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L’occupazione del Cantinone

Tradate, 14 dicembre 1975





Cantinone.

Chi conosce questa parola ne conosce anche il significato.

Chi conosce questo luogo ne sa capire il senso.

Chi aveva 18 anni allora li continuerà ad avere per tutta la vita.

Chi ci ha lavorato lo ha scolpito nel cuore e lo rivivrà sempre anche senza la memoria delle immagini sbiadite.

Chi ha avuto quella giovane sfrontatezza ha cambiato la propria vita è forse anche quella di altri.

14 dicembre 1975


(Donata V.)


* * *



Riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza[1] Abbiamo deciso di occupare un posto perché ci siamo trovati in tantissimi ragazzi di un piccolissimo paese vicino alla cittadina di Tradate in provincia di Varese – giovani, prevalentemente operai o studenti figli di operai della prima scolarizzazione di massa – dentro un locale dove ci ammassavamo, morivamo per il fumo delle sigarette, ci pigiavamo perché non ci stavamo più.

La cosa curiosa è che questa straordinaria aggregazione si era determinata spontaneamente, dietro non c’era nessuno, non c’erano forme politiche, di coscienza politica. Sì c’era un po’ di effetto della propaganda politica diciamo rivoluzionaria che arrivava come eco dalla città da Milano, da Varese, il capoluogo di provincia, però principalmente si trattava, come diceva il nostro compianto Primo Moroni, di una «rivolta esistenziale».

C’è stata un’aggregazione basata su bisogni di carattere esistenziale, di fuoriuscita da quelle condizioni sociali di ghetto spaventoso del paese, da quelle zone così arretrate socialmente, dal punto di visto culturale, dei costumi, delle passioni. Bisogna ricordare che era il 1975, quindi un periodo che seguiva alla grande ondata del ’68-69, un’ondata lunga che era partita dalle metropoli dove c’erano state le lotte operaie e studentesche e che si era poi lentamente propagata sul piano culturale, delle trasformazioni dei costumi, delle trasformazione materiali delle esistenze arrivando a informare anche le situazioni più periferiche, i quartieri periferici delle città, espandendosi poi nell’enorme provincia milanese informando il vissuto di quei giovanissimi proletari. Costoro erano estranei ai luoghi della socializzazione sia cattolici (le Acli, gli oratori) che di sinistra (le vecchie cooperative o case del popolo che ormai erano gestite in maniera stanca). Quegli spazi non offrivano alcun tipo di interesse, di stimolo per una serie di bisogni prodotti dal ’68. La media dell’età degli occupanti era intorno ai vent’anni, erano quindi persone giovanissime. L’occupazione è stata un’intuizione caratteristica di quella nuova tensione per qualcosa che assomiglia di più a Mondo Beat piuttosto che ai gruppi extraparlamentari. Ciò che ha permesso l’aggregazione, e ha fatto nascere l’esigenza dell’occupazione di uno spazio è stato qualcosa che aveva un carattere di appropriazione delle cose culturali, della musica.

Pensiamo inoltre a che cosa voleva dire la liberazione sessuale in quei posti che erano caratterizzati da una cultura clericale chiusa, da una situazione di famiglie molto tradizionali. Quindi è stato un moto di liberazione.

Durante i tre giorni di occupazione non si è potuto ovviamente fare molto; c’è stata una grande festa, dei concerti, degli spettacoli teatrali.

Si è creato immediatamente uno scontro con il ceto politico che da pochi mesi si era insediato come governo delle sinistre dopo trent’anni di potere democristiano. Quando abbiamo occupato molti non lo sapevano neanche che c’era una giunta di sinistra. Quel ceto politico prese la cosa come una provocazione ordita dalla destra contro di loro, non hanno capito assolutamente nulla perché in realtà l’iniziativa era piuttosto impolitica.

Ci fu un cortocircuito, perché la sinistra pensava che fosse una provocazione della destra, mentre la destra pensò che si trattava di bolscevichi che appena arrivati al governo della città avevano scatenato i giovani per espropriare i preti. In realtà quei giovani non c’entravano assolutamente niente con la tradizione della sinistra istituzionale, con il Partito comunista, tanto è vero che il Partito comunista, il Partito socialista, ma anche alcuni gruppi extraparlamentari, si scagliarono contro l’occupazione pensando appunto che fosse una provocazione, perché non era caratterizzata dalla coscienza politica, non era diretta da istanze politiche. Poi intervenne la polizia che sgomberò. Però quell’esperienza segnò un qualcosa di veramente grosso, perché quello fu l’inizio di un processo di politicizzazione indipendente, fuori dai partiti. Per due anni ci furono lotte ininterrotte sul territorio che portarono al fatto che la giunta comunale dovette concedere uno spazio per un Centro sociale, un luogo che esiste tutt’ora.


Lotte territoriali e proletariato giovanile Occupazione del Cantinone: il programma è la riappropriazione[2]

(...) Il posto c’è: lo paghiamo? Una sera ci siamo trovati in sessanta in un buco di quattro metri per quattro, tutti d’accordo che ne avevamo piene le palle di: vita, lavoro, famiglia, professorini della politica, discorsi fumosi, scazzi ideologici. Insoddisfazione di vivere, ridotto spazio di incontro e di comunicazione libera, limitate possibilità di nuove esperienze e di nuovi interessi, mancanza assoluta di coordinamento e organizzazione delle nostre lotte; tutto ciò castrava ogni intervento politico relegandolo nell’ambito di un’opinionismo sterile e inutile ai nostri fini organizzativi. Questo Centro s’ha da fare e subito. Non era avventurismo piccolo borghese, come lo hanno poi definito i riformisti, erano piuttosto i bisogni proletari analizzati e stesi su un programma di intervento politico sul territorio da giovani operai, donne, studenti, precari e disoccupati. Per la costruzione del centro le strade erano due: pagare oppure no. A quel punto pagare, cioè prendere in affitto uno o più locali, significava non cogliere ciò che il movimento esprimeva, e cioè essenzialmente il principio della riappropriazione come fulcro dell’intervento politico sul territorio. Lo spazio fisico di cui avevamo bisogno esisteva e il proprietario era il clero, padrone di mezza città. Colpire il clero significava indubbiamente colpire un centro di potere, mettere al primo posto le esigenze di organizzazione proletaria contro l’ordine costituito della proprietà privata; significava superare la logica della mediazione con i riformisti della giunta «rossa» al governo da pochi mesi e impegnati nella costruzione del progetto di potere socialdemocratico sul territorio.

Parte la lotta La mattina del 12 dicembre si occupa il Cantinone di proprietà delle suore, una vecchia osteria ora adibita a deposito di assi. Siamo una sessantina, ma immediatamente il numero dei giovani aumenta non appena si propaga la notizia dell’occupazione. Mentre alcuni compagni cominciano lo sgombero del materiale edilizio si impiantano le strutture essenziali di servizio e una commissione stampa permanente; altri compagni cominciano la propaganda con una capillare distribuzione di volantini e affissione di manifesti dove si schematizza il motivo dell’occupazione e il programma del centro. Nel pomeriggio giovani di Tradate e dei paesi vicini arrivano a centinaia dando una mano, un parere, un suggerimento, un aiuto materiale. Ma intanto comincia anche la farsa delle apparizioni, da allora sempre più frequenti, dei burocrati della giunta. I loro sono isterismi, imprecazioni e provocazioni, ma nascondono una sostanziale paura: quella di vedere concretizzarsi un progetto di organizzazione autonoma del proletariato giovanile, fuori cioè dagli schemi prestabiliti dai programmi dei loro partiti. Davanti alla nostra determinatezza, alla nostra convinzione della validità della lotta, all’aggregazione sempre più numerosa dei giovani proletari di tutta la zona circostante, i socialdemocratici hanno maturato lucidamente e con coerenza il loro progetto di repressione di tutte le lotte autonome, la scelta politica della calunnia e della repressione più dura.

Sabato 13 dicembre, assemblea pubblica al Cantinone. Più di quattro ore di dibattito politico tra rivoluzionari e socialdemocratici; quattrocento persone, interventi accesissimi attorno alla tematica dell’appropriazione. Più di quattro ore in cui, mentre

noi illustravamo il nostro programma, loro (i corvi del Pci, Psi, Pdup) insistevano col proporci lo sgombero volontario, a definirci irresponsabili, avventuristi, a dire che la classe operaia ha superato da tempo certe «forme di lotta» ribadendo continuamente che il Cantinone, essendo proprietà privata andava restituito ai proprietari (chiedendo anche scusa).

Il risultato finale: il Cantinone è stato espropriato dal proletariato giovanile, da qui non ce ne andiamo. D’ora in avanti i riformisti ci chiameranno fascisti, provocatori, teppisti, mentre prima (sindaco in testa) ci chiamavano calorosamente compagni.

Domenica 14, terzo giorno di festa con un bombardamento di canzoni, storielle, cabaret improvvisato, capannelli e piccole assemblee, un’aria nuova d’amicizia anche tra sconosciuti; la gente è tantissima. Tra tanti episodi bellissimi, uno in particolare. Sabato mattina un vecchietto ci porta il latte dicendo di stare attenti alla polizia per poi ritornare la mattina dopo con il latte e la solita raccomandazione. Altra gente porta sigarette e altro materiale occorrente; giovani offrono soldi, gli anziani ci portano la loro testimonianza di ciò che era una volta il Cantinone: non sono menate romantiche, sono fatti accaduti che testimoniano lo stato d’animo che invadeva gli occupanti e i «visitatori» in quei tre giorni. Domenica sera il sindaco con il suo stato maggiore ci viene atrovare: «Lasciate il Cantinone oppure...».

Invitiamo i corvi a uscire, dopodiché teniamo la nostra assemblea e si decide di restare. Quando i corvi tornano, al canto spontaneo di «Bandiera rossa», li mandiamo senza mezzi termini affanculo. L’ultimatum era scaduto. Dalla mezzanotte in poi la polizia poteva arrivare da un momento all’altro.

Alle ore 5.30 di lunedì il servizio d’ordine notturno dà l’allarme. In un minuto e mezzo il Cantinone viene sgomberato ed evacuato non potendolo difendere militarmente. Un centinaio tra Ps e carabinieri armati di mitra circondano lo stabile; lanciano

dentro qualche lacrimogeno convinti di sorprenderci nel sonno. Non trovando nessuno si abbandonano a un’orgia di ripristino: lo striscione incendiato, palco per spettacoli e panchine distrutti, gli infissi provvisori di cellophane sconquassati, la porta murata. Riconsacrato il vecchio isolamento, ripristinato l’ordine.

Una scintilla di libertà veniva momentaneamente spezzata.

«Riprendiamoci la vita – era scritto su un nostro volantino – l’occupazione è sorta dall’esigenza di alcuni compagni del tradatese di gestire e vivere soprattutto uno spazio diverso». Si introduceva il problema della riappropriazione per un modo diverso di vivere «riscoprendo la gioia dello stare insieme, di conoscersi, di vivere quei momenti che ora siamo costretti a subire nei luoghi di ricomposizione creati dal capitale». Si parlava dì costruire un centro dove potesse avvenire la ricomposizione di classe permettendo così di frenare la «continua disgregazione operaia... (esigenze del proletariato giovanile, organizzazione delle lotte in fabbrica e sul territorio)».

A Tradate sembra che tutto sia ritornato come prima. «Ma la festa non è finita, riprendiamoci la vita. 10. 100, 1000 Cantinoni» è ora la nostra parola d’ordine. Abbiamo tratto insegnamenti e valutazioni molto importanti da quei tre giorni di lotta. Il programma è vincente! il programma CONTINUA.


Il ruolo del riformismo

Ma in ogni caso il dato più rilevante che sì è potuto cogliere durante l’esperienza dell’occupazione è quello che riguarda il comportamento dei riformisti e in specifico del Pci. Dapprima i burocrati del partito «della classe operaia» hanno tentato il ricatto nei confronti dei giovani, agitando con slancio romantico e vittimistico lo spauracchio della sicura strumentalizzazione dell’occupazione da parte dei democristiani.

Poi, una volta resisi conto delle reali dimensioni e intenzioni dell’occupazione, sono passati alla calunnia, alla delazione e alla repressione più spudorata. Nei confronti di questi ultimi e sbavanti cani da guardia del capitale, noi non avanziamo nessuna pretesa di confronto e tantomeno di recupero. Il proletariato giovanile, nella pratica, ha vissuto sulla propria pelle la repressione di questi più ambiziosi candidati alla futura direzione dello sviluppo capitalistico in senso socialdemocratico.

L’organizzazione, lo sviluppo, la concretezza, la vastità del programma dell’autonomia di classe ha gettato il panico tra i funzionari ed i burocrati della giunta «rossa».

Organizzazione e ricomposizione di classe, sviluppo dell’autonomia e organizzazione dei suoi comportamenti: questo è il nostro programma.


Comitato autonomo Venegono-Tradate



Note [1] Da: Centri sociali. Mappe di un’utopia, programma radiofonico di Radio Rai 3, 3 ottobre 2009. Intervista a Sergio Bianchi a cura di Marco Philopat. [2] Da: «Contropotere», n. 1, Saronno 1976.



Immagine: Margherita e Donata C.


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Sergio Bianchi ha lavorato per il cinema e la televisione. È stato tra i fondatori della rivista e poi della casa editrice DeriveApprodi, di cui è amministratore unico e direttore editoriale. Ha curato i saggi: L’Orda d’oro. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale (Feltrinelli 2015); La sinistra populista. Equivoci e contraddizioni del caso italiano (Castelvecchi 2003); con Lanfranco Caminiti: Settantasette. La rivoluzione che viene (2004) e i volumi I, II, III de Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie (DeriveApprodi 2006, 2007, 2008); con Raffaella Perna: Le polaroid di Moro (DeriveApprodi 2012); con Nanni Balestrini e Franco Berardi Bifo: Il ’68 sociale politico culturale (alfabeta2 2018). È inoltre autore di: Storia di una foto.Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine icona degli «anni di piombo» (DeriveApprodi 2010); Figli di nessuno. Storia di un movimento autonomo (Milieu 2016) e del romanzo La gamba del Felice (Sellerio 2005).

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