Nel marzo 1973 Gaspare De Caro ed Enzo Grillo, due figure di grande importanza nei percorsi dell’operaismo politico italiano degli anni Sessanta, fanno circolare un documento ciclostilato di analisi dell’esperienza di «classe operaia». Il testo, finora circolato in ambiti ristretti, viene qui pubblicato per la prima volta. I due autori (che nel documento utilizzano la prima persona singolare, probabilmente per sottolineare la grande sintonia di vedute) propongono un’analisi politica critica e dunque autocritica di «classe operaia», molto circostanziata, dura e a tratti impietosa. Evidenziano gli esiti «fallimentari» di un progetto che, sostengono, ab origine conteneva al proprio interno prospettive differenti. Anche in questo «fallimento», tuttavia, emerge in controluce la straordinaria importanza dell’esperienza, tanto da lasciare ad anni di distanza nervi scoperti e necessità di un’approfondita riflessione.
In questa sezione riproporremo altre analisi di «classe operaia», per costruire ex post un dibattito che tutto sommato non si è mai concluso. Si tratta di materiali non solo utilizzabili da storici militanti, di cui c’è peraltro un gran bisogno, ma anche e innanzitutto per ripercorrere criticamente i nodi irrisolti e fondamentali di quello che siamo e che potremmo divenire.
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Non mi propongo di fare un bilancio esauriente dell’esperienza teorica e politica di «classe operaia», ma solo di suggerire una chiave di lettura, attraverso un primo esame di un tema che ebbe senza dubbio un posto centrale nel discorso del giornale: il tema della organizzazione politica di classe, di un progetto organizzativo capace di esprimere la spinta rivoluzionaria della classe operaia in alternativa agli istituti storici del movimento socialista. Proprio perché oggi questo è di nuovo il tema fondamentale della ricerca teorica e pratica del movimento di classe, vale la pena di cercare di chiarire i termini in cui «classe operaia» affrontò il problema, per vedere fino a che punto essi possono costituire un luogo di riferimento per la discussione attuale.
Sulla questione si è espresso recentemente in forma semi-ufficiale lo stesso Pci, con la relazione di Giuseppe Vacca al convegno dell’Istituto Gramsci sul «Marxismo italiano negli anni Sessanta». Vacca identifica senz’altro le indicazioni di «classe operaia» come il «nucleo di quella teoria antistituzionale dell’organizzazione» che avrebbe preso «il sopravvento» tra i nuovi gruppi politici nati nel movimento di massa dopo il ’68. Questa è sicuramente una valutazione interessata. Vacca infatti usa il riferimento a «classe operaia» per suggerire analogicamente che ogni soluzione antistituzionale dell’organizzazione è destinata alla sconfitta. Infatti, secondo lui, gli «esiti infruttuosi» del progetto organizzativo di «classe operaia» dimostrerebbero che, allora come adesso, «riclassificare i termini della lotta di classe […] e trarne le dovute conseguenze sul piano operativo non poteva che essere compito delle organizzazioni storiche del movimento operaio».
Vale la pena allora di controllare se la premessa di Vacca, la premessa di questo ruolo anticipatore di «classe operaia» rispetto all’attuale problematica antistituzionale dell’organizzazione non sia troppo sbrigativa; e vale la pena di controllare su quale effettiva proposta organizzativa la ricerca teorica e pratica di «classe operaia» abbia avuto «esiti infruttuosi». E preliminarmente occorre rilevare che «classe operaia» fu ben lontana dall’esprimere esigenze ed esperienze univoche. In effetti sin dal primo numero del giornale si possono cogliere differenze ancora implicite ma retrospettivamente abbastanza evidenti, tra le componenti essenziali che confluirono in «classe operaia» dalla scissione dei «Quaderni rossi», cioè il gruppo torinese che faceva capo a Romano Alquati e che già nell’estate del ’63 si era definito intorno a un numero unico, il «Gatto selvaggio», che fu processato e condannato per istigazione all’odio di classe; il gruppo di Toni Negri che si era già raccolto intorno a «Po», una testata alla quale il gruppo di Padova non rinunziò nemmeno durante la pubblicazione di «classe operaia», a dimostrare che non ci fu mai una sua perfetta identificazione con il giornale di Tronti; e infine il gruppo romano, che faceva capo appunto a Tronti.
Una sufficiente omogeneità c’era tra le posizioni del gruppo torinese e quelle del gruppo padovano, una omogeneità in chiave nettamente antistituzionale. Appunto nel primo numero di «classe operaia» Alquati ripropone l’«organizzazione invisibile» degli operai, che ha diretto gli episodi di lotta a «gatto selvaggio» alla Fiat, come alternativa alla gestione istituzionalizzata e programmata dell’antagonismo di fabbrica a opera delle organizzazioni ufficiali del movimento socialista. Sulla base di una nuova organizzazione del lavoro, di una classe operaia massificata dai processi di automazione, è oggettivamente liquidata la «vecchia idea che […] la lotta operaia […] sia organizzata da un nucleo interno particolare, che detenga il monopolio della coscienza antagonistica operaia»; un nucleo che, esprimendosi come commissione interna, sindacato, consiglio, partito, si «istituzionalizza come organizzazione autonoma dentro il processo produttivo capitalistico» e pertanto ne diventa una indispensabile funzione propulsiva.
L’«organizzazione invisibile» è l’espressione di questa nuova realtà sociale; ma anche di una nuova realtà politica, di una lotta che «non rivendica nulla», che non è funzione sollecitante dello sviluppo, ma sua negazione: rifiuto del lavoro, rifiuto del rapporto capitalistico di dominio. Come «organizzazione invisibile» la spontaneità operaia, a questo livello, dice Alquati, esercita un ruolo esattamente opposto a quello che le attribuiva Lenin: gli operai lasciano la rivendicazione e la crescita economica al dialogo tra il capitale e le organizzazioni ufficiali del movimento socialista, e «tengono per sé la prospettiva dell’organizzazione politica rivoluzionaria». L’«organizzazione invisibile» infatti «significa proprio il contrario di un rifiuto di organizzarsi» da parte degli operai; essa si coagula in «riunioni politiche permanenti giusto nei punti nodali della produzione», e poi si espande «nel tessuto sociale della città operaia». Perciò Alquati conclude che dalla Fiat, come situazione limite, verranno indicazioni sulle prime forme di un’organizzazione politica che sia realmente fuori dell’accumulazione capitalistica, e che quindi possa assumersi il ruolo di guida strategica del movimento politico della classe operaia. Nello stesso numero del giornale il gruppo di Po propone un analogo modello di organizzazione operaia antagonistica «al capitale e ai suoi funzionari del movimento operaio» con l’analisi delle lotte a Porto Marghera dell’estate ’63. Anche qui il referente politico è individuato nella nuova composizione massificata della classe, e la dimensione organizzativa è quella di una articolazione politica che gli operai si danno autonomamente nella unificazione e nella direzione delle lotte di massa, infine saldandosi ai gruppi politici sorti al di fuori delle organizzazioni ufficiali e che operano fuori della fabbrica.
Apparentemente la medesima impostazione antistituzionale sembra tornare nell’articolo di fondo Lenin in Inghilterra e nella nota Sì al centro-sinistra. No al riformismo, ambedue di Tronti. In quest’ultima Tronti saluta con entusiasmo la prospettiva che chiama del «riformismo moderno lombardiano», che, secondo lui, costituisce «il vero interlocutore storico della grande operazione politica morotea». «Come intorno a questa – scriveva Tronti – si è unificato il ceto politico capitalistico, così in prospettiva, e più faticosamente, sì unificherà intorno all’altro un certo quadro politico del movimento operaio. Noi diciamo: bene. Quanto prima tutto questo avverrà, tanto meglio sarà. Avremo finalmente un nemico unico da combattere e finalmente quello vero. A fare i conti col capitale rimarrà sola, in fabbrica e nella società, la classe operaia. Allora si scoprirà che da sola è più che sufficiente. Una moderna operazione riformista del capitale serve oggi infatti a liberare gli operai dai loro falsi tutori». Poiché l’operazione Lombardi – ovviamente sopravvalutata da «classe operaia» – era una proposta di coinvolgimento diretto del Pci in responsabilità governative, la prospettiva di Tronti sembrava muoversi tutta fuori dell’arco istituzionale del movimento socialista. E la rinunzia ai modelli storici di organizzazione politica di classe sembra ribadita dall’articolo Lenin in Inghilterra, in cui Tronti ammette che l’obiettivo di una organizzazione bolscevica della classe e del partito è «improponibile nella fase attuale della lotta di classe: quando bisogna partire alla scoperta di un’organizzazione politica non di avanzate avanguardie, ma di tutta intera quella compatta massa sociale che è diventata, nel periodo della sua alta maturità storica, la classe operaia».
Sin qui dunque il discorso di Tronti sembra coincidere con quello delle altre componenti del gruppo. Ma l’ambiguità di questo discorso appare ora abbastanza trasparente. Essa risultava essenzialmente dal fatto che Tronti, in questa fase iniziale, evitava accuratamente di chiamare le cose col loro nome, in parte per la preoccupazione tattica di non aprire immediatamente dissensi all’interno del gruppo; in parte, probabilmente, per una sua effettiva incertezza e perplessità. Infatti quello che Tronti si aspettava dall’operazione Lombardi era la «legittima restituzione» agli operai di «un partito operaio, ormai costretto a opporsi direttamente al sistema capitalistico»: e quando parlava di «restituzione» intendeva proprio la restituzione di qualcosa di esistente di cui gli operai erano stati «illegittimamente» privati. In altri termini, sin dal principio, tutto il discorso di Tronti appare coerente, nella sostanza, col programma che sarebbe a poco a poco divenuto esplicito: restituire il Pci agli operai e gli operai al Pci. Sicché, sin dal principio, almeno per quanto riguardava il suo direttore, l’esperienza di «classe operaia» si configurava essenzialmente non come una ipotesi antistituzionale, ma come una semplice esperienza di corrente, che soltanto per una questione statutaria si svolgeva all’esterno e non all’interno del Pci, e che soltanto per la sua scarsa influenza sul personale politico del Partito comunista non acquistò quella configurazione scissionistica che avranno invece alcune analoghe iniziative posteriori. Vero è che Tronti sembrava alludere anche a possibilità diverse, ad esempio nella nota Uso di classe della congiuntura, del n. 3. «L’alto grado presente di mobilitazione operaia – scriveva – chiede, cerca modelli di organizzazione che consentano di dare finalmente a ciascuno il suo: al sindacato e al partito il compito di stabilizzare la congiuntura, all’organizzazione politica di classe il compito di attaccare, in ognuna di queste, il sistema»: un’indicazione che sembrava coincidere con l’analisi condotta nell’articolo di Negri Operai senza alleati, dello stesso numero, in cui il Pci e la sua politica delle alleanze venivano indicati come funzioni necessarie dell’equilibrio capitalistico in Italia. Oppure, per fare un altro esempio, sempre a proposito della prospettiva di «restituzione» del partito alla classe, Tronti scriveva che, se questa restituzione non fosse avvenuta, gli operai sarebbero stati «costretti a cercare altre vie per la loro rivoluzione».
Ma questa appunto era l’iniziale ambiguità e incertezza di cui si parlava, e la ricerca di altre vie non avrebbe avuto sviluppi, nel discorso di Tronti, neanche quando il fallimento del progetto di restituzione diventerà innegabile. Comunque, quando, con i numeri della primavera-estate 1966, comincia a definirsi esplicitamente l’ipotesi strategica della rivista, allora si chiariscono anche tutti gli equivoci relativi al progetto organizzativo. L’ipotesi strategica di «classe operaia», quella che il giornale chiamava «una strategia nuova della lotta di classe a livello di capitalismo avanzato», è definita soprattutto negli articoli Vecchia tattica per una nuova strategia, nel n. 4-5; Intervento politico nelle lotte, del n. 6; 1905 in Italia, del n. 8-9. Questa ipotesi propone il processo rivoluzionario come crescita parallela della dinamica politica operaia e dello sviluppo capitalistico. L’iniziativa antagonistica operaia, l’attacco ciclico all’equilibrio tra salari e produttività, sono visti come funzione necessaria di uno sviluppo «che cammina su una catena di congiunture», che affronta le contraddizioni di classe risolvendole nell’espansione continua del livello di attività economica. Questa spinta sollecitante dell’antagonismo operaio obbliga il sistema alla risoluzione delle sue contraddizioni sociopolitiche secondarie – quelle che Tronti chiama le «vecchie contraddizioni, che mediano, sfumano e fanno indiretta e imprecisa la lotta di classe» – in vista della riduzione finale degli antagonismi sociali alla contraddizione fondamentale, all’antagonismo tra classe operaia e capitale che si esprime – e la notazione ha, come vedremo, un valore limitativo – «dovunque esiste produzione di capitale». I passaggi congiunturali all’interno di questo processo sono visti dunque come momenti di necessaria – anche se provvisoria – sconfitta per gli operai; come momenti che preludono a una nuova, fatale stabilizzazione della gestione sociale capitalistica. Così, ad esempio, a proposito della crisi congiunturale del ’64, Tronti scriveva: «Ci si chiede: che cosa ci sarà dopo? E noi rispondiamo: certo, non la crisi catastrofica del sistema. Perché è chiaro che la stabilizzazione della congiuntura poi si imporrà, l’equilibrio dello sviluppo verrà ricomposto, la programmazione prenderà a funzionare e la struttura dello Stato si adeguerà in conseguenza».
A parte le scarse doti profetiche di questa previsione, l’indicazione politica che risultava da questa concezione era che questo processo, questa rincorsa tra la lotta operaia e la razionalizzazione della gestione sociale capitalistica, non solo potevano, ma non dovevano essere spezzati. Bisognava invece utilizzarli, spingere il processo sino a ottenere «per la prima volta – come scriveva Tronti – la maturità del capitale in presenza di una classe operaia politicamente forte». Vale a dire che, all’interno del processo, l’alternativa per la classe operaia era tra una sconfitta nella passività e una «sconfitta nella lotta», che era appunto l’indicazione proposta dal fondo Vecchia tattica per una nuova strategia. Perciò, in generale il giornale proponeva, come compito fondamentale per una organizzazione politica della classe, di scegliere soggettivamente punti e momenti di attacco generale, che colpiscono alla base e facciano più volte vacillare il vertice del sistema, costruendo così una continuità a salti, dell’intero processo rivoluzionario. Solo al culmine di questo processo – in presenza di una lotta di classe finalmente ridotta alla purezza del modello teorico astratto, in presenza di un capitale liberato dalle contraddizioni dell’arretratezza, capace finalmente di saldare la logica del profitto con la logica del potere e dunque completamente identificato con lo Stato – sarebbe sopravvenuta la crisi risolutiva. Essa sarebbe sopravvenuta non per esaurimento economico, come nella vecchia tematica della socialdemocrazia e del linkskommunismus, ma per esaurimento politico, per l’incapacità politica del capitale e del suo Stato di controllare e razionalizzare l’antagonismo operaio, di ridurlo ancora una volta a funzione dello sviluppo.
Il minimo che oggi si possa dire di questo schema è che esso dipendeva largamente dal clima ideologico del «miracolo economico», era sostanzialmente una variante paradossale dell’ottimismo programmatore del primo centrosinistra. Infatti, quando dalle anticipazioni secolari si passava alla previsione di breve periodo, il quadro proposto da «classe operaia» non era sostanzialmente diverso da quello degli ideologi della programmazione: «È indubbio – scriveva Tronti nel n. 10-12 – che oggi l’Italia si trovi nella fase che immediatamente precede una stabilizzazione capitalistica a livello di alta maturità. Congiuntura interna e legami internazionali stanno tirando questo processo in avanti con una forza a cui è impossibile resistere». Dallo schema teorico di «classe operaia», come dalle attese politiche dei programmatori, è dunque esclusa la possibilità che la crisi congiunturale cambi natura; che l’incapacità del capitale e dello Stato di gestire e armonizzare tutte le contraddizioni sociali possa essere inchiodata dalla lotta di classe a un livello di sviluppo incompiuto, di squilibrio endemico e permanente. Perciò la svolta sociale e politica del ’68 coglierà impreparato, persino deluso – e in qualche caso nettamente ostile – il personale politico formatosi intorno a «classe operaia», non meno di quello cresciuto sui miti della programmazione democratica.
Ma vediamo quali indicazioni risultano da questo modello per quanto riguarda il tema dell’organizzazione politica di classe nei suoi due aspetti: il referente sociale dell’organizzazione e le forme che quest’ultima deve assumere.
Lo schema secondo cui l’antagonismo di classe fonda e sollecita lo sviluppo capitalistico, secondo cui la crisi risolutiva del sistema è rinviata ai livelli della sua più alta maturità, in effetti torna a motivare l’egemonia della classe operaia sul processo rivoluzionario con il suo ruolo specifico nella produzione di capitale; e subordina e disprezza come soggetto politico l’operaio in quanto sia escluso o emarginato dal processo produttivo. Vero è che, formalmente, il giornale respinge il vecchio schema delle «avanguardie del lavoro» come referente dell’organizzazione di classe. Nella sostanza, se il ruolo egemonico degli operai di fabbrica non dipende più dalla qualità della loro partecipazione al processo lavorativo, dalla loro capacità di esprimere determinate qualità professionali, esso però dipende sempre dal loro ruolo privilegiato nella dinamica dello sviluppo socioeconomico. Il loro ruolo di guida strategica si definisce cioè all’interno una prospettiva politica che, in attesa della crisi finale del sistema, propone l’attacco ai meccanismi sociali dello sfruttamento nei termini esclusivi di un attacco alle condizioni antagonistiche inerenti al processo lavorativo e al processo di valorizzazione, di un attacco all’equilibrio tra salari e produttività, mentre vengono derubricate a contraddizioni secondarie e accessorie le condizioni sociali generali che rendono possibile lo stesso rapporto di fabbrica, i rapporti antagonistici che condizionano nella società lo scambio tra capitale e forza lavoro.
Sul piano analitico lo schema proposto dal giornale ignora la necessaria complementarità capitalistica tra sviluppo e sottosviluppo, la mobilità sociale tra classe operaia di fabbrica, disoccupazione involontaria, sottoccupazione proletaria. In una sorta di allucinazione keynesiana il giornale vede l’arretratezza, l’emarginazione rispetto ai ritmi moderni del processo produttivo come condizioni inessenziali e aberranti rispetto al modello, che possono essere risolte e riscattate soltanto dall’espansione del rapporto capitalistico «puro» all’intera area sociale.
Ne risulta che, sul piano politico, la privazione dello sviluppo definisce una condizione di inferiorità e passività politica senza comunicazione reale con le forme organizzative rivoluzionarie che assume l’iniziativa antagonistica operaia in fabbrica. Tutta l’area sociale esterna alla fabbrica, intesa in senso stretto come sede del processo lavorativo, tutta questa area sociale che il giornale definisce sprezzantemente come «popolo», viene altrettanto sprezzantemente delegata alla gestione difensiva ed equilibratrice del sindacato, al suo ruolo istituzionale di mediatore dello sviluppo capitalistico.
Il prezzo politico che la proposta strategica del giornale deve pagare a questa analisi insufficiente della composizione di classe, a questa scissione di principio tra classe operaia ed esercito di riserva, è assai pesante. Intanto in sede di previsione politica e di capacità di una adeguata valutazione degli elementi di crisi che la mobilità sociale del proletariato induce nel rapporto sociale generale. Basterebbe pensare al grave fraintendimento, da parte di Tronti, del significato del movimento studentesco nel ’68, che Tronti identificava, in «Contropiano», come un episodio di crisi all’interno del ceto politico borghese. Ma non si tratta solo di questo. La scissione tra classe operaia e proletariato, tra processo lavorativo e rapporti generali di classe, si riproduce, deve necessariamente riprodursi sulla base di queste premesse, nello stesso referente organizzativo privilegiato dal giornale, la classe operaia direttamente produttiva. Il discorso del giornale infatti isola nel comportamento politico operaio la lotta sui bisogni connessi alla riproduzione della forza lavoro, la delega ancora una volta alla gestione del sindacato, al suo «ufficio di difesa, di conservazione e di sviluppo del valore materiale, economico, della forza lavoro sociale». Il mercato della forza lavoro, la società in quanto essenzialmente mercato della forza lavoro, sono politicamente ignorati nel loro significato fondamentale, di sede in cui essenzialmente si esprime «l’interesse politico contro il sistema del capitale»; il mercato della forza lavoro è derubricato invece a momento in cui si esercita solo «la mediazione operaia dell’interesse capitalistico».
In termini di proposta organizzativa tutto ciò significa che questa scissione tra movimenti politici della classe operaia e lotte proletarie, tra esigenza del potere politico di classe e lotta per i livelli di autoriproduzione, non può essere realmente ricomposta a livello di massa, a livello sociale generale, se non nel momento più alto della crescita politica parallela del capitale e della classe operaia.
Solo nel «momento decisivo» dello scontro finale, non nel processo politico che lo prepara, questa ricomposizione potrà trovare forme organizzative adeguate: solo allora, suggerisce il giornale, «verranno recuperate le forme più elementari della lotta e della organizzazione», cioè quelle più generali, socialmente più comprensive e unificanti: «lo sciopero di massa, la violenza di piazza, l’assemblea operaia permanente».
Nel corso del processo rivoluzionario invece, poiché le lotte operaie non hanno, di per sé, altro significato se non di precedere e imporre «i diversi momenti del ciclo capitalistico», la condizione rivoluzionaria di un dominio operaio complessivo sul processo di produzione capitalistico – condizione che «dovrebbe essere l’immediata premessa del suo rovesciamento» – non può essere realizzata da organismi di base che si identifichino immediatamente con le occasioni specifiche della lotta, con i passaggi interni al processo, non può essere realizzata, cioè, scrive il giornale, «senza la mediazione del partito», senza un intervento soggettivo, cosciente, dall’alto, capace tanto di «prevedere e anticipare i momenti di svolta nel ciclo di sviluppo del capitale», quanto di «misurare, controllare, gestire e quindi organizzare la crescita politica della classe operaia».
Foto: Roberto Gelini
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