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L’importanza del comando capitalistico sulla riproduzione sociale

Note a margine sullo sfruttamento a partire da alcune preziose suggestioni di Christian Marazzi


Nanni Balestrini


I feel so extraordinary Something’s got a hold on me I get this feeling I'm in motion A sudden sense of liberty The chances are we’ve gone too far You took my time and you took my money Now I fear you've left me standing


True Faith, New Order, 1987



Sporgenze inesauribili della teoria militante

Ci sono luoghi della produzione militante, siano questi teorici o pratici, che non si lasciano assorbire dal crepaccio che lo scorrere del tempo cronologico genera dietro di sé. Tale dimostrazione di vitalità, ad esempio, è quella che illumina il sapere dei cosiddetti insegnamenti classici, quel sapere che continua a interpellarci nonostante tutto, quel sapere resistente ai cambiamenti, ancora necessario a pensare il presente nelle e con le sue contraddizioni. Ma non solo. Esistono a mio avviso frammenti, contributi, lamelle, schegge più difficili da scovare e levigare ma che per questo non sono meno preziosi (quando non indispensabili) per tentare di costruire un bagaglio di sapere militante all’altezza delle sfide del presente. Questo mi porta anche ad affermare che il valore teorico e politico di un sapere militante non è mai definito una volta per tutte e che per questo non può neanche essere approcciato da un fare meramente archeologico. Tra le svariate e possibili motivazioni a sostegno di questa affermazione, ce n’è una credo fondamentale, che voglio provare, molto brevemente, a proporvi di seguito.

La temporalità della lotta è un tempo non interamente storicizzabile. C’è una dimensione che gli appartiene intrinsecamente che è apprezzabile anche a prescindere dal momento in cui si produce. Guardandolo da una certa prospettiva direi che è un modo necessario di articolare il rapporto tra il potere e il sapere, è cioè un modo proprio della soggettivazione. Occorre aggiungere, però, che se da un lato lo strappo che l’esercizio del conflitto implica e porta necessariamente con sé, possiede la virtù di esprimere nella contingenza un contenuto singolare e irripetibile – qualcosa che effettivamente si poteva dire o dare solo all’interno di quella specifica tendenza – dall’altro e al contempo, quella stessa conflittualità, teorica o pratica che sia, insiste su qualcosa che si ripete instancabilmente e anacronisticamente. Appare cioè come sintomo di una potenza. Per dirla prendendo in prestito delle parole di Paolo Virno, tale facoltà non conosce realizzazione di sorta, è una permanenza. Ecco che in tal senso vi è, in un lavoro di formazione che vuole definirsi genealogico, la possibilità di indicare un’urgenza, una sporgenza, che è possibile ricordare ancora e ancora molteplici volte senza poterla mai realizzare del tutto e senza mai poterla collocare in un punto di totale impasse. Per avvicinarci, allora, al motivo e al merito di questo mio contributo, possiamo forse affermare che alcune analisi che sembravano appartenere al passato si inscrivono invece in seno a una intensità, a una virtualità che è sempre in grado di aprire a nuove temporalità del conflitto a-venire. Quello che vorremmo inaugurare di seguito su queste pagine è, dunque, il tentare di tornare su alcune delle sporgenze inesauribili che la teoria critica e militante ha prodotto negli anni, anche per provare a metterci in tasca qualcosa di propizio che serva a ricominciare una politica di classe che possa dirsi e farsi all’altezza del presente. D’altra parte sono convinto che questa sia l’unica idea di formazione che valga la pena di proporre.


Moneta, composizione di classe ed estrazione del valore

In un articolo apparso sulla rivista «Primo maggio» nel 1978 e intitolato Alcune proposte per un lavoro sul tema denaro e composizione di classe [1], Christian Marazzi ci consegna una riflessione fondamentale, a mio avviso inaggirabile (e anche inaugurale) per comprendere il modo in cui il capitalismo postfordista organizza le pratiche di estrazione del valore che sostengono e sono alla base del suo processo di riproduzione allargata. Ci troviamo in presenza di una riflessione per lo più «sperimentale» e per certi versi ancora «approssimativa», come lo stesso autore qui sottolinea, nel senso che la riflessione aggredisce a caldo una questione aperta e tutt’altro che risolta, interna a un dibattito sviluppatosi attorno al tema della moneta sulle pagine della rivista diretta da Sergio Bologna. Le intuizioni di quell’articolo sono, però, a mio avviso così preziose che ripercorrerne alcune mi pare essere un esercizio fondamentale per chi vuole sviluppare un sapere critico contro e sullo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo.

Per entrare nel merito delle questioni sollevate dall’autore occorre allora partire da una questione peculiarmente operaista. Nell’operaismo degli anni Sessanta, ricorda Marazzi, il lavoro è misura del valore perché la classe operaia è misura del capitale. In questo senso è la classe operaia che realizza la possibilità e orienta la direzione dello sviluppo del capitalismo e non viceversa. La questione che, tra i frequentatori delle riflessioni operaiste, è nota con l’appellativo trontiano di rivoluzione copernicana, è molto importante perché inaugura un modo nuovo di pensare e di agire il rapporto tra la dimensione politica e la dimensione economica dello sviluppo capitalistico. Come scrive Marazzi «questa interpretazione alla rovescia della categoria “lavoro” tipica dell’operaismo classico permette di porre al centro dello sviluppo-crisi del capitale il movimento della classe» (p. 119). Teniamolo presente, questo aspetto, perché risulta metodologicamente fondamentale per aggredire la questione specifica che desidero sviluppare in questo mio primo contributo.

Come scriveva ancora operaisticamente Mario Tronti, prima di iniziare a inseguire la chimera dell’autonomia del politico, «è cioè sul terreno politico che per la prima volta il contratto di compravendita tra capitalista singolo e operaio isolato si trasforma in rapporto di forza tra classe dei capitalisti e classe operaia. E sembra questo un passaggio che fa intravedere il terreno ideale su cui solo può svolgersi lo scontro generale di classe» [2]. Questa visione però presenta una serie di problemi, se non altro, perché assume come costitutivo dei rapporti di forza tra classi l’idea della possibilità di un’azione immediata di una classe sull’altra. Provando a precisare il senso di tale affermazione potremmo dire che non si tiene conto a sufficienza dell’attrito sociale che il prodursi dinamico del rapporto sociale di produzione determina intrinsecamente in seno al capitalismo e soprattutto del modo in cui questo stesso attrito viene alterato, governato e ricucito continuamente dal capitale. Marazzi se ne avvede molto bene e non indugia, infatti, a criticare qui alcuni degli aspetti problematici di questa visione dell’operaismo classico: «il primo limite è quello della immediatezza delle trasformazioni indotte da questo rapporto capitale e operai sul resto della società. Assumendo come prius la classe operaia come misura del capitale e dei suoi movimenti ci si incolla di fatto a una dimensione quantitativa dello scontro fra capitale e operai. Manca completamente la valutazione qualitativa, soggettiva delle trasformazioni che questo rapporto genera sulla dinamica complessiva della società» (p. 120). Trovo geniale il modo in cui Marazzi, nel contributo cui stiamo facendo riferimento privilegiato, riconduce il problema piegandolo, marxianamente, dentro la questione della crisi della teoria del valore lavoro: «la crisi della legge del valore è il coronamento coerente di questo primo operaismo, ma purtroppo è un’analisi impotente di fronte alle trasformazioni indotte dalla stesso rapporto capitale-operai sul resto della società (come, ad esempio, la riarticolazione del processo produttivo sul territorio, il decentramento, la runaway industries, ecc.)» (ibidem). Il modo in cui il capitale riorganizza continuamente il modo estrattivo del plusvalore caratterizza quindi qualitativamente e non solo quantitativamente la forma sociale con cui il lavoro vivo abita il rapporto sociale di produzione e determina la forma dello sviluppo economico. Ma proprio perché in gioco nel rapporto di forza tra le classi non c’è soltanto la determinazione di una grandezza lineare e quantitativa (espressa dal salario) ma, afferma Marazzi, anche un aspetto peculiarmente qualitativo, è proprio per questo, che «l’organizzazione capitalistica tende sempre a ricostruire la dimensione quantitativa della legge del valore fuoriuscendo dal rapporto diretto capitale-lavoro, sussumendo sempre di più la circolazione all’interno del processo di valorizzazione» (p. 121).

Questa fuoriuscita della valorizzazione dalla cosiddetta sfera della produzione è esattamente la linea di ristrutturazione qualitativa del capitale che l’operaismo classico in virtù della sua impostazione «fabbrichista» non riesce a mettere del tutto a fuoco nella sua prima fase di ricerca. Se vogliamo intendere l’intero spettro dello sfruttamento capitalistico, per dirla altrimenti e seguendo sempre Marazzi, si tratta allora di tenere assieme, e quindi di riuscire a trovare un’articolazione tra di loro, la questione quantitativa della legge del valore (la lotta per il salario) e la questione soggettiva-qualitativa del rifiuto del lavoro salariato e della domanda sociale di nuove temporalità. Altrimenti ci sfugge che nelle condizioni del capitalismo diffuso dell’economia postfordista l’istituto salario, che era stato il cuore pulsante della riproduzione allargata capitalistica, viene sempre di più sostituito dalla «convenzione» finanziaria e dal deficit spending privato. Il fenomeno che Marazzi osserva già alla fine degli anni Settanta, quindi con rilevante anticipo, è il definirsi di quel processo che Carlo Vercellone ha più recentemente definito come il farsi rendita del profitto [3]. Il punto è che «se analizziamo la forma impresa e il modo in cui le imprese si sono ristrutturate negli ultimi trent’anni, osserviamo infatti come il valore sia prodotto sempre più all’esterno di quelli che un tempo si consideravano i luoghi classici della produzione, con una loro dimensione spaziale e temporale, come le fabbriche» [4].


La produzione separata di soggettività

Sempre sullo stesso tema, in un altro suo breve testo del 1978 e intitolato Commento al Convenevole [5] Marazzi ci invita a osservare da vicino come le trasformazioni del modo di valorizzazione capitalistico in senso postfordista siano «trascinate» dalla tendenza capitalistica a estendere tale processo a sempre più punti del processo di circolazione-riproduzione: «ai tempi di Hilferding il capitale si riorganizzava in vista della massificazione del processo lavorativo, oggi il capitale si riorganizza per trasformare la riproduzione operaia in un “momento del capitale”. Per quanto paradossale possa sembrare l’obiettivo del capitale è proprio quello di organizzare il sistema a tal punto che lo sfruttamento avvenga direttamente nello scambio. L’utopia del capitale è quella di succhiare plusvalore senza mediazioni, senza quella sequenza per fasi successive che invece è tipica del sistema capitalistico in quanto sistema di classe» [6]. Il punto qualitativo su cui insistere in tal senso ci pare essere quindi la questione del come il capitale, oggi, produca soggettività ancora come separata dalle sue condizioni di riproduzione sociale autonoma, in sintesi il modo in cui il capitale riproduce le condizioni di dipendenza del lavoro vivo dalla sua mercificazione [7]. «La sfera della circolazione rimanda direttamente alla dimensione del mercato del lavoro, dove la forza-lavoro si deve riprodurre in quanto merce, ossia in quanto separata dal capitale, costretta per questa ragione a vendersi al capitale (a riferirsi a esso). La relativa autonomia della sfera della riproduzione è la base sulla quale viene feticizzato il capitale, nella misura in cui esso appare relativamente autonomo, esterno alla riproduzione della forza-lavoro» (p. 123).

Detto in altri termini non si può separare l’analisi delle condizioni attraverso cui la forza lavoro viene direttamente impiegata nella realizzazione del plusvalore nell’accumulazione, dall’analisi delle condizioni attraverso cui la soggettività viene configurata come valore di scambio e quindi inquadrata e fatta circolare come risorsa di valorizzazione, solo formalmente libera, sul mercato. La prima questione attiene ai rapporti di sussunzione del lavoro al capitale, la seconda è in rapporto a questi ma attiene più propriamente ai rapporti di impressione della soggettività alla logica della valorizzazione [8]. Solo mettendo in relazione e intrecciando queste due logiche tra di loro è possibile, a mio avviso, cartografare, e quindi contrastare le determinazioni, disciplinari e governamentali allo stesso momento, dello sfruttamento. La questione su cui oggi dobbiamo continuare a lavorare è allora quella di interrogare il processo di sfruttamento capitalistico a partire dall’analisi delle crescenti e sempre più rilevanti pratiche di estrazione del valore che si danno al di là e a fianco della relazione salariale. Solo tenendo assieme il lato qualitativo e il lato quantitativo dello sfruttamento sarà possibile inaugurare una inversione di rotta. In tal senso sono convinto che solo in questa prospettiva sarà possibile comporre le attuali frammentazioni sociali e quindi riuscire a lavorare con risultato alla costruzione di una coalizione di classe capace di rivoluzionare i rapporti di forza. Il lavoro politico da fare è enorme ma non per questo dobbiamo rinunciare a immaginare una società in cui ricchezza e gioia possano essere una viva esperienza materialistica dei corpi.


Note [1] Il saggio di Christian Marazzi che discutiamo è apparso per la prima volta in «Quaderni di Primo maggio», n. 2, intitolato Saggi sulla moneta, supplemento al n. 12 di «Primo Maggio», 1978-1979. Lo stesso è stato riproposto in appendice al volume F. Chicchi – E. Leonardi – S. Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, ombre corte, Verona 2016, pp. 111-126. Avvisiamo le lettrici e i lettori che quando citeremo questo articolo di Marazzi faremo riferimento, tra parentesi, alle pagine del testo contenuto in quest’ultimo volume. [2] M. Tronti, La fabbrica e la società, «Quaderni rossi», n. 2, 1962, p. 13. [3] C. Vercellone, Il ritorno del rentier, «Posse», autunno 2006, pp. 97-111. Articolo ripreso poi in C. Vercellone, Trinità del capitale, in AA. VV., Lessico Marxiano, Manifestolibri, Roma 2008, pp. 181-196. [4] C. Marazzi, Che cosa è il plusvalore?, Casagrande, Bellinzona 2016, p. 22. [5] C. Marazzi, Commento al Convenevole, «Primo maggio», n. 11, 1978, pp. 28-34. [vi] Ivi, p. 33. [7] Da questo punto di vista il cosiddetto approccio dell’estrazione coglie bene la crisi dell’istituzione-salario e la crescente centralità dello spazio riproduttivo nei nuovi processi di valorizzazione. Tale posizione, tuttavia, sembra sottovalutare la questione del quanto il capitale organizzi lo sfruttamento in tale scenario. Il problema è quindi comprendere perché un numero crescente di soggetti, anche molto eterogenei tra loro, sia immediatamente disponibile a entrare nel processo di finanziarizzazione della vita e a contrarre debiti per sostenere e dilatare i propri consumi privati. Di questo aspetto dello sfruttamento non ci si è ancora occupati abbastanza, almeno nell’ottica della critica dell’economia politica. In questo senso sono ancora una volta utili le riflessioni che Marazzi propone in nota al suo Commento al Convenevole: «Va osservato che la critica dell’economia politica è oggi indietro rispetto alla critica del potere, tipo quella sviluppata da M. Foucault. È infatti più semplice vedere la simultaneità del rapporto sapere-potere che non quella del rapporto scambio-ricchezza, ma la sostanza non cambia perché entrambe possono funzionare solo se esiste l’antagonismo e, quindi, la non simultaneità» (ivi, p. 34). [8] Chicchi – Leonardi – Lucarelli, Logiche dello sfruttamento, cit.

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