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Il sogno ininterrotto della transizione



Una riflessione di Vincenzo Di Mino sul rapporto tra lavoro riproduttivo, trasformazioni tecnologiche e pratiche di autovalorizzazione di classe a partire dal libro After Work. A History of the home and the fight for free time (Verso Books, 2023) di Helen Hester e Nick Srnicek.


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L’immaginazione di una vita libera dalla prestazione salariale è tornata a popolare sogni e discorsi delle soggettività antagoniste. Soprattutto, la cruda realtà dello sfruttamento che è emersa in concomitanza con l’epidemia da Covid ha portato con sé tutta una serie di interrogativi legati al rapporto, sempre asimmetrico, tra esistenza concreta e lavoro: probabilmente, tra i tanti significanti che sono stati associati al concetto di «libertà» in quei frenetici mesi, quella che è mancata maggiormente è stata una presa di parola diffusa contro la società della prestazione lavorativa, in toto e non solamente contro qualche sua presunta disfunzione o deviazione. In un precedente articolo, sempre su questa rivista, chi scrive ha discusso i temi dei libri di Gomes e, in particolare, dell’importante libro di Francesca Coin Le grandi dimissioni, sul senso della fuga diffusa dal posto di lavoro. Sulla scia di questi temi, di seguito saranno discusse le tesi del volume di Helen Hester e Nick Srnicek pubblicato di recente da Verso, After Work. A History of the Home and the Fight for Free Time. Entrambi gli autori vantano infatti familiarità con il dibattito filosofico-politico radicale attuale, e possono essere ascritti a quel filone che, con la pinza e, sine ira ac studio, possiamo definire accelerazionista. Srnicek, insieme ad Alex Williams fu l’autore del Manifesto Accelerazionista, testo in cui entrambi gli autori provarono ad ibridare produttivamente il marxismo di stampo operaista e post-operaista con le riflessioni di Ernesto Laclau sulla dimensione linguistica della politica; Hester è l’autrice di un manifesto xenofemminista che rilegge Donna Haraway all’altezza delle ulteriori trasformazioni tecnologiche che sono intercorse dall’uscita quasi quarantennale del Manifesto Cyborg. Senza voler approfondire in questa sede il discorso sulle conseguenze teoriche di questo discorso, si può senza ombra di dubbio affermare che all’interno di esso è stato posto, in termini concreti, il problema del rapporto tra politica antagonista e tecnologia e di conseguenza, tra soggettività e tecnologia, in termini in grado di suscitare discussione. In ogni caso, ad essere ulteriormente presente in questo rizoma discorsivo è una forte dimensione immaginativa, al confine con l’utopia, che assume una sorta di peso progettuale; nel concreto, con After Work i due autori partono dall’analisi del mondo sfaccettato e multifunzionale del lavoro di riproduzione, per pensare ed immaginare una transizione ad una dimensione alternativa al capitalismo, attingendo e facendo tesoro delle esperienze di transizione interne alla storia del movimento operaio. La condizione quotidiana della composizione di classe è, di conseguenza, il terreno concreto da analizzare e su cui proiettare l’immaginazione della società post-lavorista e, in piccolo, di forme alternative di riproduzione sociale. Il testo seguente tratterà delle problematiche della riproduzione sociale e delle utopie comuni del post-lavorismo, per provare a costruire in conclusione degli elementi di progettualità in sintonia con la trattazione degli autori.


Il focolare domestico e la piattaforma

La fine della fine della storia illumina il lato nascosto della politica, anche quella radicale: la dimensione riproduttiva, il lavoro domestico, lo spazio casalingo e la struttura sociale che, a partire da essa, si dipana. Hester e Srnicek puntano il dito su questo vulnus nell’introduzione del libro, ovvero sull’assenza dalla progettualità politica antagonista di indicazioni su un diverso modo di intendere il lavoro di riproduzione. È pur vero che le frange radicali del femminismo di stampo marxista hanno messo a tema tanto il tema della riproduzione capitalista dei rapporti familiari quanto la transizione ad altre forme di legami affettivi che superassero i limiti della famiglia borghese. Se su questo secondo tema, che meriterebbe una trattazione a parte, si può senza ombra di dubbio fare riferimento alle analisi di Alexandra Kollontaj, il primo tema è centrale nelle pratiche militanti: il rapporto tra care e commoning, o per usare altri termini, tra cura e salute, tra riproduzione e libertà fa parte a pieno titolo della cassetta degli attrezzi delle politiche di classe. Invertendo l’ordine del discorso, è difficile pensare a cosa possa venire dopo la fine del lavoro senza problematizzare il concetto (e le pratiche inerenti) di cura, che comporta una radicalità letterale, ovvero un ritorno alla radice della dimensione comune della vita delle soggettività. Per liberare, dunque, la vita dal tempo di lavoro, bisogna liberare le pratiche sociali di cura. Radicalmente, ovvero tornando alla riproduzione come elemento genetico della vita e della produzione economica. Attraverso il dedalo analitico che queste considerazioni preliminari pongono, è possibile affrontare la struttura analitica a cui sono dedicati i primi tre capitoli del volume: Technologies, Standards e Families. Ognuno di questi elementi, infatti, rimanda ai pilastri su cui poggiano i differenti milieux riproduttivi del sistema capitalista, e che a loro volta trovano il loro fondamento tanto nella intersezionalità tra dominio di genere, segregazione razziale e sfruttamento economico quanto nella casa come spazio genetico di irradiazione di queste forme di dominio: l’oikos, infatti, rimanda alla nascita dell’economia come sapere specialistico, in quanto scienza di gestione delle risorse casalinghe e familiari. Ulteriormente, la casa è l’unità basilare della formazione sociale capitalista, il metro di misura con cui osservare la diffusione della sussunzione reale (Chistè, Del Re, Forti, pp. 20-34) e il vettore attraverso cui si articola il modo di produzione eterosessuale (Zappino, 2019). Lo spazio domestico, oltre ad essere uno spazio intimo, è uno spazio attraversato completamente dai rapporti di forza sociali, e, ancor più sottilmente, per tornare alle analisi di Del Re, legata alla strutturazione non solo del salario diretto attraverso la divisione sociale e sessuale del lavoro centrata su una forza-lavoro storicamente maschile, ma anche di quello indiretto, ovvero delle forme di welfare erogate dalle agenzie statali che rispondono a determinati criteri di unità sociale come la famiglia. Il lavoro domestico e quello riproduttivo sono stati considerati, senza ombra di dubbio alcuna, forme di plusvalore, di lavoro non pagate, ma egualmente centrali nella produzione del plusvalore. Hester e Srnicek articolano queste riflessioni analizzando le trasformazioni tecnologiche che hanno attraversato la sfera della riproduzione, che non è stata risparmiata dai cambi di paradigmi e dalle crisi finanziarie. Quella che gli autori chiamano «the industrial revolution» of the home riguarda proprio la rivoluzione tecnica che ha investito il lavoro domestico, prima con l’introduzione dal dopoguerra degli elettrodomestici e poi con la digitalizzazione degli stessi servizi domestici. Attraverso queste coordinate, emerge con chiarezza il concetto di «femminilizzazione del lavoro» formulato da Morini e Marazzi, in un contesto di intensificazione della tecnologia nella sfera della riproduzione, sia nello svolgimento delle mansioni che nella gestione programmatica dell’offerta di servizi. Pulizia, cura delle persone e cucina vengono trasformate in opportunità di lavoro e sottoposte a standard di efficienza; nel campo della pulizia, ad esempio, l’ossessione borghese per l’ordine, la trasparenza e la pulizia viene traslata nell’ordine e nella pulizia domestica calcolata attraverso gli standard lavorativi della piattaforma che offre il servizio. O come nel caso del cibo, in cui la dimensione «globale» dell’offerta culinaria viaggia di pari passo con lo sfruttamento delle componenti dello stesso settore, ossia di chi è materialmente deputato a sfornare pranzi e manicaretti e di chi lo distribuisce.

Al netto delle singole mansioni, questa forma di riproduzione è legata strettamente alla funzione soggettiva e sociale che riveste «la casalinga», elemento che Hester e Srnicek mettono in evidenza, così da chiarire la struttura verticale e verticistica della riproduzione su scala familiare. Alla soggettività del «breadwinner», di colui che provvede alle esigenze economiche della famiglia, si contrappone la figura «ancillare» della casalinga che assume su di sé il peso della cura e della riproduzione. Da questo derivano due conseguenze: la prima è quella che, con Melinda Cooper, è possibile definire «funzione panottica della famiglia», come forma ulteriore di erogazione, gestione e amministrazione della forza-lavoro (che si collega alle forme di disciplinamento attraverso il governo del salario indiretto accennate in precedenza); la seconda, connessa a quest’ultima, è la moltiplicazione del lavoro per la soggettività femminile, ovvero la compresenza di lavoro salariato e lavoro di cura per molte delle soggettività: l’esaltazione neoliberale della donna lavoratrice e madre rafforza queste posizioni discorsive e incentiva il mantenimento dei rapporti sociali esistenti. Anche la struttura architettonica dell’abitazione, concentrando lo sguardo sulle trasformazioni delle modalità dell’abitare e del vivere seguite alla seconda guerra mondiale, è progettata per agevolare la conduzione maschile della famiglia e contemporaneamente per farne una sorta di spazio per l’intimità femminile, così da articolare le due forme di conduzione della famiglia, ovvero quella centrata sull’ordine simbolico del padre, legata alla riproduzione dei valori sociali imperanti, e quella legata ad una certa forma dell’ordine simbolico della madre, basata sul senso di colpa e sul legame esclusivo con la figura femminile.

A questa altezza, sono evidenti la posizione occulta e allo stesso tempo fondamentale del lavoro di cura all’interno della divisione sessuale del lavoro e la sua totale gratuità, tanto da poter essere considerato a tutti gli effetti una prestazione tanto necessaria da rivendicarne pubblicamente l’esistenza e il riconoscimento politico ed economico. Dentro una siffatta strutturazione della divisione sociale e sessuale del lavoro, l’innovazione tecnologica, così come mostrato da entrambi gli autori, intensifica il peso delle prestazioni lavorative e le moltiplica, creando sia nuove categorie soggettive di lavoratrici e lavoratori, sia nuove categorie di consumo legate ai bisogni che le stesse tecnologie domestiche stimolano.


Utopie comuni

Il quinto capitolo del volume, Spaces, dopo aver discusso la struttura capitalista dello spazio domestico, apre la trattazione del volume sulle forme di progettualità conflittuali ed utopiche che hanno attraversato la sfera della riproduzione. Pratiche del vivere in comune, della gestione collettiva degli spazi abitativi, di nuove forme architettoniche della casa diventano nodi della costruzione di un contro-immaginario legato all’«after-work». Gli esempi storici portati da Hester e Srnicek appartengono alla storia e alla memoria delle insorgenze della classe operaia, a partire dal tentativo comunardo di costruire «luxury for all» attraverso l’autogestione del potere politico e la socializzazione delle esperienze di vita oltre i limiti della giornata lavorativa. Ad essere chiamate in causa sono le pratiche di autovalorizzazione della classe, in tutti i campi. Uno dei casi che presentato riguarda la costruzione del «Karl-Marx Hof» di Vienna, che per Claudio Greppi e Manfredo Tafuri rappresentava un tentativo rivoluzionario di migliorare la vita della classe operaia austriaca a partire dalla garanzia del diritto all’abitare, che materializza un nuovo modo di intendere l’abitazione, sganciando quest’ultima dalla sua funzione piccolo-borghese di proprietà individuale e legandola ad una funzione sociale, con gli abitanti coinvolti direttamente nella gestione collettiva dei fabbricati (Galimberti, 2023). Oltre questa funzione primaria, la presenza di spazi e servizi comuni all’interno delle strutture avrebbe dovuto favorire, nel progetto originario, una ulteriore forma di condivisione delle vite e avrebbe dovuto porre le basi per la trasformazione stessa, in senso anticapitalista, dei rapporti sociali. Questa stessa forza progettuale la si ritrova nei primi anni dell’esperienza sovietica, in quel radicale processo di soggettivazione del «byt», ovvero nel tentativo pratico e concreto di costruire donne e uomini nuovi. Inoltre, la si trova nella critica radicale di stampo francofortese (i progetti di Ernst May) nell’immaginazione di nuove forme di design e nel tentativo socialista di dare una casa a tutte e tutti come alternativa possibile all’avanzare dei fascismi.

Ed è proprio questo tentativo di reinventare le relazioni sociali, all’interno dei processi di trasformazione legati al riformismo radicale (come nel caso dell’austromarxismo), alla pratica rivoluzionaria comunista estesa sull’intero milieu sociale o a quelle multiculturali a rimarcarne con forza l’attualità. Ripensare infatti alla riproduzione come elemento centrale del legame sociale, infatti, comporta una necessaria riflessione sul concetto di cooperazione. Gli autori mettono a tema anche le pratiche comunitarie messe in atto dalle contro-culture sessantottine, che provarono a reinventare forme-di-vita sganciate dallo stretto economicismo dei rapporti sociali imperanti e, con il linguaggio d’epoca, basate sul valore d’uso generato dalle esperienze di condivisione radicale praticate all’interno delle comunità stesse. A questi elementi se ne può aggiungere uno ulteriore, che caratterizzò i movimenti anticoloniali, quelli femministi e quelli gravitanti nell’area dell’Autonomia di classe – ovvero le soggettività che provarono a sovvertire i rapporti di forza all’interno dei paesi a capitalismo avanzato – le cui pratiche furono rivolte non tanto alla costruzione di nuove agenzie di comando sociale, quanto all’eliminazione della disciplina della vita attraverso il lavoro salariato, anche nelle sue espressioni razziali e sessiste. Queste soggettività, materializzando il rifiuto del lavoro attraverso l’autovalorizzazione della forza-invenzione, dei saperi e delle ricchezze, e la costruzione di robusti vettori di contropotere socialmente diffusi, resero lampante la forza del desiderio di una vita libera dalla disciplina lavorativa e dalle sue conseguenze sociali. Per usare altre parole, i movimenti legati alle differenti forme del desiderio di autonomia sociale materializzarono quella che Deleuze e Guattari hanno chiamato macchina da guerra, ovvero una forma differente di abitare lo spazio e di praticare la socializzazione del potere, strappandolo all’avocazione coatta dello Stato e ricodificando costantemente i desideri della soggettività nello spazio striato dei rapporti politici. La questione dirimente oggi è proprio quella legata alla pensabilità ed alla praticabilità di macchina da guerra derivate dalle forme attualmente assunte dalla composizione di classe, che, posto in altro modo, è il tema che percorre l’ultimo capitolo del volume, intitolato per l’appunto After Work. La prima cosa che entrambi gli autori sottolineano è lo sganciamento della libertà sociale dalla necessità del lavoro, ovvero la liberazione totale del tempo di vita dal tempo di lavoro. In questo senso, il lavoro da necessità obbligatoria deve essere trasformato in libera scelta: sia ben chiaro, non è un processo che può avvenire irenicamente dall’oggi al domani, ma che passa necessariamente dal ripensamento dei mezzi usati e degli scopi della produzione capitalista. La difficoltà di questo passaggio, concretamente, comporta una trasformazione «minima» della sfera della riproduzione e della cura. In questo senso si può ripensare al concetto di «commonal care» attraverso l’attenzione che Etienne Balibar ha invitato a porre sul «servizio pubblico», ovvero dalla dimensione concreta che la cura come contropotere sociale può e deve assumere, sganciata tanto dall’interesse privato quanto da quello statale. Il crollo verticale del servizio pubblico ospedaliero e più in generale dei servizi di prevenzione, infatti, ha visto il sorgere di alternative dal basso, di vere e proprie strutture autogestite che hanno messo al centro della propria azione la salute delle soggettività e la vivibilità degli spazi comuni, offrendo un servizio gratuito che ha permesso di dare forma concreta al bisogno diffuso di assistenza senza passare dalle forche caudine delle storture e delle gerarchie delle macerie del sistema sanitario statale. Partendo dal concetto di cura, entrambi gli autori volgono lo sguardo verso l’immaginazione di forme di vita collettive, forme che per dirla con Kristin Ross tendono a «comunalizzare» il quotidiano e che riguardano le pratiche minute e la gestione della riproduzione sociale stessa. In un tale contesto, la socializzazione dei dispositivi tecnici fa parte di un progetto completo di trasformazione sociale verso una società post-capitalista, al fine di migliorare il lavoro domestico e rivolgere completamente l’organizzazione sociale del lavoro. Inoltre, l’avvento della dimensione comune immaginata nel testo rende necessaria anche la reinvenzione della stessa progettazione architettonica, che deve dare forma concreta all’utopia post-capitalista. Così come il byt sovietico voleva reinventare la soggettività dentro l’impresa rivoluzionaria, l’invenzione di un comunismo delle piattaforme ha l’ambizione di essere il vettore delle linee di fuga accelerazioniste che esistono dentro e contro il capitalismo digitale. Il punto di forza di questo progetto rivoluzionario va ricercato nella liberazione dalla necessità del lavoro, ed è proprio l’insistenza su questo tema a rendere interessante il confronto con l’analisi di Hester e Srnicek.


Conclusione: esiste qualcosa dopo il lavoro?

L’immaginazione è sempre produttiva di effetti materiali: il valore dell’utopia risiede, infatti, nella «debole forza messianica» che può alimentare il pensiero e dare forza alle pratiche anche nei momenti di scoramento e nelle fasi in cui i rapporti di forza inducono a pensare il contrario. In After Work, infatti, gli autori affiancano ad una puntuale analisi degli effetti del capitalismo digitale nella sfera della riproduzione, un manifesto sulla necessità imminente ed immanente di una società post-lavorista. Seppur affascinati dall’euforia che questo progetto può generare, bisogna sempre ancorarlo alla materialità dei rapporti sociali e a quella, ancora più dirimente, della composizione sociale.

Nel dare un giudizio sul libro si può e si deve sottolineare l’attenzione riposta dagli autori alla specifica radice femminile e femminista del rifiuto del lavoro in generale e del rifiuto del lavoro riproduttivo, specialmente il rifiuto della gratuità di quest’ultimo. Kathi Weeks, in The problem with Work, ha sottolineato gli stretti legami che sono sempre esistiti tra femminismo e marxismo su questo tematiche, sottolineando con chiarezza come le richieste operaie legate al salario e alla riduzione complessiva della giornata lavorativa andarono di pari passo con quelle omologhe formulate dalle organizzazioni femministe, legate al riconoscimento della prestazione riproduttiva e di cura e alla rivendicazione di un salario domestico e di un reddito generale come alternativa allo sfruttamento operato attraverso la divisione sessuale del lavoro. Oggi, dentro un capitalismo che ha eliminato le barriere tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo accelerando ed estendendo l’estrazione di plusvalore, un programma minimo di conflittualità non può che muoversi all’interno dei solchi scavati dalle lotte nella sfera della riproduzione, mutuandone la forza costituente e attualizzandone le rivendicazioni. Allo stesso tempo, discutere sulle forme alternative di riproduzione sociale antagonista consente di focalizzarsi sul più complessivo impatto dell’organizzazione capitalista sulle condizioni stesse di vivibilità soggettive ed ecologiche. Una riflessione non catastrofista né umanitaria sugli effetti strutturali della crisi ecologica, di conseguenza, consente di ripensare sia alle forme di rifiuto delle produzioni nocive e delle loro supply chains globali, sia alle forme di ricambio organico tra soggettività e ambiente con cui non riprodurre l’impulso darwiniano alla sopraffazione ed alla distruzione del milieux biologico e quello ambientale, sfuggendo a piè pari dai millenarismi ecologisti e dai neo-comunitarismi settari.

Per concludere queste riflessioni, un programma all’altezza dei temi, fondamentali per comprendere le attuali coordinate della lotta di classe, che il volume di Hester e Srnicek pone, bisogna percorrere, per esemplificare, la strada tortuosa che dalle «Grandi Dimissioni» va all’«After Work». Sostanzialmente si tratta si di trovare dei punti di connessione tra la fuga dalle forme nocive che ha assunto la prestazione lavorativa, indirizzata alla ricerca di condizioni di vita migliori, e l’eliminazione della necessità stessa del lavoro, ovvero il tema al centro del testo discusso. La transizione è lo iato che separa questi due punti, ed è il terreno su cui si impiantano le dinamiche della composizione sociale e vi si organizzano, strutturandole, le rivendicazioni derivanti dalle lotte contro il dominio capitalista. Ed è, inoltre, il terreno su cui si producono gli esperimenti istituzionali volti ad allargare, in forme socialmente diffuse, gli elementi di rifiuto dell’esistente e di rafforzamento delle alternative comuni che la soggettività pratica a differenti livelli. Il terreno della transizione è il terreno in cui si costruisce l’autonomia soggettiva della forza-lavoro, in cui si sperimentano processi di soggettivazione legati all’autovalorizzazione, attraverso la socializzazione dei saperi e l’invenzione di forme di uso differenti dei dispositivi tecnologici e digitali. Il progetto di Hester e Srnicek attinge alla stessa radice del progetto leniniano della connessione tra istituzioni di potere della classe e apparati tecnologici, ma si perde leggermente per strada nel momento in cui si lega alla teleologia sviluppista dell’autodistruzione del capitalismo attraverso l’intensificazione automatica delle sue contraddizioni, che neutralizza la dimensione soggettiva di quella forma di accelerazionismo enunciata dello stesso Lenin. Ciononostante, bisogna valorizzare il conatus immediatamente politico del libro, ovvero l’ottimismo soggettivo presente in questa filosofia prometeica della liberazione attraverso la tecnologia. Anche questo ottimismo, all’apparenza, appartiene alla dimensione onirica. Ma, come disse T.E.Lawrence, è il «sognare-collettivamente!» ad occhi aperti che rende pericolosa questa attività, che cioè dota di effetti pratici concreti la stessa attività onirica. Sognare una vita libera dal lavoro, nel tempo presente, vuol dire lottare per un reddito incondizionato con cui allargare le maglie della società capitalista, non per abbatterla simultaneamente, ma per afferrare spazi di libertà all’interno di essa. After Work? Si, ma con gli occhi puntati sul kairos rivoluzionario che può sempre emergere, quando il nemico meno se lo aspetta!



Bibliografia minima

L.Christé, A Del Re, E.Forti: Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione. Feltrinelli, 1979

M.Cooper: Family Values: Between Neoliberalism and the New Social Conservatism. Zone Books, 2019

J.Galimberti: Images of Class. Operaismo, Autonomia and the Visual Arts (1962-1988). Verso Books, 2023

K.Ross: La Forme-Commune. La lutte comme manière d’habiter. La Fabrique, 2019

K.Weeks : The Problem with Work. Feminism, Marxism, antiwork politics, and postworks imaginaries. Duke University Press, 2011

F.Zappino: Comunismo Queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità. Meltemi, 2019



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Vincenzo Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale

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