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Introduzione a «Il sorgo e l’acciaio»

Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea



Pubblichiamo l'

Introduzione a Il sorgo e l'acciaio. Il regime sviluppista socialista e la costruzione della Cina contemporanea, del collettivo 闯 Chuǎng (Porfido Edizioni, 2022). Negli ultimi tre decenni, la Cina si è trasformata da isolata economia a pianificazione statale in polo integrato della produzione capitalistica globale. Ondate di nuovi investimenti stanno rimodellando e approfondendo le contraddizioni del Paese, creando allo stesso tempo miliardari come Jack Ma e masse di milioni di persone confinate ai piani bassi della scala sociale – coloro che coltivano, cucinano, puliscono e assemblano nelle sue megalopoli industriali – protagonisti di alcuni dei più rilevanti, e misconosciuti, cicli di lotta degli ultimi anni.

In questa preziosa opera di ricostruzione storica, economica e sociale sulla «formazione» della Cina contemporanea, il collettivo Chuǎng ci guida nei meandri di questa trasformazione, a scandagliare gli eventi, le dinamiche, le contraddizioni, gli scontri che hanno fatto di uno dei più estesi e vibranti esperimenti rivoluzionari del Novecento, un anello fondamentale dell’economia capitalista globalizzata, oggi scossa dalla crisi.

Il sorgo e l’acciaio si concentra sul periodo che va dalla fondazione della Repubblica Popolare fino agli anni della Rivoluzione culturale, ripercorrendo i passaggi e le dinamiche fondamentali del suo corso contraddittorio: dagli anni della guerra civile e della Rivoluzione cinese, alla costruzione del «regime sviluppista socialista», toccando temi centrali come il divario fra città e campagna, la progressiva fusione fra partito e Stato, la funzione del mito e della propaganda, la lotta di classe e l’emergere delle correnti radicali all’interno delle mobilitazioni di massa. Una contraddittoria corsa allo sviluppo scandita costantemente da scioperi, lotte, sperimentazione e resistenze, all’interno della quale germogliano tutti gli elementi fondanti dell’ascesa capitalista della Cina contemporanea.


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Transizioni

Alla fine del XVI secolo, uno dei primi resoconti in forma estesa sulla vita in «Cina» venne pubblicato in Europa per mano di un mercenario portoghese di nome Galeote Pereira, combattente contro i Birmani per conto del Regno di Ayutthaya nella prima guerra moderna dell'Asia orientale. Divenuto in seguito pirata, saccheggiò le province costiere che si affacciavano sul Mar Cinese Meridionale, all'alba di quella che sarebbe diventata una secolare ondata di pirateria favorita dalla crescita del mercato globale. La dinastia Ming rispose con la sua Campagna di Sterminio della Pirateria, e Pereira fu catturato nel Fujian ed esiliato nell'interno, riuscendo a fuggire solo anni dopo in Europa grazie alla corruzione e all'aiuto di alcuni mercanti portoghesi a Guangzhou. Il resoconto di tale esperienza, edito e pubblicato con l'aiuto dei Gesuiti, fu uno dei rari racconti di prima mano sulla «Cina» disponibili dai tempi di Marco Polo. Ma se Marco Polo era giunto da un'Europa arretrata e provinciale per osservare dall’interno la civiltà allora più avanzata del mondo, incarnata della dinastia Yuan (mongola), Pereira, d'altro canto, arrivava da un'Europa ormai trasformata approdando in una «Cina» altrettanto mutata, entrambe alle porte di un grande caos.

Si trattava di una congiuntura agli albori del mondo capitalista caratterizzata dalla totale incertezza. Il dado era tratto, ma il quadro non appariva ancora stabilizzato. Con la più grande marina, la tecnologia più avanzata ed una produttività agricola senza precedenti, la dinastia Ming rimaneva la struttura politica più estesa e potente del mondo. Eguagliava e superava l'Europa ad ogni livello, e la questione della «fallita» transizione della Cina al capitalismo (nota come «Problema di Needham») sarebbe diventata una sorta di enigma iniziatico per i futuri studiosi della regione. L’arrivo di Pereira si situava nel mezzo del declino Ming, causato in parte dall'esplosione dell’industria dell'argento portoghese e spagnola e dalle nuove reti commerciali, di cui lo stesso Pereira era un prodotto. Ma la caratteristica più sorprendente del rapporto di Pereira non era tanto la storia in chiaro scuro del suo autore né le descrizioni del ricercato quanto efficiente sistema giudiziario Ming. Piuttosto, il fatto curioso che, tra tutti i «cinesi» con cui egli fosse entrato in contatto, nessuno avesse mai sentito parlare di «Cina», né di nessuno dei suoi presunti corrispettivi locali (varianti del termine Zhongguo - il Paese o i paesi «centrali» o «di mezzo»). Pereira stesso viaggiò esclusivamente in quella che oggi è la Cina meridionale, attraversando le province di Fujian, Guangdong, Guangxi e Guizhou. Queste regioni ospitavano una miriade di «dialetti» locali, la maggior parte dei quali tra loro incomunicabili (tanto quanto le diverse «lingue» europee), sovente espressione di legami locali sviluppatisi lungo le reti commerciali che collegavano le regioni costiere al Sud-Est asiatico. Queste province, fra l'altro, non erano state colonizzate esclusivamente dall'etnia «Han» categoria la cui esistenza stessa è stata recentemente messa in discussione [1]. Al contrario, la regione risultava abitata da popolazioni Hui, Baiyue, She, Miao-Yao, Zhuang e numerosi altri gruppi etno-linguistici.

La «Cina» era un prodotto dell'immaginario occidentale. Gli interlocutori interpellati da Pereira avevano persino difficoltà a comprendere la richiesta di definire il proprio «Paese», poiché non vi erano chiari corrispettivi autoctoni di questo concetto. In ultima istanza veniva riconosciuta l’esistenza di un solo sovrano, ma alla guida di molti Paesi, ciascuno con la propria antica denominazione. La loro combinazione costituiva il «Grande Ming», ma ciascuno di essi restava profondamente ancorato alla propria specificità locale. Questo dettaglio non rappresentava che una mera curiosità ai tempi della pubblicazione del rapporto, in un’Europa che aveva stabilito la «Cina» come sua antica e oscura controparte – non tanto il nome di un Paese quanto la designazione dei confini esterni della prima espansione capitalista e coloniale. Un'espansione che tendeva però ad arenarsi nell'Asia orientale continentale: qui si era consolidata un'estesa rete commerciale di beni e di argento, senza tuttavia una vera incorporazione nella nuova economia globale. La Cina costituiva una sorta di sbarramento, una minacciosa eccezione alle nuove regole stabilite in Occidente [2].

Oggi, in un'economia globale scossa dalla crisi, la Cina viene ancora una volta definita dalle sue eccezioni. La sua sbalorditiva ascesa sembra promettere una fuga quasi messianica da decenni di declino dei tassi di crescita: il miraggio di una nuova America, corredata da un «Sogno Cinese» e dallo zelo morale del puritanesimo confuciano del Partito Comunista Cinese. Per l'economista occidentale, questo miraggio assume la forma di un sino-keynesismo dalla mano ferma, che attraverso nuovi progetti infrastrutturali avviati da istituzioni finanziarie globali più filantropiche come la China Development Bank, promettono la salvezza delle ultime remote periferie del mondo. Nel discorso ufficiale dello Stato cinese, tutto questo non rappresenta altro che la lenta transizione verso il comunismo, con una lunga sosta nella fase del «socialismo con caratteristiche cinesi», in cui la meccanica capitalista è utilizzata per sviluppare le forze produttive, fino al raggiungimento del benessere generale.

In entrambe le narrazioni, nonostante la sua completa incorporazione all’interno dell'economia globale, la Cina rimane un'eccezione oscura e un po' minacciosa. Percepita in qualche modo come esente dalle regole generali, accompagnata dalla vaga percezione che, con una popolazione così estesa, un governo così potente, una concentrazione così massiccia di capitale fisso etc., essa costituisca una sorta di deus ex machina nel dramma dell’attuale declino economico globale. Il problema di una tale lettura è lo stesso affrontato da Pereira secoli fa: l'oggetto stesso dell'indagine si rivela illusorio. Il mercenario entra nel cuore dell'impero solo per scoprire che l'impero non esiste.

Uno degli obiettivi principali di Chuang è quello di dissipare questo miraggio. Vorremmo poter guardare alla Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l'unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è indagare la creazione della «Cina» in quanto tale. La nostra ricostruzione non affonda le sue radici in una presunta storia ancestrale (cara tanto agli storici occidentali quanto a quelli cinesi), né parte dalla fascinazione per il progetto rivoluzionario cinese, a sinistra alternativamente glorificato o demonizzato.

La «Cina» è, ed è sempre stata, una categoria economica. Il miraggio occidentale dell’«Estremo Oriente» è sorto per designare l’ostinata persistenza di vari modi di produzione non capitalistici in Asia orientale. Dopo che l'«apertura» della Cina ebbe mostrato l'incoerenza di fondo dell'impero Qing, i nazionalisti tardo-imperiali, spesso educati in Occidente, riscrissero la storia della regione per costruire la narrazione di uno Stato-nazione cinese omogeneo, risalente ai tempi antichi. Progetto presto proseguito da liberali, anarchici e comunisti. Sorta nel bel mezzo di una paralisi dell'impero, governato di diritto da una forza «straniera» (i Manciù) e di fatto da un'altra forza (l'Occidente), una delle caratteristiche chiave della nuova nazione «cinese» così immaginata era quella di essere fondata sulla repressione della cultura e dell'identità etnica Han. L'opposizione ai Qing assunse da subito il carattere di una restaurazione del dominio Han, e le neonate organizzazioni di resistenza, come le società segrete, furono percepite come partigiane di questa essenza nazionale perduta. Il loro slogan: Fan Qing Fu Ming – «Opporsi ai Qing, Restaurare i Ming».

Ma cos'era il «Ming» che questi primi nazionalisti cercavano di riportare in auge? In un certo senso, una tale rivendicazione richiamava quella fondamentale indeterminatezza quando il dado della storia, ancora sospeso, sembrava rendere possibile per il Grande Ming, piuttosto che per l'Europa occidentale, poter emergere come la culla del capitalismo, con tutto il suo carico di sangue e gloria. Allo stesso tempo, «Restaurare i Ming» rappresentava una sorta di promessa, quella di uno sviluppo secondo canoni occidentali, la creazione di una «Cina» come entità comparabile, su un piano di parità, a quelle nazioni occidentali responsabili della riduzione della regione a un ammasso di accordi commerciali e trattati portuali. Era questa la promessa che si sarebbe realizzata nel XX secolo.

La storia qui presentata illustra la secolare costruzione della Cina come entità economica. A differenza dei nazionalisti, non è nostra intenzione riportare alla luce un lignaggio perduto fatto di cultura, lingua o etnia che giustifichi il carattere unitario della Cina di oggi. A differenza di molte sinistre, non cerchiamo nemmeno di tracciare il «rosso» della storia, per scoprire dove il progetto socialista «sarebbe andato storto» e cosa si sarebbe potuto fare per instaurare il comunismo in qualche universo parallelo [3]. Puntiamo invece ad indagare il passato per comprendere il momento presente. Cosa presagisce l'attuale rallentamento della crescita cinese per l'economia globale? Quale speranza, se possibile, rappresentano le lotte contemporanee in Cina per un futuro progetto comunista?

Il nostro obiettivo a lungo termine è rispondere a queste domande comporre una prospettiva comunista coerente sulla Cina, non infangata dal romanticismo delle rivoluzioni passate o dall'isteria dei rapidi tassi di crescita. Di seguito presentiamo la Prima parte di una storia in tre volumi sull'emergere della Cina fuori dagli imperativi globali dell'accumulazione capitalista. In questa prima parte analizziamo la fase esplicitamente non capitalista di questa storia, l'era socialista ed i suoi prodromi, durante la quale vide la luce la prima infrastruttura industriale moderna dell'Asia orientale. Il secondo volume coprirà la «Riforma e l'Apertura» avviate alla fine degli anni '70, per giungere alla cosiddetta distruzione della «ciotola di riso di ferro» durante l'ondata di deindustrializzazione degli anni '90. La sezione finale, che coprirà il terzo volume, illustrerà il periodo successivo a questa fase di deindustrializzazione ancora in corso, ivi inclusa la trasformazione capitalista dell'agricoltura e la creazione del proletariato cinese contemporaneo.

Questa periodizzazione non è arbitraria. Nel suddividere questa storia ci siamo basati da un lato sulla periodizzazione globale suggerita dal collettivo comunista anglofono Endnotes, dall'altro abbiamo ripercorso i passaggi chiave dell'incorporazione della regione agli imperativi dell'accumulazione globale. Questa prima sezione copre il periodo non-capitalista, durante il quale il movimento popolare guidato dal Partito comunista cinese (Pcc) riuscì allo stesso tempo ad abbattere il vecchio regime e ad arrestare la transizione al capitalismo, lasciando la regione in una stasi contraddittoria concepita all'epoca come «socialismo». Il sistema socialista, al quale qui facciamo riferimento come «regime sviluppista», non fu né un modo di produzione né una «fase di transizione» tra capitalismo e comunismo, tantomeno tra modo di produzione tributario e capitalismo. Non costituendo un modo di produzione propriamente detto, esso non rappresentò nemmeno una forma di «capitalismo di Stato», nel quale gli imperativi capitalisti potessero essere perseguiti sotto l'egida dello Stato, con una classe capitalista semplicemente sostituita nella forma, ma non nella funzione, da una gerarchia di burocrati governativi.

Il regime sviluppista socialista designò invece la rottura di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi astratti (siano essi tributari, filiali o di mercato) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo a trazione statale furono in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia dilagò perché non poté farlo la borghesia. Dato l'alto tasso di povertà e la posizione ricoperta dalla Cina lungo l'arco dell'espansione capitalistica, solo i programmi di industrializzazione «big push» di uno Stato forte, associati a resilienti configurazioni di potere locale, consentirono l'edificazione di un sistema industriale. Ma tale realizzazione non coincise con una transizione di successo a un nuovo modo di produzione.

Questo sistema industriale non fu immediatamente o «naturalmente» capitalista. La storia è fondamentalmente contingente. Nell'era socialista non esistevano mercati, né in forma simile a quella assunta durante il precedente sistema imperiale, né con le modalità con cui si sarebbero sviluppati in futuro. Il denaro esisteva nominalmente, ma non era soggetto agli imperativi mercantili del modo di produzione tributario né agli imperativi del valore del sistema capitalista; rappresentava invece il mero riflesso meccanico della pianificazione statale, che non veniva calcolata in base ai prezzi ma in base alla pura quantità di prodotto industriale. Il denaro non poteva funzionare come equivalente universale. Nelle campagne la rendita veniva estratta sotto forma di grano, attraverso il sistema della «forbice dei prezzi», ma questo prelievo non rispecchiava quello del sistema di tassazione imperiale, né si realizzava come espropriazione dei contadini e privatizzazione delle terre agricole. Fatto più importante, forse, mai in nessuna delle fasi precedenti della storia cinese la massa contadina era rimasta così ancorata alla terra. La divisione fra campagna e città che emerse in questi anni sarebbe diventata una caratteristica fondamentale del regime sviluppista. Sotto il socialismo non si verificò alcuna sostanziale urbanizzazione, a parte quella causata dall'immediata ricostruzione post-bellica o quella legata all'andamento naturale, e la transizione demografica (che vede la crescita dei lavoratori urbani impiegati nell'industria e nei servizi soppiantare la popolazione rurale) non ebbe luogo.

Allo stesso tempo, non v'era evidenza alcuna di una transizione verso il comunismo, che rimaneva un orizzonte puramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l'orario di lavoro tendeva ad aumentare, e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche ed atomizzate: una vita collettiva su piccola scala, lontana però dalla nuova società comunitaria promessa. La libertà di movimento diminuì con il proliferare delle crisi, presero forma due distinte classi di élite, il divario rurale-urbano si ampliò e, gli ultimi decenni del periodo videro l'emergere di una nuova classe di lavoratori diseredati. Ondate di scioperi ed altre forme di agitazione culminarono nella «breve» Rivoluzione culturale del 1966-1969, la cui repressione avrebbe condotto infine alla transizione capitalista vera e propria.

Facciamo riferimento a tutto il periodo rivoluzionario, fino alla fine degli anni '50, come a un «progetto comunista». Questo progetto fu incredibilmente vario, e mantenne sempre un carattere di massa, profondamente radicato nella popolazione. Agli albori, il suo fondamento teorico e la sua direzione strategica erano prevalentemente di stampo comunista-anarchico. Col tempo, la particolare visione e strategia del Pcc avrebbero conquistato l'egemonia, incorporando però al proprio interno l'eterogeneità del movimento, sotto forma di fazioni interne (e conseguenti epurazioni). Non si trattò, tuttavia, di un'egemonia imposta dall'alto: costituiva il risultato di un mandato popolare, derivante dall'autorevolezza guadagnata dal partito nella formazione dell'esercito contadino e nell'organizzazione del movimento operaio clandestino durante gli anni dell'occupazione giapponese.

Nei primi anni del dopoguerra, il Pcc fu in grado di mantenere l'egemonia sul progetto comunista grazie alle campagne ridistributive nelle aree rurali e la ricostruzione delle città. I fallimenti della fine degli anni '50 (carestia nelle campagne e scioperi nelle città costiere), non solo misero in discussione il mandato popolare del partito, ma segnarono l'inizio del processo di ossificazione del progetto comunista stesso. Con l'evaporarsi della partecipazione popolare seguita a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si ritrovò ridotto ai suoi mezzi: il regime sviluppista. Questo stesso regime necessitava per il suo mantenimento dell'intervento sempre più esteso del partito, destinato così a fondersi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico de facto) e a recidere i legami con il progetto originale.

Anche all'apice di tale differenziazione, tuttavia, il progetto mantenne comunque una particolare prospettiva comunista, frutto della combinazione fra movimento operaio europeo e millenaria storia di rivolte contadine della regione. Oggi, questo orizzonte comunista non esiste più. Non ha senso «posizione» su queste questioni storiche, semplicemente perché non esiste simmetria tra passato e presente: nonostante il perdurare delle crisi fondamentali del capitalismo, le condizioni materiali (rapida espansione industriale, grande periferia non capitalista, ecc.) che strutturavano questa precedente prospettiva sono oggi del tutto assenti. Non ha senso domandarsi se i comunisti di oggi si troveranno ad affrontare lo stesso ordine di problemi – questo non avverrà. Resta soltanto la questione di come il comunismo e la strategia comunista possano essere concepiti al di fuori di tale orizzonte.

Ai comunisti di oggi, tra i quali ci collochiamo, la pratica, la strategia e la teoria del Pcc (così come quella di altre formazioni all'interno di questa corrente storica) appaiono nel migliore dei casi estranee e, nel peggiore, aberranti. Nonostante i duri limiti materiali dell'epoca, possiamo affermare chiaramente come molte delle azioni introdotte dal Pcc siano semplicemente ingiustificabili. Altre appaiono oscure o incomprensibilmente presuntuose. Ma questo genere di giudizi di valore ha scarsa utilità analitica. Esistono già numerosi resoconti che si prodigano a dipingere i fatti nei termini di un tradimento da parte di «falsi» comunisti, o semplicemente come prodotto dell'azione di una leadership avida e zelante. La storia qui esaminata non è una storia della morale. In accordo con il nostro approccio materialista, le questioni del tradimento o della rettitudine non costituiscono che fattori di minima rilevanza. Il progetto comunista cinese è stato fenomeno collettivo, frutto dello sforzo e del sostegno di milioni di persone. In questa sede tenteremo di scrivere una storia di tale progetto, e del suo fallimento.

A tal fine, nostro obiettivo resta inoltre quello di analizzare l'era socialista cinese, piuttosto che affrontare in generale le questioni del socialismo del XX secolo. Studi comparativi sui diversi progetti rivoluzionari sarebbero certamente utili, ma richiederebbero adeguati parametri di confronto. Oggi, la letteratura sulla Cina e su altri stati socialisti tende ad essere fortemente appiattita sull'esperienza russa. Una delle nostre tesi fondamentali è come semplicemente la Cina non fosse la Russia. Anche se influenzati dall'esperienza sovietica, i tentativi cinesi di emulazione non furono mai completi, comunque sempre applicati in un contesto fondamentalmente differente. Ancor più importante, il punto di riferimento risultava esso stesso in costante mutamento, e i cinesi, nel progettare le proprie forme di gestione e pianificazione industriale, spesso attinsero da periodi divergenti della storia russa.

Al di là di questo, la geografia dell'influenza sovietica non fu uniforme. Al di fuori del cuore industriale del Nord-Est, la produzione cinese fu fortemente modellata su altri sistemi di gestione aziendale, pianificazione economica ed amministrazione statale. Assunta la Russia come modello, i cinesi attinsero anche dall'esperienza dell'epoca imperiale, del regime nazionalista del periodo repubblicano, dai giapponesi e dalle imprese occidentali nelle città costiere. Tutte queste influenze furono combinate nel tentativo consapevole di creare una nazione distintamente «cinese», con una propria economia nazionale unitaria. Il risultato fu un sistema molto più decentralizzato e frammentato di quanto apparisse dalla propaganda dell'epoca.

Un'altra delle nostre tesi fondamentali è come esistesse una netta discrepanza tra quanto la Cina socialista affermasse e quanto realmente attuasse. Troppa della letteratura odierna (sia di stampo accademico che prodotta a sinistra) utilizza dati inattendibili, tratti da fonti poco affidabili [4]. Si basa su prove obsolete raccolte in un'epoca con troppi interessi politici in ballo fra le varie «correnti» (ad esempio nella lettura di eventi come la Rivoluzione culturale). I metodi di base utilizzati in tale letteratura risultano intrisi di idealismo. La propaganda viene esaminata come se si trattasse di una descrizione fattuale del sistema industriale. Le fabbriche modello vengono descritte come specchio della realtà. Il mito del socialismo cinese sembra corrispondere, senza esclusioni, alla composizione reale della società. La Cina assumeva in tal modo ancora una volta il carattere di miraggio, questa volta riformattato sulle nuove coordinate della Guerra fredda. Il risultato era una versione da Villaggio Potemkin della Cina socialista, da un lato vilipesa, dall'altro sostenuta come uno dei pochi flebili bagliori fra le tenebre di un secolo perduto.

Oggi non c'è più alcuna contesa in ballo, su nessun fronte. L'unica posta in gioco all'orizzonte è quella segnata dal nostro momento presente: una Cina che ricopre un ruolo centrale per l'economia globale ma resta soggetta alle sue crisi, una crescita che rallenta, una popolazione lacerata tra un futuro assente e un passato irraggiungibile. Se questa è la vera posta in gioco, allora necessita di un'analisi storica all'altezza. Nostro obiettivo è quello di utilizzare gli strumenti più concreti e affidabili a disposizione per narrare una storia materialista della Cina. La mitologia socialista rappresentata nella propaganda, nelle cerimonie popolari e nel costume quotidiano non viene qui ignorata, ma relegata al suo reale significato: quello di un progetto ideologico che assume i connotati resilienti di una religione, capace di esprimere certe speranze, paure e verità sociali, ma incapace di descrivere l'economia odierna. La nostra attenzione si concentra qui su dati concreti, su nuove evidenze non classificate e su una serie di etnografie e progetti di ricerca d'archivio più affidabili.

Il risultato, ci auguriamo, è quello di fornire un'immagine della Cina socialista il più aderente possibile alla realtà: né una steppa totalitaria, né il paradiso in terra. La nazione che descriveremo qui di seguito non è in alcun caso «la Cina di Mao», ma un progetto cui contribuirono milioni di persone, il cui esito ultimo (benché non storicamente determinato) ci appare essere la Cina contemporanea – la Cina che tiene assieme l'economia globale nelle sue stesse pericolanti fondamenta. Una Cina di cui ci auguriamo la demolizione a opera di altri milioni di cinesi, mentre miliardi di individui di innumerevoli altre nazioni saranno intenti a distruggere le proprie, e con esse, questa mostruosa economia che ci tiene incatenati gli uni agli altri nella stessa misura in cui ci tiene divisi.


Note [1] Si veda: W. Fletcher, Thousands of genomes sequences to map Han Chinese genetic variation, «Bionews», 596 (30 novembre 2009), http://www.bionews.org.uk/page_51682.asp. [2] Si veda la relazione originale di Pereira, qui inclusa: C. R. Boxer; Pereira, Galeote; G. da Cruz, ; M. de Rada, (1953), South China in the sixteenth century: being the narratives of Galeote Pereira, Fr. Gaspar da Cruz, O.P. [and] Fr. Martín de Rada, O.E.S.A. (1550-1575), Edizione 106 di Opere pubblicate dalla Hakluyt Society, Stampato per la Hakluyt Society. Per una panoramica più ampia si veda anche il saggio di Arif Dirlik sulla creazione della «China/Zhongguo»: A. Dirlik, Born in Translation, 'China' in the Making of 'Zhongguo, Boundary2, 29 luglio 2015, <http://boundary2.org/2015/07/29/born-in-translation-china-in-the-making-of-zhongguo/#sixteen. [3] Per una panoramica su questa tendenza nella storia della sinistra, si veda: Endnotes 4, Unity in Separation, ottobre 2015, Bell & Bain, Glasgow, pp. 73-75. [4] Per esempi recenti fra i più citati, si veda: Chino, Bloom and Contend: A Critique of Maoism, Unity and Struggle, 2013, e L. Goldner, Notes Toward a Critique of Maoism, «Insurgent Notes», Issue 7, October 2012.



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闯Chuǎng è unanonimo collettivo comunista i cui membri si distribuiscono dentro e fuori il territorio cinese. Pubblica una rivista di analisi sullo sviluppo capitalista in Cina, sulle sue radici storiche, e sulle rivolte di coloro schiacciati sotto il suo tallone. Chuǎng è inoltre un blog che raccoglie traduzioni, resoconti e analisi, e in cui tali sviluppi vengono raccontati in forma più breve e immediata.

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