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Il prisma del razzismo strutturale

Una riflessione su Lo sfruttamento della razza. Le nuove gerarchie della segregazione di Oiza Q.Obasuyi


Jacob Lawrence, Great Migration of black people to the North, 1940-41
Jacob Lawrence, Great Migration of black people to the North, 1940-41

Youssef Moukrim riflette sull'ultima uscita della collana hic sunt leones: Lo sfruttamento della razza. Le nuove gerarchie della segregazione di Oiza Q.Obasuyi. Come scrive l'autore della recensione, la tesi di fondo del libro è chiara: il razzismo non è un accidente della modernità, ma uno dei suoi pilastri costitutivi, una parte integrante dell’architettura del capitalismo occidentale.

Inoltre, il dispositivo razziale opera quotidianamente soprattutto nel mondo del lavoro, plasmando una struttura economica che si nutre proprio del razzismo per funzionare. Tutto ciò è estremamente visibile in Italia.

Ma l'opera di Obasuyi non si limita alla denuncia: nella parte finale del libro invita all’azione, a forme di solidarietà insubordinata e radicale, individuando nella lotta e nell’antirazzismo militante e culturale un futuro di liberazione collettiva.


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Cosa significa, oggi, parlare di razza in Europa? Quali forme assume la segregazione nel cuore delle democrazie occidentali? Il libro Lo sfruttamento della razza. Le nuove gerarchie della segregazione di Oiza Q. Obasuyi si presenta come un saggio capace di conferire sistematicità a dispositivi che, a prima vista, appaiono sconnessi, ricostruendo con chiarezza le gerarchie che regolano il presente attraverso il prisma del razzismo strutturale. Pubblicato nella collana «hic sunt leones» di DeriveApprodi, il testo si affianca, nel lavoro fatto dalla casa editrice, a L’Italia è un paese razzista di Anna Curcio e ai lavori di autrici francesi come Houria Bouteldja e Louisa Yousfi. Sin dalle prime pagine, Obasuyi compie un attraversamento teorico potente: da Aimé Césaire – con il suo Discorso sul colonialismo (1950) – a Walter Rodney (How Europe Underdeveloped Africa, 1972), fino a Cedric J. Robinson, il cui concetto di capitalismo razziale viene ripreso in tutta la sua forza analitica e politica. La tesi di fondo è chiara: il razzismo non è un accidente della modernità, ma uno dei suoi pilastri costitutivi. Non si tratta di un errore di percorso, ma di una parte integrante dell’architettura del capitalismo occidentale. In questa scia, l’autrice riprende anche il pensiero di Angela Davis, richiamando in particolare le sue riflessioni sul carcere, sul genere e sull’intersezione tra oppressioni: razza, genere e classe operano come dispositivi incrociati che producono diseguaglianza, esclusione e subordinazione. Il risultato è un linguaggio denso, radicale, pienamente consapevole della dimensione storica e sistemica del fenomeno razzista. La prima parte del libro, prende le mosse da un assunto netto: «l’inasprimento degli strumenti legislativi a disposizione degli stati nella gestione dell’immigrazione tende a produrre illegalizzazione e criminalizzazione delle persone migranti identificate come un corpo estraneo». Ciò riflette un paradigma ormai consolidato in Europa, quello che la letteratura critica definisce crimmigrazione: le logiche del diritto penale vengono utilizzate in assenza di reato, comprimendo progressivamente le garanzie giuridiche fino alla loro completa cancellazione. La «questione migratoria» viene così affrontata non in termini di giustizia sociale, ma di sicurezza e di ordine pubblico, mostrando come le politiche europee abbiamo governato la cosiddetta «crisi migratoria» attraverso un paradigma securitario della mobilità. Gestione militarizzata dei confini, accordi di esternalizzazione con Paesi terzi (spesso regimi autoritari), criminalizzazione dei movimenti solidali: ogni tassello contribuisce alla creazione di una geografia differenziale dei diritti, in cui la libertà di movimento diventa un privilegio selettivo invece che un diritto universale. L’apartheid della mobilità è reale e sistemico: lungi dall’essere un continente aperto e accogliente, l’Europa costruisce barriere materiali e simboliche per stabilire chi può entrare, restare, lavorare, sopravvivere. In questo quadro, l’autrice legge la Fortezza Europa attraverso la lente del capitalismo razziale. Il regime di frontiera dell’UE funziona infatti come un meccanismo che seleziona e gerarchizza i corpi: da un lato, consente l’ingresso di manodopera razzializzata da impiegare nei settori più precari e degradati; dall’altro, respinge o lascia deliberatamente in pericolo chi è considerato eccedenza indesiderata. In tal modo, la gestione europea delle migrazioni riproduce le logiche del passato coloniale e dell’estrazione di valore, riattualizzandole al presente. Il capitale continua ad aver bisogno di confini diseguali: l’ordine globale neoliberale, prospera mantenendo alcuni popoli in condizione di esclusione e dipendenza.

La seconda parte del libro sposta il focus sull’Italia, con un’analisi serrata delle forme di razzismo istituzionale che attraversano la società nazionale. Obasuyi smonta il mito degli italiani «brava gente» e porta alla luce il modo in cui il dispositivo razziale opera quotidianamente, soprattutto nel mondo del lavoro. Le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori migranti, spesso impiegati nei settori più duri e meno tutelati, rivelano una struttura economica che si nutre del razzismo per funzionare. Salari più bassi, ricatti legati al permesso di soggiorno, invisibilità giuridica e sociale. In altre parole, il profitto si alimenta di gerarchie razziali: l’economia sommersa – e non – dall’agricoltura al lavoro di cura, si regge su una manodopera segregata e ricattabile. È qui evidente il nesso tra capitalismo e razzismo strutturale. L’autrice ricostruisce l’evoluzione della normativa italiana – dalla legge Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, fino ai più recenti Decreti Sicurezza – mostrando con chiarezza come «l’irregolarità amministrativa» sia stata progressivamente equiparata a reato. Non si tratta solo di punire un’infrazione amministrativa: quel paradigma produce attivamente soggettività deviate, «illegali», destinate a rimanere strutturalmente ricattabili. Da qui discende la funzione strategica dei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio). Secondo l’autrice: «Per il capitalismo contemporaneo, predatorio e razziale, la detenzione nei CPR da una parte apre il campo […] alla criminalizzazione delle persone migranti che adesso sono la personificazione del reato, e dall’altra permette che enti privati lucrino sulla detenzione con il benestare dello Stato: è il business della permanenza e rimpatrio». 

In questi centri il diritto viene sospeso e si consuma una vera e propria detenzione senza reato. Il principio di legalità e lo Stato di diritto vacillano: persone che non hanno commesso alcun crimine subiscono una carcerazione amministrativa priva delle garanzie proprie del processo penale. Come osserva Obasuyi, «non si tratta effettivamente di “permanenza”, ma è detenzione, senza certezza sui tempi, senza diritto alla difesa e assistenza alcuna, un dispositivo istituzionale razzista di privazione dei diritti basilari». Il potere, del resto, non si manifesta solo nella legge o nel confine, ma anche nel racconto. Attraverso le pagine del libro, viene inoltre dedicato spazio al «modo spesso stereotipato e generalizzante con cui si parla di migrazioni nei media mainstream» e a come questa comunicazione abbia contribuito a creare una percezione distorta utile a legittimare la violenza istituzionale e l’abbandono dei corpi migranti. Anche quando indulge nella pietà, la rappresentazione mediatica mainstream non mette mai realmente in discussione la struttura razzista della Fortezza Europa. E quando qualcuno prova a farlo, l’opinione pubblica bianca reagisce spesso in modo difensivo: «è molto probabile che la maggior parte delle persone, oltre a stizzirsi, prenderà tale affermazione sul personale e inizierà a negare con ostinazione la cosa». Questa negazione sistemica del razzismo istituzionale – nonostante l’evidenza di dati, prove e testimonianze – è forse l’ostacolo più pericoloso: vi si esprime l’ostinato rifiuto di guardare al proprio privilegio, di ascoltare le voci razzializzate, di riconoscere che il razzismo non è una devianza individuale, ma un dispositivo di potere che pervade tutti gli ambiti della società. La riflessione dell’autrice si sofferma inoltre su genere, riproduzione sociale e capitalismo razziale. Particolarmente importante è il focus sull’intersezione tra razzismo e genere. Viene infatti messo a fuoco con lucidità lo sfruttamento sistemico di corpi femminili razzializzati nei settori della cura, dell’assistenza, dell’agricoltura. Si tratta di figure doppiamente invisibili: le lavoratrici migranti si trovano al crocevia di violenze, precarietà giuridica e sfruttamento economico. Obasuyi ci restituisce una realtà che capitalizza sulle disuguaglianze globali, in cui il genere e la razza determinano chi deve farsi carico della riproduzione quotidiana della vita. «Non è facile denunciare un abuso per timore di un’espulsione», ricorda Obasuyi, descrivendo il perverso ricatto che inchioda le migranti irregolari a situazioni lavorative e personali insostenibili. Inoltre, viene messo in luce come il funzionamento stesso del welfare europeo si regga su questo sfruttamento differenziale: l’Europa «invecchiata» delega alle donne migranti la cura dei propri membri più fragili, perpetuando nuove gerarchie di genere e razza all’interno di un ordine neoliberale globalizzato. Lo sfruttamento della razza non è solo un saggio teorico, è anche – e soprattutto – una presa di posizione politica. L’opera di Obasuyi decostruisce con rigore analitico le narrazioni dominanti, ma non si limita alla denuncia: nella parte finale del libro invita all’azione, a forme di solidarietà insubordinata e radicale, individuando nella lotta, nell’antirazzismo militante e nell’antirazzismo culturale un futuro di liberazione collettiva. In un’epoca in cui la razzializzazione del confine produce morti, precarietà e segregazione quotidiana, questo libro ci ricorda che le migrazioni non sono un’anomalia o una «crisi» passeggera, bensì un atto di resistenza all’ordine globale neoliberale e razziale. La voce di Oiza Q. Obasuyi si inserisce in un dibattito internazionale e al tempo stesso risuona nelle lotte quotidiane di chi, sulle strade d’Europa, reclama verità e giustizia. Questo libro ci incoraggia a non voltare lo sguardo e conclude: «proprio per questo occorre con urgenza costruire forme di antirazzismo che abbiano come protagoniste le persone direttamente interessate dai processi di razzializzazione e che sappiano decostruire discorsi e pratiche politiche che in Italia non sono mai state capaci di cogliere le intersezioni di razza, genere e classe; spazi politici “di sinistra” perlopiù bianchi e per i bianchi».


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Youssef Moukrim è giurista e operatore legale. Lavora per tutelare i diritti e contrastare gli abusi. Combatte il razzismo raccontando esperienze, scrivendo e partecipando attivamente a mobilitazioni.


Per approfondire:


https://deriveapprodi.com/libro/lo-sfruttamento-della-razza/

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Ramsay
Ramsay
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