Ripetutamente, nell’ultimo anno, abbiamo dedicato spazio e contributi della rubrica ad analisi, opinioni, approfondimenti all’esplosione del cosiddetto «smart working», che l’autore del contributo che segue, opportunamente e in accordo con la maggioranza degli studiosi che hanno esplorato l’argomento, preferisce definire «remote working». Sullo stesso tema pubblichiamo la trascrizione di un intervento di Andrea Fumagalli, economista e militante politico, che in queste pagine non richiede ulteriori presentazioni, autore da almeno tre decenni di saggi e articoli sulle trasformazioni del capitalismo e del lavoro contemporanei, e tra i principali promotori di sperimentazioni politiche e iniziative editoriali. Fumagalli rilegge i risultati di alcune delle numerose inchieste «ufficiali» realizzate nell’ultimo anno sul tema, inquadrando la svolta del remote working nelle trasformazioni più complessive dell’organizzazione produttiva e dell’accumulazione, con l’emergere del «platform capitalism» e dei nuovi livelli consentiti dall’impiego delle nuove tecnologie nella cooperazione tra macchine digitali e capacità umana viva.
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Parto dicendo che il termine «smart working», diventato ormai di uso comune, secondo me è un abuso, perché in questo tipo di lavoro di «smart» c’è ben poco. Se dovessimo utilizzare una definizione corretta, dovremmo utilizzare «remote working». Il termine «smart», infatti, implica una suggestione di benessere che non sempre cattura la condizione effettiva di chi lo svolge.
Fatto questo breve inciso, queste brevi considerazioni che propongo si svilupperanno su tre livelli per poi concludere con la discussione di alcuni risultati di una ricerca svolta dal «Laboratorio Futuro» dell’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica, intitolata Il futuro delle città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid-19 da cui emergono dati empirici particolarmente interessanti. Il primo livello riguarda i processi di trasformazione del lavoro ai tempi del capitalismo delle piattaforme; il secondo tema discute il processo definito di «platformization» del lavoro; nel terzo punto tratterò i problemi relativi alla regolamentazione (o deregolamentazione che dir sì voglia) di questa particolare forma di lavoro.
Partiamo dal primo punto, senza soffermarsi troppo sui particolari. «Capitalismo delle piattaforme» è una definizione diventata di uso corrente in seguito all’omonima pubblicazione del bel libro di Nick Srnicek del 2016. Dico subito che secondo me non si tratta semplicemente di una forma di capitalismo: poteva essere interpretata come tale fino a poco tempo fa, quando lo si intendeva come qualcosa che utilizzava delle specifiche e degli strumenti, in particolar modo un’infrastruttura connessa allo sviluppo tecnologico legato agli algoritmi che si aggiungeva a forme di organizzazione della produzione del lavoro che si erano sedimentati, anche se in forme nuove, nel recente passato. Oggi possiamo chiederci se effettivamente il capitalismo della piattaforme sia diventata la forma predominante di capitalismo sussumendo le altre forme esistenti, tema che meriterebbe di essere sviscerato con maggior tempo. La mia opinione, ma non ho gli elementi per una conferma più sostanziale, è che il capitalismo delle piattaforme oggi sia la punta avanzata del capitalismo cognitivo. Le piattaforme, infatti, si basano sullo sfruttamento di economie di scala di tipo dinamico e hanno a che fare con la produzione intangibile, anche se la forma di lavoro sottostante è tutto tranne che immateriale. Pensiamo ai cosiddetti «clic workers», analizzati in un recente testo da Antonio Casilli (En attendent les robots, tradotto in italiano con il titolo di Schiavi del clic e pubblicato da Feltrinelli). Queste economie di scala dinamiche fanno cumulo sfruttando delle tecnologie (come quelle legate agli algoritmi, alla gestione dei dati, alle nanotecnologie) che hanno una proprietà particolare, assente in quelle tayloristiche: un elevato grado di cumulabilità, il principio per cui, utilizzando una particolare tecnologia, si provoca un incremento dello sfruttamento delle economie di scala e contemporaneamente si facilita il processo di innovazione. La cumulatività è una proprietà di tutte quelle tecnologie che riguardano l’apprendimento, la conoscenza, la relazione, l’informazione. Per fare un esempio che rende utile a chiarire il concetto: più uso una nuova lingua più la apprendo; più la apprendo, meglio parlo; meglio parlo, più la trasformo. Questo meccanismo si è reso evidente con le prime tecnologie informatico-digitali degli anni Ottanta, che hanno prodotto lo sviluppo di software in grado di generare nuovi linguaggi in maniera automatica. Se prima questo processo avveniva attraverso un intervento diretto e più o meno controllato della capacità umana (e quindi il valore era creato da un’attività lavorativa in qualche modo strutturata rispetto alle forme di flessibilità lavorativa sviluppatesi negli anni Ottanta e Novanta), oggi questa cumulatività tecnologica avviene sempre più in maniera automatica. In questo senso, il termine «industrializzazione» nell’accezione alquatiana ha una sua pregnanza perché gli algoritmi di seconda generazione, ovvero quelli che si basano sul deep e sul machine learning, cioè capacità di creare modalità di comunicazione, di manipolazione, di business intelligence che viene fatta sempre più attraverso un processo di neo-taylorizzazione: se negli anni 80 gli hacker dovevano avere delle skills particolarmente sviluppate, oggi la capacità di un algoritmo di II generazione è legata ai clic workers, un lavoro dequalificato e routinario, che non ha un posizionamento fisico predeterminato come l’operaio alla catena di montaggio della fabbrica del Novecento. Se è vero che questa attività lavorativa diventa standardizzata e organizzata, le capacità cognitive e relazionali che questa attività lavorativa obbligano rimangono inalterate, in quanto l’informazione con cui si entra a contatto nel lavoro non è immediatamente materiale. Il capitalismo delle piattaforme, fissando un nuovo modello di organizzazione della produzione, ha definito un nuovo modello di organizzazione del lavoro, ha rinnovato il rapporto capitale-lavoro, questo è un punto fondamentale. Stiamo assistendo ad una metamorfosi del rapporto tra macchina o macchinico e capacità lavorativa umana. Usando uno slogan, potremmo definire questo processo come il divenire macchina dell’umano e il divenire umano della macchina. Questione che non riguarda solo alcuni settori o caratteristiche lavorative: questo processo sta avendo una dinamica pervasiva simile a quella del computer, che è diventato uno strumento utilizzato in ciascun settore produttivo. Per questo motivo penso che oggi il capitalismo delle piattaforme sia la nuova frontiera dell’accumulazione e della valorizzazione all’interno del quale è necessario sviluppare le forme più avanzate di conflitto.
Credo che oggi si stia definendo anche un processo di intrusione di questa infrastruttura tecnologica all’interno del rapporto lavorativo diretto. Arriviamo al secondo punto che vorrei analizzare, quello che abbiamo definito «platformization» del lavoro, oltre che della produzione, della valorizzazione (su cui molti hanno già scritto) o della finanza, come il caso GameStop ci ha mostrato.
In questo processo, il lavoro a distanza rappresenta il caso più significativo. La prestazione lavorativa oggi tende a non avere un rapporto diretto con l’output da produrre: da un lato per via del fatto che quest’ultimo è sempre meno fisicamente definibile; dall’altro, ed è il motivo principale oggi, perché il lavoro oggi viene applicato direttamente sull’infrastruttura tecnologica, a prescindere dall’output che viene prodotto. In pratica, il cambiamento qualitativo della prestazione lavorativa è la questione preminente oggi.
Questo quadro generale che ho descritto serve a catalogare il lavoro da remoto. Arrivo su questo punto. Il lavoro da remoto viene spesso considerato come un esempio di ciò che Sergio Bologna in Lavoratori autonomi di seconda generazione definiva «domestication», ossia il lavorare da casa. Rispetto a questo punto, le reazioni che vengono fuori nella ricerca che citavo prima, come vedremo, sono variegate a seconda dei contesti.
Ma lavoro da remoto non è soltanto lavoro da casa. Per cogliere la trasformazione radicale del nuovo modello di organizzazione produttiva bisogna considerare che il lavoro nel capitalismo delle piattaforme viene applicato a uno strumento, ad un device che può essere utilizzato per un’eterogeneità di scopi. Questa che ho descritto è una forma di alienazione perché chi lavora perde la concezione della finalità dell’attività che sta svolgendo. Chi lavora ha l’illusione di essere padrone di sé stesso perché controlla il device, ma in realtà, spesso, si realizza quello che descriveva Marx con grande arguzia nel capitolo su Macchine e grande industria del primo libro del Capitale, ovvero che non è il lavoratore a controllare la macchina ma è il lavoro morto a sussumere e controllare il lavoro vivo.
La domanda è dunque: la tecnologia ci libera o ci opprime? Secondo me, la tendenza è verso la creazione di una nuova forma di neo-schiavitù, questo per vari motivi. Il più evidente è il fatto che diventa assolutamente indefinibile l’orario di lavoro: attività di vita e attività lavorativa sono estremamente sovrapposte. Questo è un punto su cui le organizzazioni sindacali, non a caso, spingono fortemente per trovare una qualche forma di regolamentazione. Si tratta del cosiddetto diritto alla disconnessione che non è riferito solo ai rider per intenderci, ma a qualsiasi lavoratore collegato alle app o ai device. C’è una sorta di obbligo auto-imposto a rimanere connessi per non perdere le informazioni, pensate all’uso di Facebook o di altri social per molti giovani e non.
Questo è l’esempio più lampante di quanto nel passaggio dal capitalismo cognitivo al capitalismo bio-cognitivo la vita venga messa a valore direttamente dalla piattaforma, senza necessità di un’intermediazione o di un rapporto di lavoro. Sulle piattaforme, infatti, si sviluppa un ingente massa di lavoro non pagato che è la base dei nuovi processi di valorizzazione e di eterodirezione. Il lavoro da remoto, anche se a primo impatto dà un’illusione di libertà maggiore, mette in moto un processo di organizzazione delle piattaforme che è molto rigido e gerarchico, che è controllato in maniera unilaterale da chi gestisce la finalità stessa della piattaforma.
L’altro aspetto importante da sottolineare è la vaporizzazione del luogo di lavoro che viene portata a termine. Orario, luogo e specializzazione del lavoro sono i tre principali cardini su cui si definisce l’organizzazione del lavoro. Il lavoro dipendente a tempo indeterminato, ad esempio, richiede che tutte e tre le caratteristiche siano ben definite e certificate. Col venir meno della definitezza dell’orario e, fenomeno più recente accelerato dall’emergenza pandemica, la destrutturazione del luogo fisico, il lavoro cambia la sua natura qualitativa. Non si tratta solo della domestication di cui parlava Sergio Bologna, che si riferiva ad un particolare segmento, il lavoro autonomo di seconda generazione; possiamo dire che oggi siamo diventati tutti lavoratori autonomi di terza generazione perché, indipendentemente dalla tipologia del contratto, l’organizzazione complessiva tende a sviluppare forme di lavoro con una postazione non fisicamente definita.
Oltre alle importanti questioni di carattere giuslavorista, si staglia all’orizzonte una domanda fondamentale: chi lavora da remoto è proprietario del mezzo di produzione? Tema che meriterebbe un approfondimento specifico, ma per il momento basta porre in evidenza il fatto che viene meno la separazione rigida tra lavoro dipendente o meno. Credo che oggi esistano pochissimi casi di lavoro effettivamente indipendente. I lavoratori dipendenti subordinati con un contratto collettivo di lavoro è oggi di fatto precarizzato, flessibile, incerto, ricattabile. Il concetto cardine per definire dal punto di vista giuslavorista il lavoro nel capitalismo delle piattaforme è quello di eterodirezione, anche se esiste un vulnus di non poco conto: dal punto di vista giuridico non esiste una definizione ufficiale di questo concetto. In ogni caso credo che questo aspetto andrebbe analizzato in maniera interdisciplinare tenendo insieme aspetto giuridico, economico, antropologico e così via.
Sul lavoro eterodiretto, dunque, si apre uno dei punti chiave: chi mette a disposizione i mezzi necessari per il lavoro da remoto? Il lavoratore o il committente? Non c’è chiarezza su questo aspetto considerato che questa materia non è ancora oggetto di regolamentazione, fornendo un assist alle imprese, che continuano ad avere il coltello dalla parte del manico.
Apro una piccola parentesi: questo tema non è completamente nuovo, perché già con lo sviluppo delle catene internazionali del valore negli anni Novanta, i mezzi di produzione dell’output venivano concessi in leasing ai subfornitori, che dunque non ne erano proprietari. Questo faceva dei subfornitori degli imprenditori senza mezzi di produzione, una sorta di lavoro eterodiretto. Questa situazione si sta estendendo di fatto anche alle catene del valore non globalizzate ma locali. Si sta estendendo, infatti, nella grande distribuzione organizzata, nei servizi alle persone nelle aree metropolitane, nei servizi pubblici, grazie all’esistenza di tecnologie algoritmiche che permettono tutto ciò.
Ricapitolando: destrutturazione dell’orario e del luogo di lavoro, rapporto con lo strumento ambivalente ed eterogeneo sono alcune delle questioni che pone la nuova organizzazione del lavoro. C’è un altro grande tema che va introdotto: la conferma della tendenziale individualizzazione del lavoro, questo è il punto politico. L’erogazione della prestazione da remoto diventa l’archetipo del processo di individualizzazione del lavoro. Questo pone un problema sulla soggettività dei lavoratori, che si modifica in tempi velocissimi, con effetti di percezione e reazione diversa tra le varie generazioni. Utilizzo alcuni dati della ricerca che ho introdotto. Innanzitutto anticipo che è una ricerca classica che rientra nell’ambito mainstream. Si riferisce ad un campione di 400 aziende e 700 lavoratori localizzati a Milano e provincia, perciò i risultati non sono estendibili a qualsiasi parte d’Italia.
Passo in rassegna alcuni dei risultati più interessanti. Il primo dato che viene fuori è che il 43% delle aziende di Milano e provincia ritiene che non ci siano le condizioni per rendere attuabile lo smart working. Effettivamente, l’introduzione dello smart working presuppone il superamento di alcuni vincoli, per cui alcune prestazioni possono essere erogate in questa modalità, altre meno. A determinare questa possibilità sono vari elementi: ad esempio, il settore di appartenenza (è abbastanza banale dire che da questo punto di vista il settore maggiormente penalizzato è il piccolo commercio e, in generale, le piccole imprese) o il posizionamento territoriale (perché dipende dalla possibilità di usufruire di reti di connessione di una certa portata). Le imprese che operano all’area metropolitana di Milano, dunque, accedono molto più facilmente allo smart working rispetto a chi è posto nelle periferie. Le aree metropolitane, detto in altro modo, permettono di sfruttare le esternalità positive del territorio. La capacità di fare cumulo nei contatti e nelle connessioni ha permesso ad alcune piattaforme di assurgere a posizioni monopolistiche a livello globale nel giro di 15 anni, cosa impensabile nel capitalismo taylorista-fordista, dove per assumere una posizione di tale predominio servivano più di 50 anni. Quella che è stata definita «network» o «connection economy» favorisce dunque il processo di concentrazione oligopolistica.
Un altro dato interessante della ricerca è che lo smart working prima della pandemia era molto marginale. Oggi, invece, la metà di quel 57% che ha la possibilità di utilizzare il lavoro da remoto, lo usa effettivamente, un’altra metà ha una gestione ibrida.
Per quanto riguarda gli aspetti che riguardano i lavoratori: la ricerca dice che alla domanda «che valutazione dai all’esperienza di lavora da remoto» in una scala che va da 1 a 10, la valutazione data dall’impresa è, in media, 6,64; per i lavoratori invece è intorno al 5,9, in media. Questo dato va poi scaglionato sulle tipologie di lavoro, sul settore etc. Viene fuori una correlazione tra valutazione positiva al quesito e titoli di studio e mansione di servizi avanzati. Man mano che si scende verso le mansioni più dequalificate la soddisfazione tende a ridursi.
Un’altra importante domanda che possiamo porci è: la prestazione da remoto può essere un parametro che va a ridefinire la divisione del lavoro? La prima divisione del lavoro partorita dal capitalismo è quella smithiana della fabbrica di spilli, che ha portato al successo il paradigma taylorista; negli anni ‘70 con lo sviluppo delle tecnologie della conoscenza, si è sviluppata la divisione del lavoro cognitiva, basata sulla possibilità di accedere o meno agli strumenti cognitivi; col processo di internazionalizzazione della produzione abbiamo oggi una divisione spaziale o internazionale del lavoro. Oggi il lavoro da remoto introduce la possibilità di una nuova divisione del lavoro? O invece è il riflesso tra la commistione delle divisioni del lavoro già conosciute? Domanda a cui è difficile rispondere oggi. Dalla ricerca viene fuori che sicuramente la divisione cognitiva del lavoro influenza l’accettazione del lavoro da remoto. Il dato più interessante è che alla domanda sull’incremento della produttività indotto dal lavoro da remoto, le risposte dei lavoratori producono una media di 7 su 10. Anche questo dato non è sorprendente. Chi ha avuto esperienza di questa nuova forma di lavoro si è accorto subito della differenza, che può essere strettamente legata al fatto che non avendo un orario di lavoro tutto il tempo di vita può essere messo a frutto, determinando un aumento sostanziale della produttività. Aumento della produttività non implica però un miglioramento della qualità del prodotto o del servizio erogato, ma si traduce immediatamente in aumento del grado di sfruttamento. Un elemento che viene fuori è che a rispondere con una valutazione più alta sono i lavoratori della provincia che, come abbiamo visto, hanno possibilità ridotte di accedere allo smart working. Questo può essere spiegato dalla riduzione dei tempi di spostamento dovuti allo smart working (perché lavorando da casa non è necessario prendere tutte le mattine un treno per spostarsi). Ma il risparmio di tempo percepito non è effettivo perché il tempo di spostamento si trasforma in lavoro svolto da casa. Chi abita nell’area metropolitana, invece, ha una valutazione più negativa, questo per via della carenza di relazioni indotte dallo smart working. Questo aspetto ha un tratto generazionale: per la fascia giovanile dai 18 ai 30 anni, infatti la carenza di relazioni sociali è maggiormente percepita.
Ultimo aspetto interessante da citare è sul cosiddetto «south working». Alla domanda sulla possibilità di trasferirsi da Milano in caso di smart working integrale, solo il 25% degli intervistati risponde positivamente; chi risponde affermativamente, si sposterebbe in Liguria, Toscana o Trentino, luogo in cui si presume che gli intervistati abbiano le seconde case. Questo fa pensare che a rispondere positivamente siano i lavoratori con redditi medio-alti, mentre chi viene dal Sud non ritornerebbe. Questo può dipendere anche dalla capacità attrattiva di una città come Milano. I risultati della ricerca sembrano dunque confermarci che le grandi trasformazioni del lavoro tendono a individualizzare e a despazializzare il lavoro. A questo punto si pone un altro problema: questa attività lavorativa è regolamentabile? Una eventuale regolamentazione è applicabile e controllabile?
Foto: Roberto Gelini
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