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Intervista a Valerio Evangelisti



Ci ha lasciati Valerio Evangelisti, storico e scrittore militante bolognese, animatore di diversi progetti, tra cui «Carmilla». Ha contribuito a creare un immaginario attraverso i suoi numerosi romanzi, da quelli legati alla famosa figura dell’inquisitore Eymerich al ciclo del Pantera, nel clima della guerra civile americana, dai pirati di Tortuga agli intrecci dei percorsi biografici de Il sole dell’avvenire, dagli Iww alla rivoluzione messicana, fino ai volumi dedicati a raccontare un’altra storia del Risorgimento italiano. Lo ricordiamo con un estratto dell’intervista del 18 marzo 2000, per il volume Futuro anteriore. Dai «Quaderni rossi» ai movimenti globali: ricchezze e limiti dell’operaismo italiano (DeriveApprodi, 2002).


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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e l’inizio della tua attività militante?


La mia storia è abbastanza lunga perché io cominciai ad accostarmi al movimento nel 1969, quando ero uno studente medio. Sulle prime chi interveniva nella mia scuola erano i maoisti e quello fu il primo contatto, anche un po’ traumatico, con la sinistra, come allora si diceva, extra-parlamentare; ma quasi subito passai a Lotta continua. A dire la verità a spingermi non era tanto un calcolo ideologico: Lotta continua era il gruppo ritenuto il più duro e cattivo di tutti, vidi una loro manifestazione che mi impressionò, e quindi alla fine del 1969 vi entrai, tra i primi studenti bolognesi a farne parte (allora era appena nata anche in Italia). Rimasi con loro diversi anni: va detto che era un gruppo molto affiatato dal punto di vista umano, interno, però con quasi nessuna forma di organizzazione, cosa che lasciava spazio a un amplissimo leaderismo; poi c’era la venerazione di Sofri come una sorta di divinità. C’era dunque scarsa organizzazione e ancora meno dibattito politico: sotto l’apparenza di un gruppo giovanilistico e libertario, in realtà viveva un gruppo estremamente centralizzato. Infatti gli slogan ci venivano dall’alto, ad esempio «prendiamoci la città» o cose di questo tipo; dall’alto ci venivano anche le divisioni con gli altri gruppi extraparlamentari, ma in realtà a livello di base eravamo poi tutti amici tra Potere operaio, Lotta continua eccetera: le divisioni sostanzialmente provenivano dai vertici. Comunque fu una bella esperienza, in quegli anni non si ha idea di cosa potesse essere la sinistra extra-parlamentare, che era davvero forte anche in una città come Bologna. Lotta continua era sicuramente una delle componenti più forti, nello stesso tempo c’era una notevole impotenza politica. Intanto c’era il mancato rapporto con gli operai in questa città. Va tenuto presente che gli stessi studenti (universitari o medi) che facevano parte dell’organizzazione rarissimamente erano di Bologna: della città eravamo davvero pochi, per lo più c’erano studenti universitari che venivano da fuori e anche tra gli studenti medi quelli veramente impiantati in loco erano pochi. Oltre a questo c’era il fatto che il rapporto con la classe operaia, di cui si parlava di continuo, non decollava mai. Tra la fine del ’69 e la fine del ’73 (quando lasciai Lotta continua), credo che gli operai non fossero più di quattro o cinque: per di più si trattava di operai immigrati ma con dei comportamenti che denotavano spesso una scarsa coscienza politica reale; infatti, cessata l’esperienza, quasi tutti tornarono alle loro peggiori abitudini (uno adesso è sindaco di un paese del meridione). Dunque, gli operai erano pochi e idolatrati, perché l’organizzazione ci imponeva questa immagine dell’operaio come santino che doveva essere buono per forza: erano davvero poco significativi nell’ambito del gruppo in quel periodo. Fu con la seconda metà degli anni Settanta che ci fu un maggiore radicamento tra gli operai, soprattutto quando Lotta continua stava per finire e si stava aprendo qualcosa di diverso. Io avevo già lasciato l’organizzazione, c’erano certe parole d’ordine che venivano formulate dal centro, dalla direzione di Lotta continua, che andavano applicate a livello locale pari pari, ad esempio «35 ore pagate 40»: era una direttiva che veniva dal centro e so che qua provocò addirittura una scissione nel gruppo degli operai che si era poi alla fine affermato, perché era difficile da applicare sul territorio locale. Quindi, Lotta continua mi ha sempre lasciato la sensazione di un gruppo apparentemente morbido, in realtà strettamente centralizzato, ma senza forme di centralismo democratico: molto affidato a un gruppo dirigente quasi intoccabile e infallibile. Su questo potrei sbagliarmi, ma la fase che ho vissuto io era così. Va poi detto che la vita a livello di base era straordinariamente bella, perché poi eravamo tutti giovanissimi e vivevamo assieme: infatti, le cose più forti di Lotta continua erano poi quelle, lo slogan «il personale è il politico» e cose del genere, tantissime invenzioni esistenziali; quelle le ricordo bene, politicamente non ho un buon giudizio.


Ti sei dunque allontanato da Lotta continua sulla base di analisi politiche?


Era soprattutto questo. Io allora militavo in un collettivo universitario, il Collettivo di Scienze politiche, ed esso aveva all’interno varie componenti: Lotta continua era una delle meno significative a livello di proposta e soprattutto non esisteva una linea d’azione all’università. L’unico documento che ricordo faceva uno stretto paragone tra la fabbrica e l’università e, sostanzialmente, diceva che gli studenti universitari non avevano nulla da rivendicare di per sé, ma dovevano andare alle fabbriche: era un po’ la tematica maoista in cui mi ero imbattuto nei primissimi tempi della mia militanza. Questo non mi persuadeva, anche perché dovendo quotidianamente vivere in un collettivo universitario non avevo strumenti che mi arrivassero da Lotta continua. Ci fu poi un episodio che per me fu determinante: Lotta continua cominciò, ad esempio a livello elettorale, a dare indicazioni di votare Pci. Non solo, ma nei comportamenti tentava in qualche modo di recuperare qualcosa del Pci del passato: così, molta retorica sui partigiani che, al di là di quanto fosse giusto, era insistita, ci si firmava ormai i comunisti di Lotta continua per avere un approccio più facile con il Pci. Il collettivo universitario dove ero io, a quell’epoca (parlo del ’73 o giù di lì), aveva diverse componenti: ce n’era una di movimento studentesco quasi allo stato puro, una pcista, e c’erano i gruppi, sostanzialmente Lotta continua e Avanguardia operaia. Maturò, per molti di noi, l’esigenza di staccarci da quel collettivo, perché in realtà l’egemonia del Pci, che era un po’ nascosta, si esercitava nei fatti: moltissime soluzioni noi le adottavamo perché il Pci finiva per spingere in quella direzione. Io lì mi trovai i compagni di Lotta Continua con cui ero più a contatto che non erano affatto d’accordo, l’organizzazione non era per questa scissione. Noi eravamo qualcosa di molto periferico rispetto all’organizzazione, ma mi parve di vedere lì un riflesso di una tendenza generale che non mi piaceva. Allora io e un altro disobbedimmo alla disciplina di partito e aderimmo all’organismo che nacque, il Comitato unitario di base (Cub) di Scienze politiche; già nel nome richiamava molto Avanguardia operaia e la sua linea. Devo dire che Avanguardia operaia, almeno dove agivamo noi, si presentava come molto più coerente, con una sua politica sull’università, magari il tutto molto dottrinario, però almeno una sua linea ce l’aveva, cosa che noi non avevamo; poi, soprattutto, non sembrava incline a degli accordi con il Pci. Allora, attraverso il Comitato unitario di base di Scienze politiche, mi avvicinai poi ad Avanguardia operaia e ci militai fino al ’76. Fu un’esperienza che ebbe dei momenti anche belli, però a Bologna non arrivò mai ad avere un forte peso, restava un gruppetto molto molto ideologico, forse più democratico di Lotta continua, però anche meno efficiente e duttile. In ogni caso, anche se io avevo addirittura la tessera di militante, non mi sono mai considerato veramente un militante di Avanguardia operaia: il fatto è che erano proprio i gruppi che cominciavano a stancarmi. Ormai li avevo conosciuti, o direttamente o perché ci avevo convissuto, non ritenevo che fossero un’ipotesi praticabile. Quindi, verso il ’76, quando poi successe che Lotta continua si sciolse addirittura, io ero in piena rotta di collisione con questo tipo di esperienza. Questa collisione mi portò, dapprima, a uscire da Avanguardia operaia, poi ad accostarmi a dei gruppi locali, collettivi spontanei, che erano nati dalla dissoluzione di Lc: il nome era sempre Lotta continua, ma in realtà essa si era già sciolta, a volte usavano lo stesso simbolo, i luoghi di raduno erano gli stessi, ma si trattava di cose differenti. Erano gruppi che non venivano promossi dai quadri di livello elevato dell’organizzazione; Lotta continua nel frattempo era diventata un partito e i suoi militanti dei dirigenti: non erano quelli a dar vita a questi collettivi, bensì i quadri intermedi e di livello basso. Questi furono una delle componenti che diedero vita al ’77, e io affluì lì: quindi, non è che tornassi a Lc, presi parte a quella che veniva chiamata allora l’area di Lotta continua, ma era un termine molto generico. Diciamo che era la componente più vicina all’Autonomia, pur mantenendo ancora una separazione e usando, dalla simbologia alle parole d’ordine, tutto quanto era stato di Lotta continua. Ci fu quindi un periodo di navigazione, partecipai al marzo ’77 e alle scadenze successive, non certo come leader, ma come militante di base. Poi, simultaneamente, allora e subito dopo, partecipai a tentativi di riaggregazione: non so quanti collettivi io abbia passato in quell’epoca lì. Il primo, che promossi con degli amici, si chiamava Collettivo Liebknecht, il quale era poi una parte di quello che era rimasto dell’ex collettivo operaio di Lotta continua: sostanzialmente si trattava di infermieri e tranvieri. Da lì sono poi passato a varie forme di collettivi che nascevano e morivano. Intanto, anche se mi ero già laureato, partecipavo anche alle lotte all’università, questa volta però al di fuori di collettivi studenteschi: si trattava di realtà autonome che agivano, il nome non aveva più nessuna importanza; mi ricordo che sono passato attraverso il Collettivo ruggito del topo, che poi cambiava nome. Erano cioè sigle per i volantini, in realtà non eravamo legati a forme organizzative, le quali mutavano a seconda delle circostanze: del resto allora era facile, perché poi il movimento era cresciuto tanto (sempre essenzialmente composto da studenti fuorisede) che si stava assieme quasi per forza; nessuno voleva poi ripetere l’esperienza dei gruppi. Fu in quel momento che i gruppi (gli ultimi sopravvissuti) divennero quasi il nemico: non tanto Avanguardia operaia (che prese una sua deriva che noi giudicavamo legalista e diventò Democrazia proletaria) quanto per esempio il Movimento lavoratori per il socialismo, che non dico stessero contro il movimento ma sicuramente ne stavano fuori, e a noi questo non piaceva affatto. Quindi, mi trovai a galleggiare su quello che era il movimento allora, composto sì da studenti, essenzialmente fuorisede, però in molti casi da studenti-lavoratori; in altri casi ancora si trattava non tanto di studenti, quanto di persone che facevano una loro vita giovanile, ad esempio nel quartiere, e avevano poi l’università come punto di riferimento, perché là si coagulava il movimento. Ho partecipato a cose all’università, a collettivi di ordine generale, a tutte le manifestazioni del periodo, anche a collettivi di quartiere che stavano nascendo e che erano particolarmente forti. Ho partecipato, ad esempio, all’ultima fase del Collettivo di San Ruffillo che, in tutta Bologna, era sicuramente l’esperienza di quartiere più grossa, tanto forte come coagulo di giovani da rivaleggiare con quello che era il centro cittadino.

Quindi, se io dovessi descrivere quel periodo dovrei fare tutta un’elencazione di sigle a non finire; in realtà è poco utile. Si cercavano forme organizzative adeguate a un momento di ebollizione e di transizione, in cui magari non avevamo tutte le idee chiare, ma molte però le avevamo: anche quando non c’era un fine preciso, ideologico, però il sentire comune era molto forte, la discussione era continua, erano sparite tutte le rigidità dell’epoca dei gruppi extraparlamentari. Questo periodo di cui sto parlando, delle varie aggregazione di cui io feci parte, va dal ’78 all’81 circa. Credo che quanto dico rispetto alla mia esperienza personale sia stato valido per molte persone. Io allora stavo poi intraprendendo una specie di carriera universitaria, mi ero appena laureato: gli studi che facevo all’università riguardavano il precariato, sia contemporaneo sia del passato, e i comportamenti del proletariato precario, perché individuavo quella componente in mezzo a ciò che vivevo quotidianamente. Se si vuole chiamiamolo operaio sociale, ma questo era forse un termine un po’ troppo raffinato per descrivere quelli che erano rivoli di precariato, soprattutto giovanile, che si stava addensando, in particolare attorno a una forte cultura. Volenti o nolenti, avevamo tutti subito le influenze del movimento femminista, dei gruppi giovanilisti di Lotta continua, che furono i primi a staccarsi da essa e a imporre pratiche (come l’autoriduzione nei cinema o cose del genere) che in passato erano sconosciute: agli inizi degli anni Settanta si autoriduceva la bolletta, mentre l’occupazione dei cinema, degli spettacoli, dei concerti selvaggi erano una novità. C’era quindi una fortissima cultura comune che poi trovò espressione in quegli anni e continuò anche dopo. Ci fu una specie di decimazione, che derivò da eventi conosciuti, vale a dire dalla lotta armata e soprattutto dalla crescente egemonia delle componenti più militariste.


A Bologna era forte la componente lottarmatista?


Come Brigate rosse vere e proprie no. Però attenzione: nessuno del movimento, e specialmente dell’arcipelago dei collettivi dell’Autonomia, era contro la lotta armata, però la vedeva più che altro come una forma ulteriore di lotta, insieme alle altre; non la vedeva come strategica, non si trattava cioè di costruire il partito comunista combattente. Molti cortei erano armati, a Bologna ci sono state anche piccole sparatorie: nessuno avrebbe detto qualcosa al compagno che aveva una pistola, lo sapevano tutti, lui era lì con il consenso generale. Non fu neanche questo, a mio giudizio, a determinare la crisi del movimento: scatenò certo la repressione, ma non così tanto. Il fatto è che a un certo punto le Brigate rosse ci chiamarono a un combattimento di un tale livello che nessuno era in grado di affrontare questa battaglia. Il caso Moro fu pesantissimo, perché portò alla militarizzazione completa: erano le prime volte che vedevo l’università interamente chiusa, non si sapeva dove riunirsi, le perquisizioni erano continue. Inoltre le perquisizioni erano molto mirate, di solito andavano a colpire i compagni più giovani, in modo che cadessero non solo su di loro ma anche sui loro famigliari e che quindi fossero poi i genitori a reprimerli. Per di più c’era il fenomeno deteriore non dico di dissociazione, ma del fatto che sicuramente tutta la componente più tradizionale dei gruppi extraparlamentari stentava a capire quello che accadeva sotto i loro occhi: in qualche caso diventarono veri e propri delatori, in altri casi comunque erano sempre più nemici e disfattisti, cominciando a fuggire dal movimento, portandosi con sé una fettina di questo. Io credo comunque che il problema fosse soprattutto il militarismo forsennato delle Brigate rosse: nessuno di noi riuscì più a capire che cosa stessero facendo questi qua. Un tempo nel movimento non si osava dire, ma oggi me ne frego: nessuno capiva perché stessero ammazzando certa gente, un commissario in pensione, un infermiere eccetera; stava diventando un vero e proprio macello, a me faceva schifo e credo anche a molti altri. Non è che noi fossimo lì perché eravamo dei sadici, e poi non somigliava a una guerra di popolo, erano degli agguati individuali: ne erano avvenuti anche qua, ma erano sempre legati al movimento, non erano cose di quel tipo. Figurarsi se noi eravamo amici dei carabinieri, ma questo non vuol dire che andassimo a prenderne uno qualsiasi e ad ammazzarlo, non tentavamo neanche di persuaderlo, semmai lo menavamo forte: anche perché nessuno di noi era in grado di contrastarli se poi quelli arrivavano. Questo fu un periodo difficile e ci decimò letteralmente. Io mi ricordo le grandi manifestazioni del ’77, in quella nazionale a settembre arrivammo ad essere anche centomila persone; scendemmo a ventimila l’11 marzo dell’anno successivo, poi continuammo a scendere fino a ridurci a qualche migliaio, che era già molto: Bologna restava in qualche modo una differenza positiva nel contesto nazionale, ma sempre di meno.

A un certo punto poi nacquero delle esperienze diverse, le quali ridiedero respiro a una cosa che stava oggettivamente morendo: esse furono i primissimi centri sociali. Altrove esistevano già ma qui erano una novità. Io partecipai moltissimo all’esperienza di uno di questi, il Crack, che ebbe due versioni: nacque, se non sbaglio, nel 1981. Nacque da un cosa curiosa. Da anni io andavo tutte le estati in vacanza in Inghilterra, e là avevo sempre partecipato alle manifestazioni e a tutto quello che faceva il movimento (che allora c’era) londinese o filo-irlandese: mi sorpresi a scoprire la componente punk. Vedevo che le manifestazioni politiche inglesi erano sempre piene di punk, mentre in Italia i compagni li giudicavano dei fascisti, perché portavano le svastiche o per altri motivi. Io tornai dall’Inghilterra cominciando a perorare la causa di una fusione con i punk, i quali a Bologna erano numerosi ma stavano per conto loro. Non fui solo io, altri compagni si accodarono a questa cosa, si cominciò a parlare con i punk e nacque il Crack, che era tra i primi centri sociali in Italia ad essere gestito quasi paritariamente da collettivi autonomi allora esistenti (ce n’erano diversi, il più forte si chiamava Comitato proletario territoriale, Cpt, sigla che non va confusa con altre che sono seguite successivamente) e dai punk. I collettivi autonomi, almeno alcuni di loro, e i punk trovarono un accordo, non sempre facile, e occuparono questo centro sociale Crack: in esso essenzialmente si facevano dei concerti. Era una di quelle baracchette che fanno i muratori quando c’è un cantiere e che, quando avevano finito i lavori, avevano lasciato lì: era nel pieno centro di Bologna, nel quartiere Marcon. Lì si cominciarono a fare alcune cose, più che altro dei concerti, ma anche delle riunioni politiche. Il comune di sinistra, che era scatenato fin dai tempi del ’77, arrivò e distrusse completamente questa costruzione; passò un po’ di tempo e ne rifacemmo un altro, il Crack 2, molto più grande, meglio organizzato, sempre in pieno centro, in una zona più isolata. Anche lì punk e compagni, autonomi o anarchici, uniti. Lì in realtà poi furono lanciate delle vere e proprie campagne politiche, nel frattempo ci fu una sorta di colonizzazione da Padova, ci mandavano giù dei commissari. Era veramente bello perché, sebbene i punk ci rompessero le scatole dal mattino alla sera, si era riusciti a trovare questo tipo di convivenza ed era diventato un polo di attrazione giovanile fortissimo: facevamo dei concerti che erano pieni di gente, in cui venivano gruppi dalla Germania o anche dagli Stati Uniti (io, in quelle occasioni, facevo il barista). Poi facemmo delle bellissime manifestazioni cittadine, delle cose importanti.

C’è però un fatto: io, già da tempo, mi ero stancato di questo tipo di cosa, nel senso che vedevo che la rivoluzione in Italia non si faceva. Non fui toccato direttamente dalla repressione degli anni Ottanta, però vidi tantissimi compagni sparire, o perché arrestati o anche perché umanamente tanto distrutti che si ritiravano a vita privata, oppure proprio sparire fisicamente perché si davano alle droghe pesanti, tutto quello che fino allora avevamo un po’ arginato. Ciò ha portato del riflusso, perché noi per molto tempo avevamo costituito un argine fortissimo contro lo spaccio pesante, nei quartieri in cui eravamo o nel centro di Bologna: oggi magari può suonare strano e brutto, comunque si facevano anche le ronde contro gli spacciatori, quindi diciamo che tenevamo pulito. Poi, a un certo punto, furono gli stessi compagni a cedere a queste cose, e allora tutto cambiò. Comunque, nelle mia esperienza personale, avevo un certo qual bisogno di rivoluzione e allora cominciai a dedicarmi a questioni internazionali: dapprima mi occupavo di Medio Oriente, avevamo delle reti di amicizia e solidarietà con i palestinesi, soprattutto del Fronte Popolare di Abbash; in un secondo tempo passai decisamente ad altro, cioè al Nicaragua. Avevo letto un libro sul Nicaragua che mi era piaciuto, cominciai a informarmi e, con dei compagni che avevano lo stesso interesse, iniziammo a coagularci dentro al Crack 2, riunendoci lì. Poi allora avevamo radio Under Dog, che era piccolina però serviva da coagulo e ci chiedeva delle trasmissioni su questo argomento. Nacquero così tutta una serie di riunioni a carattere internazionalista e cominciò a condensarsi un gruppo di compagni che si occupava di questo: noi venivamo dal Crack, altri erano stati nel movimento a suo tempo ma l’avevano un po’ tralasciato, e poi erano tornati, specialmente in occasione dell’invasione di Granada. In quel momento a Bologna si formò un comitato pro-Granada che si fuse con noi, ci interessavamo allo stesso tema, e nacque una cosa abbastanza grossa: prese il nome Circolo Carlos Fonseca. Esso era un’associazione per il Nicaragua, ma non di tipo né cattolico né umanitario, voleva essere molto militante ed era emanata dal movimento. Sulle prime eravamo nati dentro al Crack e i rapporti iniziali furono abbastanza facili. Però, intanto, la situazione era un po’ peggiorata, perché, ad esempio, a un certo punto i punk erano stati allontanati. Io non seguivo più quotidianamente le vicende del Crack, comunque prima c’era stato un problema tra autonomi e anarchici: un anarchico se ne era andato e i punk, che non si ritenevano marxisti, avevano simpatizzato per lui e se ne erano andati anche loro, a parte alcuni molto politicizzati. Quindi la situazione cominciava a diventare pesante. Poi si profilava uno scontro abbastanza forte tra il Cpt, che a quel punto era davvero quello che poi si è conosciuto, e l’autonomia tradizionale. Era nato un organismo chiamato CoCoBo (Comitato Comunista Bolognese) che apparteneva all’autonomia, diciamo così, romano-padovana (nel senso del giornale Autonomia); gli altri, invece, erano sempre più eretici, facevano un giornale che si chiamava Passepartout. Come gruppo internazionalista noi non volevamo schierarci su questo, tentammo anzi di far da mediatori: finimmo per avvicinarci di più all’ala dell’autonomia vera e propria, mantenendo però un nostro profilo e tentando di costituire una struttura di servizio per il movimento. Fin dall’inizio avevamo avuto dei rapporti molto stretti con il Fronte Sandinista, con compagni che già si trovavano là ma soprattutto con autorità o rappresentanti del Fronte stesso: ad esempio con il suo rappresentante ufficiale, che poi era un prete guerrigliero. Questi, venuto in Italia, aveva rapporti prioritari con noi rispetto a tutte le altre organizzazioni. Negli anni che vanno dall’83 all’86-’87 (quando ci sciogliemmo) noi tentammo (oggi si può dire, una volta non l’avrei fatto) di fare un tipo di solidarietà quasi militare con il governo sandinista, nel senso che i nostri referenti erano nell’esercito, e specialmente nei servizi segreti: noi cercavamo di fornire materiale o altre cose che potessero essere loro utili, per esempio strumenti di puntamento che non potevano essere importati direttamente, oppure binocoli che non potevano trovare o che non avevano i soldi per comperare. Allora noi viaggiavamo portandoci dietro di questi aggeggi qua: questo era il circolo Carlos Fonseca, visto molto male dalle associazioni tradizionali di sostegno al Nicaragua, perché sapevano che stavamo facendo qualcosa. Infatti, poi se la presero moltissimo con questo rappresentante del Fronte Sandinista, che si chiamava Bernardino, accusandolo addirittura di intascarsi dei soldi: invece l’accusa era un’altra, si sapeva che usava quei soldi per qualcosa che loro non volevano. Dunque, in quegli anni io mi proiettai molto di più fuori dall’Italia; quella che poi sarebbe stata mia moglie si trasferì addirittura là, e io la raggiungevo ogni volta che potevo. Dalle cose italiane cominciai a tenermi un po’ alla larga, anche se il circolo Carlos Fonseca aderiva al Coordinamento antinucleare-antimperialista, quindi si collocava nell’area dell’autonomia. Avevamo una vita molto per nostro conto e i contatti con i compagni delle altre città avvenivano con le loro componenti che seguivano questo tipo di cose: ad esempio, i compagni dei Volsci che si occupavano dei palestinesi, quelli di Firenze che si occupavano anche loro di Nicaragua e così via. Questo era il nostro ambito. Il circolo Carlos Fonseca è esistito fino alla fine dell’86, inizi dell’87, e si era allargato molto, ma poi iniziò a restringersi, anche perché nel Nicaragua la situazione cominciava a non essere più così «sexy» e attraente come era prima; ci furono inoltre dei dissidi interni, anche abbastanza forti, riguardanti liti tra di noi che erano avvenute là, contrasti personali che poi diventavano immediatamente politici, e finimmo per scioglierci.

Allora quale fu il mio destino in tutto questo viaggio? Esisteva in quel periodo a Bologna un circolo (di cui mai avevo fatto parte né mai mi ero avvicinato) che si chiamava Kamo, il quale raccoglieva gente proveniente da quel Cpt di cui parlavamo e anche altri compagni, tra cui diversi compagni che erano stati arrestati agli inizi degli anni Ottanta e cominciavano a uscire di prigione: uno dei punti di riferimento possibili era quello. Il Kamo era separato dall’autonomia tradizionale, che si riuniva in via Avesella: alcune componenti dialogavano, altre avevano scarsi rapporti. Comunque il circolo Kamo diventò un punto di riferimento per varie cose. Io cominciai a frequentarlo, ma per delle attività in qualche modo collaterali: mi erano venuti a cercare loro, perché il circolo attraversava un momento di crisi, erano stati scarcerati dei vecchi compagni ma ne erano stati arrestati degli altri. Tutta una componente, quindi, non esisteva più, sembrava che il circolo dovesse chiudere: io cominciai a frequentare questo posto con nuovi compagni e a tentare di mettere in piedi delle attività. Queste dapprima consistettero in una specie di cineclub, si chiamava «Il circolo Laguna Nera»: era un cineclub politicizzato per far sì di attirare gente in quel posto. In realtà ci andava abbastanza male, perché la polizia fermava tutti quelli che si avvicinavano, quindi il pubblico generico lo perdevamo di continuo: si mettevano sistematicamente all’imbocco della strada e chiedevano i documenti a tutti quanti, ed è chiaro che c’è chi non regge. Tutto questo nell’87. Poi un’altra cosa che facemmo fu di rimettere in piedi la vecchia radio Underdog, la quale non aveva mai chiuso ma trasmetteva solo musica: tentammo di farci dei programmi e una serie di attività di questo tipo. Non tutti le vedevano bene questo tipo di cose, perché avrebbero voluto una sorta di centro sociale ultrapoliticizzato, mentre io e altri compagni eravamo più per il circolo culturale, diciamo così, con varie espressioni al suo interno. Quindi noi, in qualche modo, gestimmo questo posto rimanendone più ospiti che altro, perché ci scontravamo spesso con i compagni più radicali. Comunque andammo avanti per un po’, finché non decidemmo che l’espressione migliore che potevamo manifestare era una rivista culturale più che il cinema o la radio. Ci mettemmo al lavoro e partorimmo, dopo un anno, una rivista chiamata «Progetto Memoria», che ha avuto vita incerta: teoricamente dura tuttora, anche se ormai la sua periodicità è saltata. Comunque, stiamo parlando dell’88 e siamo nel 2000, quindi è andata avanti a lungo, con alti e bassi. A quel punto, però, lasciammo stare il Kamo e ce ne andammo, anche perché molti di noi restavano, in qualche modo, fedeli all’autonomia classica, diciamo così, e con il Cpt i rapporti erano difficili: finché lì era un magma andava bene, ma ogni volta che si irrigidiva le posizioni non erano più le stesse. Allora andammo a fare questa rivista, smettemmo di riunirci lì, ci trovammo un’altra sede, che era uno scantinato (in via Avesella, tanto per cambiare). Ci mettemmo dunque a fare questa rivista che voleva essere da un lato un po’ accademica e dall’altro di intervento militante. Alcuni compagni continuavano a militare nei collettivi universitari, io personalmente non militavo più da nessuna parte. Del resto va detto che, quando ero dentro il Kamo, molti compagni, che erano miei cari amici, appoggiarono l’iniziativa del giornale «Analfabeta», che veniva fatto qua, mentre io, insieme ad altri, ero contrarissimo: durante una riunione degli studenti universitari di tutta Italia ci fu una rottura totale, e noi eravamo tra i «persecutori» di «Analfabeta»; adesso magari me ne pento, non lo so, non ci ho più pensato. Comunque, alcuni hanno continuato la loro militanza: si trattava di compagni che uscivano dal carcere, di altri dei movimenti e dei collettivi universitari o di gente come me, che ormai non militava più in nessun modo. Siamo andati avanti degli anni con questa rivista.

Però, e qua arriviamo all’ultima fase della storia, alcuni casi un po’ imprevisti della mia vita mi avevano portato a fare delle scelte stranissime, a cambiare completamente vita e a diventare uno scrittore addirittura di fantascienza: cose che se uno me le avesse dette una volta, non ci avrei creduto. Io cominciai a riflettere sulla vita che stava avendo il «Progetto Memoria»: durante la Pantera fu vendutissimo, a Bologna era una delle pubblicazioni sicuramente più diffuse, ma subito dopo no, passava dei momenti di crisi terribili (mi ricordo la tiratura più bassa, vendemmo 36 copie tramite librerie); c’era poi la vendita militante, ma se all’inizio avevamo tantissimi compagni di riferimento in tutta Italia, ormai erano diventati pochissimi (il Verbano di Roma, qualche centro sociale qua e là, ma roba da poco). Allora io, assieme a degli altri, mi cominciai a interrogare su questo: stiamo adottando il linguaggio giusto, la gente ci capisce? Avevamo di fronte un tipo di giovani che ormai non conoscevamo più, anche perché anagraficamente una volta eravamo noi i giovani, magari ci illudevamo di esserlo ancora ma non era vero: nascevano degli altri tipi di giovani quasi termidoriani, che uscivano cioè da un’epoca di restaurazione, con una spoliticizzazione totale, con nessuna traccia di insegnamento antagonistico, la quale era stata espulsa da tutti i campi; quindi erano per noi difficilissimi da trattare, a parte alcuni che proprio erano dei ribelli irriducibili. Del resto l’età media del movimento stava crescendo paurosamente: prima si andava dai 15 anni ai 60, adesso si stava spostando sempre più in su e, a un certo punto, eravamo dei gruppi di quarantenni, senza per altro che si potesse dire che fosse colpa di questi giovani: essi erano usciti da una situazione così formata e va detto che anche noi non eravamo riusciti a comunicare, né ci riuscivamo più. Allora pensammo di ricorrere a strumenti diversi. La gestazione durò diversi anni; poi, dato che la mia carriera diventava quella di scrittore di fantascienza e che io vedevo che in quella veste riuscivo a far passare delle idee che altrimenti sarebbero state difficili da far passare, a un certo momento nacque la seguente proposta. Qua ci manca una cultura; in Francia è successo che il romanzo noir di estrema sinistra è diventato importantissimo in quel quadro culturale, proviamo a fare la stessa cosa in Italia con la fantascienza o con la narrativa di genere, noir incluso: proviamo a fare questa operazione e a vedere se riusciamo a conquistare un pubblico più vasto. È stata quindi un’operazione squisitamente politica, che dura tuttora. Facemmo dunque uscire «Carmilla», che adesso è una rivista vera e propria, ma all’inizio era una fanzine che ebbe un successo enorme. Dato che io cominciavo ad essere parecchio conosciuto e ad avere tutta una serie di rapporti proprio con quei giovanissimi che mancavano di solito, la scelta di questo tipo di linguaggio fu facile e obbligata. A quel punto «Progetto Memoria», nella sua veste ultramilitante, diventava difficile da portare avanti, perché ognuno aveva degli impegni, e poi non è che la ricerca continuasse più di tanto. Decidemmo di fare eventualmente uscire un «Progetto Memoria» ogni tanto (adesso ha un altro direttore, una volta ero io), però puntare su questa rivistina «Carmilla», che in effetti è tuttora uno strumento molto importante. In teoria dovrebbe essere semestrale, ma da quando abbiamo una veste regolare ed elegante non ce la facciamo più, perché l’editore ci fa impazzire: prima sono usciti quattro numeri come fanzine, di lusso, e lì riuscivamo a rispettare le scadenze. Quindi sono già circa tre anni che «Carmilla» esce: questo è stato lo sbocco di «Progetto Memoria».

Va detto che nel frattempo, è vero che io non militavo più attivamente, però, insieme ad altri compagni, tentavamo delle strade alternative. A un certo punto io mi iscrissi a Rifondazione Comunista: fu un’ingenuità da parte mia, credetti che veramente fossero aperti. Fu un’esperienza breve e disastrosa, ma lo fu soprattutto per loro, perché, in realtà, io (che facevo parte del direttivo di un circolo) e la componente giovanile ci impadronimmo praticamente del circolo: quando uscimmo, lo facemmo con tutti i giovani di Rifondazione, e fu la prima di tutta una serie di emorragie che hanno avuto. Uscimmo su posizioni operaiste, del resto io non avevo mai rotto i legami con il movimento, per cui frequentavo via Avesella e il circolo di Rifondazione, come altri frequentavano via Avesella ed erano iscritti alle Rdb cose di questo tipo. Era quindi come un terreno di intervento. Fu comunque la mia ultima esperienza organizzata; poi ho continuato ad andare alle riunioni in via Avesella, anche per una forte amicizia personale che avevo con tutti questi vecchi compagni, però adesso sostanzialmente l’unica cosa che faccio è «Carmilla».



Immagine: S.B.

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