
Sul tema della «crisi della militanza», trattato da tempo sulle pagine di questa sezione di Machina, pubblichiamo uno stralcio del libro edito da DeriveApprodi: Gli autonomi. Vol. IX. I «padovani». Dagli anni Ottanta al G8 di Genova 2001, di Gianmarco De Pieri, Piero Despali, Massimiliano Gallob, Vilma Mazza.
Immagine: Sergio Bianchi
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Per me il concetto di militanza è sempre stato legato al progetto di rivoluzione comunista, impensabile senza un’organizzazione di partito e una tattica e una strategia ben precise. Fuori da questa realtà complessa e articolata, è inutile parlare di militanza, semplicemente si parla di altro. La sua qualità discende dalla qualità del progetto. Quanto al militante, all’essere individualmente un militante, molto dipendeva secondo me dalla qualità di questi elementi, da come erano combinati assieme; invece mi era sempre apparso secondario il suo carattere personale, essere così e così. Se eri un musone, tale restavi anche nella pratica militante, se eri simpatico, rimanevi simpatico a prescindere. Parlare come accade oggi di militanza gioiosa e meno gioiosa, aperta oppure chiusa, a me pare un approccio antistorico perché, riguardo ai miei anni, la realtà era quella di stare dentro una determinata organizzazione col suo progetto politico e l’armamentario e i tempi stabiliti per portarlo avanti. Certo, la strategia era di lungo periodo, però era chiara e ben definita nei suoi passaggi tattici. La qualità del tuo essere militante, ripeto, ne dipendeva. Quando in seguito alla katastrophé di cui abbiamo detto tutto questo verrà a mancare, e mi riferisco in particolare al venir meno della chiarezza nell’approntare strategia e tattica, non potremo più parlare di militanza. Ricordiamoci della battuta di Marx, quel «ben scavato, vecchia talpa». Era stato Lenin a dare alla talpa le fattezze del partito inventandosi di sana pianta il militante a tutto tondo. «L’organizzazione dei rivoluzionari – diceva – deve comprendere prima di tutto e principalmente uomini la cui professione sia l’attività rivoluzionaria». Alla fine degli anni Ottanta scorgevo tra le macerie anche quelle della mia organizzazione, ridotta ormai all’ombra di se stessa e molto simile all’allegra taverna di Hogarth. Ma il militante che io stesso ero? Mi era già capitato di scorgere, sparse qua e là in un breve tratto di giardino incolto, montagnole di riccioli di terra. Sicuramente una talpa, ma perché così tante? Ed eccomi a ricamare sulla talpa di Lenin che ha perso la sua bussola. E me la immaginavo mentre scava e scava alla ricerca di una via d’uscita. Altro che la talpa di Kafka, mi dicevo, tutta presa dalla sua tana e dalla mania di abitarla costi quel che costi; questa qua cerca vie nuove, aria nuova. Una chiara allegoria della mia condizione. Tornava l’ansia di Lenin sul Che fare?. La risposta potevo solo approssimarla e non era univoca. Ne pensi una ma hai subito bisogno di verificarla sicché è di sperimentazione che parliamo. E questo, ripeto, in mancanza di una strategia chiara di lunga durata e in presenza di tattiche confuse che sempre più ti fanno pensare al classico gioco della mosca cieca.
Il passaggio dal militante al soggetto è comprensibile dentro questo contesto. Al militante che alla sera attraversa sicuro la strada ben illuminata, subentra chi, assumendosi per intero la responsabilità del rischio, si fa carico di attraversarla, spesso e per lo più in solitudine, al buio. Parlo di soggetto al singolare in questa accezione e lo individuo, guarda caso, proprio in chi nella seconda metà degli anni Ottanta praticava una militanza part-time o a ore. Mi ero reso conto fin da subito che era così e basta e che era inutile salire in cattedra per una lezione di coerenza. Questi compagni facevano se erano contenti di fare, non già per dovere di partito; semplicemente sceglievano da sé di essere un soggetto che agiva. Rispetto alla classica figura del militante, in questo caso erano decisive proprio le qualità personali; un imbecille difficilmente avrebbe prodotto qualcosa di buono, mentre uno afflitto da yuppismo non lo avresti incontrato sulla tua strada. Ritrovavi in questo nuovo compagno, ma cambiate di segno, tutte quelle qualità, quelle doti, che il nascente capitalismo molecolare cercava sul mercato del lavoro per migliorare la propria resa. Nessuno più gli garantiva il conseguimento degli obiettivi; doveva essere lui a farsi carico delle funzioni assolte fin lì dall’organizzazione di partito, come riuscire a guardare lontano (Lenin lo chiamava «innovazione strategica») oppure a destreggiarsi nella mutevolezza del contingente. È con questo nuovo attivismo politico che comincio a confrontarmi alla fine degli anni Ottanta e poi, vieppiù, nel decennio successivo. Per questo motivo ho assunto nei confronti del passato, compreso il nostro, un atteggiamento laico: nessun arroccamento ideologico a sua difesa. Averne parlato, mi obbliga ora a tornare sul tema della memoria perché il militante è la sua storia e della sua memoria non può fare a meno. La memoria è la sua identità.
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