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L'automazione della vita






Con l’intervento di oggi, completiamo la pubblicazione delle trascrizioni del corso di formazione «L’industrializzazione del quotidiano. Dal lavoro flessibile allo smart working» organizzato dal punto Input di Bologna nel dicembre del 2021. Se i precedenti scritti di Salvatore Cominu, Sandra Burchi e Andrea Fumagalli hanno analizzato i mutamenti del lavoro e della produzione nei processi di digitalizzazione sotto un profilo sociologico ed economico, l’intervento di Igor Pelgreffi analizza il tema dell’industrializzazione del quotidiano dal punto di vista filosofico, a partire dall’esperienza avuta con la didattica a distanza durante la pandemia e dalle implicazioni che si possono ricavare dal rapporto tra corpo e schermo. L’autore, professore a contratto all’Università di Verona e docen­te nella scuola secondaria superiore, ha scritto diversi testi sul tema dell’automatismo, tra cui l’ultimo Figure dell’automatismo. Apprendimento, tecnica, corpo.

La trascrizione non è stata rivista dall’autore


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L’automazione della vita

Quando si parla di software e schermi, si fa spesso riferimento ai processi di assoggettamento che essi veicolano. Seppur importanti, questi processi non saranno il principale tema del mio intervento: mi interessa parlare del corpo, più che del soggetto. Stéphane Vial, filosofo francese, nel suo libro L’essere e lo schermo, che richiama nel titolo il famoso saggio heideggeriano, parlava di «strutture tecniche della percezione» che si modificano con l’esposizione agli schermi. Nel suo libro discute come gli schermi modifichino il corpo su un piano pre-logico, pre-razionale e, dunque, pre-soggettivo.

Nonostante gli apparecchi tecnologici odierni siano concepiti (o almeno quella è la retorica) per essere user-friendly e fluidi, la spesa energetica erogata mentre siamo davanti agli schermi è notevole. Serve la presenza del corpo come resistenza, ma anche come sofferenza e attrito: c’è, in parole povere, un’interattività, anche se su quest’ultimo termine c’è da intendersi. Già negli anni Novanta Zizek scriveva, infatti, che bisognerebbe parlare di inter-passività più che di inter-attività nel rapporto con questi strumenti che danno solo un’illusione di potenza.

Ma dove si incrociano inter-attività e inter-passività? Io credo nel corpo e nella percezione, prima ancora che nell’essere soggetti a questi dispositivi. Il livello corporeo del nostro livello di attenzione mi interessa molto, questione filosofica che ha delle implicazioni immediatamente pratiche come abbiamo visto, ad esempio, con l’esperienza della Dad durante la pandemia: allo studente è richiesta attenzione nella lezione a distanza, ma è una cosa molto complicata perché lo schermo stesso ci porta altrove, ci sottrae anche se c’è la percezione di essere lì, presenti. La retorica sullo schermo come «tunnel dell’attenzione» secondo me è fallace. Nel libro La testa altrove. L'attenzione e la sua crisi nella società digitale, Enrico Campo procede in uno studio dell’attenzione e sottolinea, con riferimento anche agli inizi della società industriale, come l’attenzione sia una costruzione sociale e non un fatto individuale: il modo in cui un soggetto è attento deriva da una dimensione intersoggettiva anche quando tacita e non esplicita, dalle relazioni che in una società si riescono a creare. Questa constatazione, ci dice, è valida ed applicabile anche quando si parla di schermi. Nell’esempio che facevo prima sugli studenti in Dad, allora, possiamo dire che il livello di attenzione di ciascuno va commisurato sul fatto che la mancanza del gruppo-classe si sente, modifica i comportamenti di ogni studente.

Un’altra questione interessante sollevata dal libro è sulla labile (o, perlomeno, non così netta) distinzione tra essere attenti ed essere distratti. L’autore scrive che la distrazione è il rovescio dell’attenzione, fa parte della nostra corporeità: ognuno di noi è in parte attento e in parte no.

Infine, il libro discute il concetto di «neuroplasticità cerebrale» secondo cui, i dispositivi digitali, soprattutto negli adolescenti, plasmano il pensiero, le connessioni tra neuroni e ambiente circostante (in questo caso digitale), in maniera negativa (pensate, ad esempio, come cambi il rapporto con la lettura con le app e i dispositivi tecnologici). Enrico Campo ci dice che questo processo reale è vero ma che, in ogni caso, la crisi dell’attenzione va vista in maniera più complessiva, perché siamo dentro degli automatismi e proprio per questa internità dobbiamo venirne fuori con delle pratiche critiche.

Qui si apre un grosso problema: come si fa? La questione fondamentale è, allora, come si apprendono gli automatismi, processo che passa da un certo rapporto con il corpo: non assorbiamo le pratiche in maniera rapida, senza attriti, ma esiste sempre una resistenza corporea che va rivalutata, anche se minima. In alcuni casi la resistenza può essere palese: basti pensare a quando un qualsiasi soggetto prova a imparare a suonare uno strumento, c’è sempre una certa fatica a diventare un esecutore automatico. In che modo si apprende un determinato automatismo? In maniera critica e lenta o a memoria? Che differenza c’è tra i processi di apprendimento di un robot e di una persona? Gli umani, anche se hanno degli automatismi meccanici, possono apprendere in maniera complessa, tramite errori, processi lunghi, a volte perfino con dolore. Queste modalità influenzano il rapporto col dispositivo automatico che noi utilizzeremo, a differenza del robot che esegue in maniera automatica senza resistenza, non ha lo sforzo dell’incorporazione dell’automatismo.

Faccio questi riferimenti perché c’è una spinta, nel sistema capitalistico in cui viviamo, a far diventare i nostri corpi delle macchine che obbediscono, che imparano rapidamente (quindi, ad esempio, l’insegnante deve trasformarsi in maniera rapida con la Dad). Manca, in queste direttive, il livello del corpo, la deviazione della necessità meccanica, che è un elemento di fastidio che per noi può essere una risorsa. Il corpo come risorsa critica dunque, questo è un punto che va sottolineato.

Riprendo la questione della Dad in pandemia. In quei mesi gli schermi sono diventati veicolo di meccanismi di prestazione (l’insegnante doveva sentirsi all’altezza di fare lezione, in tanti hanno provato ad essere più efficienti in questa modalità nuova), di adeguamento, di algoritmizzazione, di ottimizzazione del funzionamento dei congegni da utilizzare per garantire l’insegnamento. Mi sembra ci sia stata poca resistenza, molto annichilimento, forse era necessario rallentare, prendere tempo. Il corpo-insegnante, concetto che prendo da Derrida e che può significare tante cose, ha prodotto un apprendimento accelerato, acritico, inglobando tutti gli automatismi introdotti che hanno cambiato il nostro modo di insegnare, che hanno introdotto una metrica di efficienza.

Ho fatto questa introduzione per dire che, davanti agli schermi, c’è la cattura dell’attenzione, siamo investiti dagli automatismi standardizzanti, istituzionalizzati (anche se presenti già da prima) dopo la pandemia. L’introduzione degli automatismi non è stata sufficientemente pensata, ragionata. Le app, nella loro implementabilità infinita (perché esiste sempre un margine di miglioramento), hanno indotto un’accelerazione potente, senza curarsi dei nostri corpi che soffrono. Come si mette un freno a tutto questo a partire da un livello relativo alla corporeità?

Quindi: qual è il concetto importante degli schermi? Essi puntano, apparentemente, alla dematerializzazione, estraendo sempre maggiore energia dal corpo e delle relazioni intercorporee. È come se il sistema complessivo avesse bisogno dell’intensificazione, quasi patologica, del nostro spaesamento dopo una giornata di lavoro e di esposizione agli schermi. Gli schermi necessitano queste distorsioni.

La dematerializzazione (anche del lavoro) viene perseguita anche attraverso gli schermi, che vanno intensi come elemento tipico di questa contraddizione perché, attraverso di essi, passa lo sfruttamento intensivo dei nostri sensi e dei nostri corpi, con tutto l’accumulo di stanchezza, di instabilità emotiva che abbiamo. Gli attriti, le fatiche, le ansie, le nevrosi che abbiamo difronte allo schermo, possono essere viste come una messa a valore di carattere estrattivo del nostro corpo lungo questo asse dei processi di digitalizzazione. È il processo di cui parlava Bernard Siegler nel suo libro La società automatica.

È una messa a valore sul piano pre-logico, emotivo, affettivo, cambiano anche le nostre emozioni. Questa distinzione tra corpo e soggetto è molto importante sul piano politico. Il soggetto rimane rilevante per la trasformazione della società, ma prima c’è questo intervento sui corpi, su come si percepisce la realtà circostante, perché il digitale ci modifica: spegniamo lo schermo e pensiamo di essere tornati noi stessi ma non è così, siamo irrimediabilmente cambiati perché perdiamo ciclicità, si modifica il ritmo circadiano, siamo soggetti ad eccitazione mediale e depressione.

Volevo partire da questi elementi per capire quale partita si stia giocando attraverso gli schermi nel processo di industrializzazione del quotidiano.

L’inter-attività, che, ricordiamo è anche inter-passivitivà, diventa importante in un numero sempre maggiori di lavori. Attraverso lo schermo transitano forme di apprendimento degli automatismi. È proprio la fase di apprendimento a essere importante, perché in quel momento forse possiamo agire criticamente e non solo quando il processo è già compiuto e avvenuto.

L’uomo apprende degli automatismi da sempre. Gli stessi atti del camminare, dell’imparare un linguaggio sono degli automatismi. La modalità dell’apprendimento è fondamentale, è differente farlo in maniera affettiva o meccanica. Come ci suggerisce Roland Barthes, il modo in cui noi riusciamo a «truffare il linguaggio», dipende da come lo abbiamo appreso. Il processo di apprendimento è molto complesso, passa da errori, perdite di tempo, da controsensi. Non esiste una logica unilaterale per cui si assorbono delle informazioni dall’alto. In quest’ultimo caso non parliamo di apprendimento ma di trasferimento, di in-formazione e non di formazione. Dove origina il futuro dissenso che può darsi? La possibilità di mettere a critica la società digitale dipende, quindi, dall’apprendimento dei nuovi automatismi, in quel momento lì il corpo ha un suo protagonismo, una sua preminenza.

Merleau-Ponty e altri hanno analizzato come gli organismi viventi apprendono gli schemi motori e la struttura dei comportamenti. A differenza di Pavlov, per cui il processo di apprendimento si dà per riflesso condizionato, il filosofo francese ci dice che ogni organismo vivente non procede per automatismi macchinici ma che esso modifica gli input che riceve nella comunicazione col mondo circostante. Il pattern di dati, dunque, non è solo oggettivo, ma diventa soggettivo, si trasforma mentre viene elaborato. L’elaborazione non è dunque un semplice algoritmo, ma esiste un corpo vivo che assorbe ed elabora, esiste sempre una possibilità di divergere dal precostituito perché apprendiamo di continuo a modificare gli schemi. L’elaborazione, dunque, è già trasformazione, il risultato non è sempre prevedibile rispetto alle premesse. Le riflessioni di Merleau-Ponty partivano da un problema che si poneva in quel momento: maturano, infatti, ai tempi in cui nasceva la cibernetica e si poneva il problema del rapporto tra sistemi viventi e calcolatori.

Dunque: anche i viventi hanno degli automatismi, sono, per certi versi, delle macchine che possono modificare le proprie automaticità. Secondo Merleau Ponty la vita non è altro che la variazione dei nostri schemi.

Il futuro dissenso del comportamento si radica nelle prime fasi dell’apprendimento degli automatismi, dovremmo apprendere le forme sociali (dal lavoro all’andare a scuola) in una maniera critica che lascia aperto il dialogo con il nostro corpo, dove quest’ultimo può essere inteso come resistenza ai nuovi automatismi che nel processo diventano naturali. In questo modo la necessità della materia può prendere una forma diversa, gli input vengono trasformati in maniera non deterministica.

Dunque: costruzione, resistenza, sforzo sono concetti molti importanti. Il corpo è continuamente sotto sforzo per mantenere una certa traiettoria, si può dire che il corpo vivo non è automatico nello stare nel suo automatismo. Spinoza parlava di conatus per esprimere questo concetto. Quindi si può stare nell’automatismo in maniera critica, rivalutando le risposte e ascoltando il nostro corpo.

Dunque, in questo passaggio dell’industrializzazione del quotidiano non facciamo l’errore di pensare che sia tutto dematerializzato: la controparte politica è il nostro corpo, inteso come elemento di resistenza concreto.

Noi siamo i nostri automatismi, siamo il nostro corpo e utilizzare lo schermo è sicuramente interessante perché ci permette di stare dentro la dimensione storico-materiale di oggi, stare dentro la contraddizione, modificando gli automatismi. Possiamo farlo solo se il nostro atteggiamento verso le nostre tecnologie è critico ma non di netto rifiuto: dobbiamo starci trovando dei modi corporei ed emotivi nuovi, capendo come stare criticamente dentro le forme di ripetizione del quotidiano.




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