamo le discipline agrarie, forestali, veterinarie e medicina, la percentuale sale leggermente, ma rimane comunque inferiore alla media. Gli uomini, che pure nel totale sono presenti in percentuale inferiore, sono sicuramente in maggioranza nelle discipline Stem. Nella retorica del Pnrr s’insiste molto nel potenziamento nell’accesso e nel numero di laureati nelle discipline Stem che sono di fondamentale importanza per l’industria, per il terziario, per il settore dei servizi. Noi sappiamo che c’è, di fatto, una discriminazione di genere: non che sia impedito alle donne di iscriversi, ma una donna ingegnere fa più fatica a trovare lavoro di un uomo ingegnere. Questo è vero per molte altre lauree.
Se confrontiamo questa situazione con gli altri paesi europei, ci sono poi molte differenze: in sostanza l’Italia ha una quota negli Alph che è leggermente superiore all’Unione europea, mentre è sostanzialmente equivalente negli Sl e nelle Stem. Le differenze sono notevoli con gli altri paesi europei: in Germania c’è una grande prevalenza delle Stem, mentre la Francia ha maggiore prevalenza nelle SL; in Spagna la situazione è abbastanza simile all’Italia. Naturalmente questi numeri sono legati all’andamento del mercato del lavoro perché le percezioni e le aspettative sul mercato del lavoro sono importanti, anche in negativo. Ad esempio, le ragazze che si iscrivono all’università per avere un titolo, sanno che per molti versi il mercato del lavoro le penalizzerà, ed è per questo che frequentano meno le facoltà Stem. Questo viene chiamato “ritorno occupazionale del titolo di studio”: esiste questo ritorno occupazionale ed è differenziativo? Sull’intera forza lavoro italiana, tra i 25 e i 64 anni, il tasso di occupazione dei laureati è ben alto, 80%, ma è inferiore alla media europea, che è dell’85%. Nel complesso, comunque, in Italia i laureati che lavorano sono meno. Il tasso per i diplomati, ovvero tutti coloro che hanno concluso la scuola secondaria, è del 70% italiano, contro il 75% della media europea. Guardando tuttavia ai 30-34enni laureati, il tasso di occupazione in Italia è del 78% in Italia, contro l’86% della media europea: questo vuol dire che un giovane che si laurea oggi ha meno probabilità di trovare lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa. Questo dato è all’origine della migrazione verso l’Europa di molti nostri giovani laureati. Sono inoltre da considerare anche le aspettative di salario: un laureato in Europa, soprattutto in alcuni paesi, prende uno stipendio che è molto più alto del corrispondente italiano, divario presente per tutti i livelli di istruzione. Inoltre, il differenziale di genere resta importante anche tra i laureati. Quindi la laurea paga, ma meno che in Europa. C’è, infine, il tema dei Neet (Neither in Employment or in Education or Training), ovvero coloro che non stanno seguendo un corso né hanno un’occupazione, che in Italia sono ben il 23% dei nostri giovani. È evidente che c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe.
Analizzando i dati della spesa pubblica per l’istruzione secondo i dati ufficiali, vediamo che essa dal 2011 non è variata molto. Dai 67 miliardi del 2011 siamo passati ai 70 miliardi del 2019. Rapportando la spesa in istruzione al Pil, anche in questo caso, l’Italia fa peggio degli altri paesi europei: nel 2011 l’Italia spendeva il 4,1% del Pil, nel 2019 il 3,9% contro una media Europea del 4,9%. Anche nel 2020, nonostante il crollo del Pil, il rapporto è rimasto costante. Per l’università in particolare, l’Italia spendeva poco più di sei miliardi di euro nel 2011, mentre nel 2019, come nel 2020, ne spende cinque miliardi e mezzo.
Dopo questa introduzione, entriamo nello specifico del Pnrr. Come sappiamo, esso fa parte del Next Generation Eu. Il piano si articola in sei missioni; quella che interessa a noi più da vicino è la missione numero quattro, su istruzione e ricerca. In realtà, le Università potrebbero partecipare anche ai bandi delle altre missioni, ma non sempre esse sono attrezzate a farlo. L’Università di Bologna, da questo punto di vista, è relativamente messa meglio rispetto a molti altri atenei italiani che non hanno il personale docente competente per partecipare ai bandi.
La missione quattro, dunque, è quella che riguarda direttamente ogni università, ad essa sono assegnati 191 miliardi di euro, fondi che provengono dal Recovery Resilience Facility, integrati dall’Italia con un piano complementare di 30 miliardi di euro. In totale, dunque, sono disponibili 220 miliardi di euro per interventi straordinari che vanno terminati entro cinque anni, ovvero entro il 31 dicembre del 2026. Il piano italiano prevede che il 25% di questi investimenti siano convogliati verso la transizione digitale e il 37,5% verso la transizione ecologica.
Alla missione su istruzione e ricerca sono destinati 30,88 miliardi euro; buona parte di questi interventi sono destinati alle infrastrutture (edifici, infrastruttura digitale e così via); un’altra quota importante allo sviluppo delle competenze Stem, tramite l’istituzione di «campioni nazionali di ricerca e sviluppo» e il potenziamento dei dottorati. Fino ad ora nel Pnrr sono presenti cinque programmi di investimento, che impiegheranno quattro miliardi e mezzo di euro. Stiamo parlando di cifre abbastanza contenute, anche se non indifferenti.
Il Pnrr poteva essere dunque l’occasione per una politica di programmazione di ampio respiro, per ripensare l’economia del paese; si è ridotto ad essere, invece, un grande esercizio burocratico, amministrativo e gestionale, con una complessa impalcatura di bandi gestiti dai ministeri. Mi sembra che non ci sia una visione complessiva, il piano si basa su delle parole chiave come «transizione ecologica» che non sono ben definite. Soprattutto non c’è dietro una «politica» nel senso più profondo del termine, nonostante il governo che ha approntato il piano sia sostenuto dalla maggioranza assoluta del Parlamento. Dai partiti ci si aspettava un documento politico, ma non c’è nulla di tutto questo.
Ci sono poi degli aspetti critici specifici. In primis, la programmazione sarà demandata agli enti locali a cui è richiesta una capacità di concepimento, di ideazione, di messa in campo dei progetti che spesso non hanno. I piccoli comuni non hanno i tecnici, non hanno le competenze, non hanno la capacità di spesa per farlo.
Un altro aspetto critico è dovuto al fatto che il Pnrr è stato concepito come un documento burocratico-gestionale, tirando fuori vecchie idee nel cassetto, spesso pensate prima della pandemia. È come inserire del sangue nuovo in un organismo arteriosclerotico: non risolve il problema perché sono le arterie e le vene ad essere sclerotizzate. Non si può avere innovazione e trasformazione, lavorando su idee vecchie: bisognava lasciare il tempo di concepire qualcosa di nuovo, coinvolgendo la società civile, gli intellettuali, i centri di ricerca, i partiti, i sindacati.
Inoltre, la capacità di precettazione della spesa diventa un vincolo: secondo questo criterio, si allocano i fondi sulla base del numero di progetti già fatti in passato. In questo modo si premierà chi ha dimostrato una capacità in passato piuttosto che pensare a chi è rimasto indietro, creando un circolo vizioso.
C’è poi il tema che riguarda la gestione dei fondi. Il Pnrr mette a disposizione più di quattro miliardi di euro per la ricerca sui temi importanti, ma su questo c’è molta opacità. Ad esempio, con la nascita dei campioni nazionali si sta delineando una sovrastruttura di 27 nuovi soggetti, fondamentalmente centri di ricerca che si mettono insieme, che, una volta divenuta stabile, si andrà a sovrapporre al sistema universitario e agli enti pubblici commissariandoli, visto che le priorità finanziarie sono quelle presenti nel Pnrr. Gli altri soggetti devono adeguarsi alle scelte dei campioni. Ma quali saranno questi 27 soggetti? Come verranno scelti? Da questo punto di vista c’è molta opacità, non si spiega come verrà creata la filiera tra ricerca di base, ricerca avanzata, utilizzatori di quella ricerca.
C’è infine il della relazione università-impresa. Già da molto tempo, c’è un bias a favore dell’impresa e di tutto ciò che è finalizzato al mercato. Nel piano sono definiti chiaramente gli obiettivi: apertura delle infrastrutture di ricerca, utilizzo da parte del mondo produttivo, sviluppo di competenze dedicate alle specifiche esigenze delle imprese, etc. Tutto quello che non riguarda il mondo delle imprese non ha dignità di finanziamento. La stessa ricerca di base viene ricompresa nella ricerca avanzata oppure non viene finanziata.
Il Pnrr, quindi, poteva essere un’occasione importante determinando il potenziamento delle infrastrutture; ad esso si sarebbe dovuto affiancare un aumento del bilancio dello Stato per la spesa corrente e per le spese che riguardano l’esecuzione dei progetti. Nel bilancio dello Stato presentato da questo governo è però prevista una diminuzione della spesa per l’istruzione e la ricerca per il 2021, il 2022 e il 2023 perché abbiamo dei vincoli di bilancio. Ma allora di cosa stiamo parlando?
Raffaele Alberto Ventura
Dare più soldi alla cultura non è necessariamente un bene; più cultura in assoluto, come bene astratto, non lo è ugualmente. Bisogna capire quando non lo è, perché può produrre ineguaglianze, può paralizzare la stessa produzione del sapere. Faccio una piccola premessa, del tutto autobiografica: ho scritto tre libri sul tema del declassamento della classe competente, qualche mese fa ho deciso di riprendere un dottorato iniziato tanti anni fa che non avevo mai portato a termine. Ho iniziato perciò a chiedermi, con grande pessimismo e disincanto, a cosa può servire un dottorato dal punto di vista professionale. Qualche giorno ho letto che Mario Draghi vuole raddoppiare il numero di dottorandi in Italia. Molto egoisticamente, il mio primo pensiero è stato: «a cosa serve raddoppiare i dottorati se c’è già un’enorme pressione all’ingresso delle professioni universitarie?». Considerando che, rispetto alle medie europee, in Italia abbiamo un numero di dottorandi più basso rispetto a quei paesi simili a noi o da usare come modello (mi riferisco a Germania, Inghilterra, Francia), raddoppiando il numero di dottorandi, i posti disponibili non aumenteranno proporzionalmente. L’impressione è che per adesso, anche perché non se ne parla molto, abbiamo costruito molto bene la prima parte di questa tubatura, ma non possiamo sapere che si evolveranno tutte queste risorse che sono state messe in campo.
La prima questione rispetto alla cultura è: cos’è che fa l’università? Chi riproduce l’Università? La risposta è la classe competente, che è una specie di classe dominante, soprattutto nel mondo contemporaneo. L’Università, che è quindi un luogo di riproduzione dell’ineguaglianza, fa due cose: è come un ascensore sociale verso l’alto per alcuni soggetti e, allo stesso tempo, determina il declassamento di altri soggetti (lo scarto tra chi viene formato e chi viene «assorbito» dal sistema universitario o dal mercato del lavoro è ampio).
Questo è il primo punto di partenza per inquadrare cosa un aumento di finanziamento all’università e una certa visione di cultura possono determinare. La riproduzione del sapere è uno strumento attraverso il quale si costruiscono le differenziazioni funzionali nel mondo del lavoro e le differenziazioni economiche. Questo processo non è una questione tipicamente italiana ma è un punto di partenza importante, soprattutto perché la storia del sistema universitario italiano è caratterizzata da queste continue ondate di declassamento e di malessere sociale.
Ultimamente ho letto alcuni documenti della rivolta studentesca francese del ’68, mi ha particolarmente colpito questo passo delle rivendicazioni che venivano fatte nella facoltà di lettere di Lione: «la nostra condizione di studenti non fa di noi degli sfruttati, ma dei privilegiati. Il ruolo dell’istruzione universitaria è quello di prepararci a essere domani degli organizzatori competenti dello sfruttamento. L’università è un oggetto di profitto in cambio dei loro servizi. I quadri che noi saremo divideranno, in parte, il profitto di questo sfruttamento. È per questo che ogni lotta per migliorare l’università della società attuale rafforza necessariamente lo sfruttamento. Ci troviamo dunque in una situazione di per sé contraddittoria». La cosa interessante è che, accanto a questo tema, nel ’68 ricorreva spesso anche il timore di non trovare sbocchi professionali. Nelle rivendicazioni del ‘68 c’è dunque questo aspetto quasi paradossale, una contraddizione tra la volontà di ascesa sociale, il malessere rispetto a questa ingiustizia legata alla differenziazione funzionale della società e la paura del declassamento.
E qui arriviamo al secondo punto, che è la questione della logica della modernizzazione legata al Pnrr, che è sostanzialmente un piano di rilancio. Il nome, Recovery Plan, è lo stesso che fu dato al piano Marshall, cioè il piano di rilancio europeo per eccellenza. Ultimamente mi sono interessato al filosofo francese di origine greca Cornelius Castoriadis che ha lavorato per vent’anni nelle istituzioni europee, prima all’Oce (l’organismo che si occupava dell’esecuzione del Piano Marshall in Europa), poi all’Ocse, che è l’istituzione che si occupa di studiare e consigliare gli Stati sulle politiche di sviluppo. All’epoca si ponevano gli stessi problemi che ci poniamo oggi nonostante le visibili differenze di contesto. Ai tempi del piano Marshall, la ricostruzione è stato un enorme volano di crescita, oggi però non abbiamo molto da ricostruire perché il virus non ha distrutto infrastrutture. C’è quindi questa piccola difficoltà, non a caso la transizione verde svolge la funzione di ricostruzione di un qualcosa, di un comparto macchine e infrastrutturale, in una direzione green. Chiaramente c’è la speranza che il Green New Deal possa sostituire il mondo che si basa sul carbone, sul petrolio, sull’inquinamento. Ci sono però due problemi. Il primo parte da una prospettiva propriamente ecologica: la politica di ricostruzione, fosse anche verde, è una politica che rischia di essere soprattutto di green washing, perché non si esce dalla dinamica dello sviluppo. Faccio un esempio: i monopattini elettrici, presentati come soluzione ecologica, coprono dei percorsi che la gente prima faceva a piedi, costruendo nuovi macchinari che vengono buttati via sei mesi dopo, perché hanno una durata molto breve.
Allora, cosa fa un Recovery Plan? Cerca di finanziare una modernizzazione. Cos’è una modernizzazione? Lo dico da filosofo: è costruire le condizioni, culturali o infrastrutturali per produrre crescita economica. E quindi la politica di modernizzazione è innanzitutto una politica culturale, come abbiamo visto negli anni negli anni ‘50. In realtà io direi che sono due le cose che definiscono una politica di modernizzazione e un piano di «recovery», due ambizioni convergenti quando le cose funzionano: la prima è quella di creare delle condizioni per l’aumento della produttività attraverso la formazione della classe lavoratrice (alfabetizzazione come volano di aumento della produttività, acquisizione di certe competenze specifiche, investimenti in innovazione che dovrebbero rilanciare il ciclo della modernizzazione); la seconda è quella di produrre della domanda. In fin dei conti nessuno crede davvero a questa modernizzazione, si tratta soprattutto di rimettere delle risorse per produrre domanda e mandare avanti ancora per un pochino questa macchina. Qui torna l’idea della cura della carrozzeria, che serve sempre a produrre un effetto simbolico che possa generare un effetto sulla questione del populismo e sulle aspettative sociali: quindi determinare una grande ventata di entusiasmo che travolga la società, in modo tale che per un po’ di tempo si possa dire «guarda che bella macchina, ci risolleveremo e andrà tutto bene». Io credo che questo elemento sia legato alla logica dei mercati: Mario Draghi non serve perché è competente, ma perché rassicura i mercati. È questa la carrozzeria del Pnrr: quei tot miliardi non fanno molto, ma servono a trovarne altri. Mi sembra dunque che il messaggio primario sia quello di far passare il messaggio che il capitalismo occidentale abbia ancora un po’ di respiro per andare avanti qualche decennio. C’è una volontà molto forte di investire in infrastrutture che determineranno crescita economica, questo permetterà di ottenere altri finanziamenti: per questo motivo ci sono una serie di temi che vanno di moda, che i mercati possono recepire come volani di crescita economica. Qui si apre la questione della programmazione: il Pnrr è una scommessa sul futuro, è l’idea di un capitalismo che ha ancora qualcosa da dare o un calcolo molto cinico sul fatto che non ha molto da dare, però prova a ottenere quello che può finché riesce. Quindi bisogna riflettere su cosa significhi fare un’azione di capitalismo avanzato. Cosa vuol dire investire in terziario? Si può investire sul turismo? Davvero l’Italia ha delle risorse per vivere solo di turismo all’infinito? Poi si sentono le lamentele sul turismo, che è una un’industria estrattiva, che danneggia paesaggio, territorio, centri urbani…
Quindi c’è un’idea di futuro, un debito col futuro, un debito economico, ma anche aspirazionale. E qui torno al mio problema personale di cosa farò un giorno, di cosa faranno gli studenti con i titoli che abbiamo. Si genera il problema dell’inflazione, si viene a creare quella che definisco «la classe disagiata», cioè una classe che investe delle risorse economiche e poi si trova a dover affrontare il problema dell’inserimento nel mondo del lavoro. Il problema di fondo è: nel momento in cui noi immaginiamo una politica di modernizzazione, dobbiamo avere un’idea di futuro, almeno vaga. Non che nel 1946 ci fosse un’idea precisa, ma c’erano dei progetti molto specifici. C’era l’idea, ad esempio, che si sarebbe dovuto costruire un mercato unico: il piano Marshall è il laboratorio da cui nasceva l’Unione Europea. Il problema nella pianificazione di oggi è che non abbiamo idea della direzione in cui debbono essere investite queste risorse perché non sappiamo che cosa sarà l’economia fra cinque, dieci o vent’anni.
In questo senso, che l’università cerchi dei ritorni aziendali per poi poter rilanciare l’economia non mi stranisce troppo, perché è ovvio che il Pnrr sia una politica di crescita: il problema è che lo si fa attraverso un sistema di selezione burocratica, che crea una specie di vuoto. Nessuno sa quali sono i settori che funzioneranno e nessuno ha la forza, la volontà politica di deciderlo. In questo senso la decisione politica è importante: quando il governo Castro decise di specializzarsi e investire tutto nella monocoltura della canna da zucchero, aveva un progetto chiaro e definito; il problema della monocultura è l’inserimento nella catena del valore mondiale, il fatto che hai perso la tua autosufficienza e quando muore il tuo sponsor, sei un’isola perduta in mezzo all’oceano. Però quella pianificazione serve a definire un’idea
Oggi si costruisce un enorme debito di aspettative sulla transizione verde, ma i problemi ecologici non scompariranno affatto: tra climate change, picco del petrolio, difficoltà di accesso al gas nell’est europeo, sta arrivando un treno in corsa che ci sta per colpire. Tentare di replicare l’idea del ’46 secondo me significa avere un’idea ottimistica del tempo rimasto al capitalismo occidentale o dei settori che possono ancora essere sfruttati. E questo pone il problema del «cosa faremo, tutti noi, di tutti questi saperi»? L’Italia è un paese che oggi può investire sulla ricerca fondamentale o a questo punto si tratta di risollevare un’economia che è profondamente in crisi?
L’obiettivo dovrebbe essere quello di evitare che questo afflusso di risorse indiscriminato di non produca maggiore ineguaglianza di classe e di genere.
Come si può evitare che questo sistema non sia altro che un ennesimo tributo alla tendenza sovraconsumazionista della società del capitalismo avanzato? Come possiamo evitare che il sistema universitario sia una grande macchina di declassamento e quindi di produzione sociale della delusione? Non a caso una delle keywords del Pnrr è quello di avere un approccio ecologico alla questione università: l’università non è una cosa che galleggia in mezzo al nulla, ma un sottosistema all’interno di sistema. Quindi la riflessione sull’università non può essere fatta se non insieme a quella sugli sbocchi professionali, sulla crescita economica, sulle questioni di genere, sull’ecologia nel senso più ampio: se la cerchiamo di risolvere soltanto come sistema a sé stante interno, non affrontiamo i problemi che sono sostanziali. Quando si parla di spesa pubblica italiana non si dice spesso che la spesa per l’istruzione in Italia viene sostanzialmente compensata dalle famiglie, cioè da enormi investimenti privati. Ora questo non è una giustificazione, anzi, è il problema italiano; però è anche vero che se vogliamo porci il problema di quanto l’Italia investe in istruzione secondo me dobbiamo pensare anche a questa cosa e al fatto che, in fin dei conti, si sotto-investe proprio perché si pensa che il privato in qualche modo compenserà. Il mercato del lavoro italiano tende a leggere poco i titoli: i mercati molto centralizzati, con grandi aziende concentrate, tendono a usare i titoli di studio come segnali per trova la forza-lavoro, producendo retroattivamente un incentivo all’istruzione; in Italia questo incentivo non c’è, perché la struttura produttiva è basata sulla piccola-media impresa che preferisce la bassa produttività, perché gli fa comodo sul breve termine.
Quindi, va bene aumentare il numero dei dottorandi, ma poi quale sarà il loro sbocco? Una riflessione globale su quello che l’Italia vuole essere politicamente è fondamentale: vuole essere un paese che accetta la sfida della modernizzazione? Lo può fare? Territorialmente, culturalmente è in grado di riuscirci? Insomma, si pongono tutta una serie di questioni che sono profondamente politiche e non tecniche.
Un’ultima cosa prima di concludere. Si cerca sempre di dare un’interpretazione oracolare degli obiettivi del Pnrr: gli investimenti universitari sono una politica di assistenzialismo per creare domanda in un’ottica keynesiana? Sono davvero dei meccanismi per produrre modernizzazione? Cosa volevano fare davvero? In effetti non è molto chiaro e io lo pongo come questione epistemologica nell’analisi delle questioni politiche; credo che quando si riesce a sbloccare una decisione politica, di questa ampiezza oltretutto, significa che si è fatto combaciare, convergere delle finalità diverse. Io trovo suggestiva l’idea di analizzare i sistemi politici come sistemi teleologici, ma forse non lo erano nemmeno quando c’erano i sovrani. Quindi la questione della finalità non si pone nemmeno, perché probabilmente il Pnrr non è il prodotto di una finalità specifica, ma il punto d’incontro tra varie finalità. C’è, secondo me, un’indecifrabilità di fondo di queste politiche.
Comments